ALFREDO MANTOVANO, Cristianità n. 184-185 (1990)
1. Dalla qualifica di penale irrilevanza degli aborti eseguiti in conformità alle norme della legge “[…] non se ne può minimamente far discendere l’equazione aborto = diritto civile, non si offende in alcun modo la coscienza di quanti giudicano l’aborto come un fatto moralmente illecito”; “la ratio della proposta di legge” è quella di “[…] ampliare la prevenzione dell’aborto, considerato come un male evitabile, e regolamentare, per circoscriverne l’entità e i danni, la piaga dell’aborto clandestino, facendo leva sull’intervento pubblico e sulla responsabilità della donna” (1): così, fra l’altro, si leggeva nella relazione di maggioranza — presentata dagli onn. Antonio Del Pennino e Giovanni Berlinguer — alla proposta divenuta la legge n. 194 del 22 maggio 1978.
“La grande semplificazione introdotta dalla pillola garantirebbe meglio quel diritto della donna all’interruzione della gravidanza (in certe condizioni) che viene troppo spesso negato dalla inadeguatezza delle strutture sanitarie, da una obiezione di coscienza del personale medico che supera il 60 per cento. E, poiché si tratta di garantire i diritti della donna, l’unico serio limite all’uso della pillola abortiva potrebbe derivare dai rischi per la sua salute” (2): in questi termini l’on. Stefano Rodotà, che quando adopera il termine “diritto” sa bene di che cosa parla, ha manifestato il proprio apprezzamento per la richiesta avanzata all’inizio del mese di novembre del 1989 dalla sen. Elena Marinucci, sottosegretario alla Sanità, di introdurre in Italia il composto chimico abortivo RU 486 (3). E lo stesso on. Giovanni Berlinguer, attuale “ministro della Sanità” nel “governo ombra” del Partito Comunista Italiano, ha affermato in proposito che “non si può aspettare. Bisogna chiedere subito alla Roussel Uclaf [la casa produttrice del composto] di consentire la sperimentazione della pillola anche in Italia, verificarne rapidamente vantaggi e svantaggi e, se i primi sono superiori, introdurla nel Servizio sanitario nazionale” (4); infatti, secondo il parlamentare comunista sarebbe proprio la legge n. 194 a imporre questo passo, dal momento che all’articolo 15 essa prevede “[…] l’aggiornamento […] sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità psichica e fisica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza”.
Dunque, se non fosse stato per la prospettata possibilità di introdurre anche nel nostro paese la “pillola” RU 486, il dodicesimo anno di aborto “legale”, compiutosi nel maggio del 1990, non avrebbe offerto elementi di novità sostanziali. In verità, il fatto che in dodici anni la legge n. 194 abbia consentito di sopprimere circa due milioni e mezzo di vite umane basta per far ritenere il tema “aborto” tutt’altro che “superato” o passato di moda; e tuttavia la singolarità del “caso RU 486” offre uno spunto in più per tornare a riflettere sugli effetti e sulle contraddizioni di quel testo normativo, del quale, all’inizio del 1990, i vescovi italiani hanno ribadito la qualifica nei termini di “legge immorale, gravemente ingiusta, contraria ai diritti più elementari della persona e ai doveri fondamentali della società” (5).
2. Che cos’è la RU 486? Si tratta di un antiormone — prodotto nei laboratori della Roussel Uclaf e attribuito al lavoro di ricerca, fra gli altri, del professor Étienne-Émile Baulieu — di notevoli potenzialità, il mifepristone, in grado di impedire o di interrompere l’annidamento nell’utero dell’ovulo fecondato: esso, infatti, blocca l’ormone della gravidanza, il progesterone, e causa l’aborto del feto. Poiché l’utilizzo del composto chimico da solo ha fatto riscontrare un tasso di insuccessi pari al 15%, la sua efficacia abortiva viene ordinariamente aumentata attraverso l’associazione con prostaglandine: si è accertato che in tal modo si perviene all’aborto nel 95% dei casi di assunzione del prodotto (6).
È stato opportunamente osservato che la RU 486 non è un farmaco, per la semplice ragione che la gravidanza non è una malattia; esso è, al contrario, “[…] il primo pesticida anti-umano della storia, la prima pillola che non ha altro scopo se non quello di sopprimere la vita” (7). Si tratta, peraltro, di un pesticida la cui assunzione non può avvenire in modo indiscriminato, e che prevede una serie di controindicazioni.
In Francia alla donna che intenda prendere la “pillola” — e che, allo scopo, deve rivolgersi all’ospedale o al centro a ciò abilitato — viene consegnata un’”informazione” che termina con un formulario (8): la lettura di questo documento è di estremo interesse, poiché in nessun modo sospettabile di pregiudizio nei confronti del prodotto in questione. Nell’”informazione” viene vietato l’utilizzo del prodotto nei seguenti casi: “* se la gravidanza non è confermata,
“* in caso di sospetta gravidanza extrauterina,
“* se il primo giorno delle ultime regole dista più di 50 giorni,
“* in caso di controindicazioni all’impiego di prostaglandine,
“* in caso di insufficienza surrenale, di anomalia della coagulazione sanguigna o di somministrazione di medicine anticoagulanti, di malattia cronica (diabete curato con insulina, insufficienza renale, insufficienza epatica),
“* in casi di trattamento prolungato con corticoidi”.
Si avverte pure che, siccome il metodo fallisce nel 5% dei casi, la donna ha l’obbligo di farsi controllare dopo un periodo di 8-12 giorni dalla assunzione: “In caso di fallimento, l’interruzione di gravidanza o l’evacuazione di resti placentarï non possono essere ottenuti che con mezzi chirurgici” e, qualora la gestazione prosegua, “[…] il feto o il bambino nascituro sarebbe suscettibile di essere malformato”. Non mancano le indicazioni sulle conseguenze dell’ingestione del composto: “Come in tutte le interruzioni di gravidanza, sopravvengono dei sanguinamenti uterini (metrorragie) nella quasi totalità dei casi […] talvolta assai abbondanti, potendo allora necessitare un trattamento d’urgenza. Pertanto voi non dovete allontanarvi dal centro che vi ha prescritto [il prodotto] fino alla visita di controllo […].
“In certi casi dopo la somministrazione delle prostaglandine, sopravvengono dolori addominali che richiedono un trattamento, nausee, vomiti, diarrea, malessere. Quindi questo deve essere seguito da sorveglianza per alcune ore nel centro di prescrizione”.
Nel formulario che segue l’”informazione” la gestante deve sottoscrivere la dichiarazione di aver preso esatta conoscenza di tutti i rischi connessi con l’assunzione del prodotto; poi, il medico del centro che prescrive il mifepristone certifica in calce al modulo l’avvenuta ingestione del composto da parte della donna, e incolla sullo stampato l’etichetta del flacone.
3. L’insieme delle precauzioni che accompagnano la somministrazione della RU 486 testimonia in modo evidente la pericolosità di essa per la salute della donna (9). Ma tutto ciò non sembra essere stato tenuto presente dagli entusiastici sostenitori italiani del prodotto, a cominciare dai medici abortisti. “Prendila, che aspetti? Qui non si sta parlando di ferri da calza o di altri mezzi usati finora da donne disperate o ignoranti. Si parla piuttosto di una medicina sperimentata già, e molto positivamente, su 30 mila donne francesi. […] per prendere la pillola abortiva il medico non serve affatto” (10): così il dottor Giorgio Conciani, ginecologo fiorentino, uno dei primi sostenitori dell’aborto libero, ha dichiarato che direbbe a una donna che gli si dovesse presentare con una di queste pillole. Il dato sul quale egli insiste di più è la “liberazione” della donna che conseguirebbe anche in Italia alla diffusione della RU 486: “La verità — aggiunge infatti il medico abortista — è che questo farmaco sovverte l’ordine del potere decisionale, passandolo in mano alla donna” (11).
Quanto ai politici abortisti, essi reclamano la diffusione del composto soprattutto per ridurre il fenomeno dell’obiezione di coscienza. “Quante volte nelle nostre riunioni di donne laiche e di sinistra abbiamo sospirato: “Ah, se ci fosse la Ru-486 potremmo pure fregarcene degli obiettori”” (12): così la sen. Elena Marinucci, che se da un lato emette sospiri “laici e sinistri”, dall’altro trascura che nella legge n. 194 l’obiezione di coscienza non è già qualcosa di cui a cuor leggero un sottosegretario alla Sanità possa “fregarsene”, bensì un diritto formalmente riconosciuto. In altra occasione la parlamentare socialista non ha mancato di sottolineare “l’imperativo morale […] di assicurare alle italiane questa possibilità in più” (13); ha inoltre affermato che “la RU486 ha la straordinaria capacità di abbattere il muro dell’obiezione di coscienza, che sarà sconfitta perché la pillola solleva la donna dalla costrizione delle lunghe attese” (14); e che, se in Italia non venisse autorizzata la “pillola”, una volta che questa fosse “[…] diffusa in Francia, Inghilterra, poi in Spagna e nei Paesi scandinavi, le donne potrebbero facilmente emigrare verso ospedali stranieri alla ricerca di una terapia abortiva non chirurgica, anche se non consentita nei loro Paesi d’origine. Un po’ come è successo per molto tempo per l’aborto, quando erano pochi i governi ad averlo legalizzato” (15).
4. Tuttavia, ci vuole ben poco per rendersi conto che gli argomenti addotti a sostegno della diffusione della RU 486 sono totalmente infondati oltre che — come quello ricordato per ultimo — semplice riproposizione di spettri già evocati all’epoca della “campagna” per l’aborto libero.
Si è già visto prima quali sono i danni alla salute della gestante derivanti dall’assunzione del composto, e che sono denunciati in Francia nella stessa “informazione” che accompagna la dichiarazione da sottoscrivere. Inoltre, si deve riflettere sul fatto che, mentre con procedura del tutto inconsueta la sen. Elena Marinucci all’inizio del mese di novembre del 1989 ha sollecitato la Roussel Uclaf a presentare al ministero della Sanità la documentazione necessaria per la distribuzione in Italia del composto (16), la multinazionale francese ha mostrato ben più di una semplice ritrosia, poiché la prima risposta — data attraverso l’amministratore delegato della Roussel Uclaf Italia, avvocato Roberto Conte — è stata negativa: il funzionario della casa farmaceutica ha spiegato che “mancano le garanzie tecniche che consentono di pensare a una immissione del farmaco sul mercato” (17); e che “il farmaco richiede come elemento tassativo l’assistenza medica e la distribuzione tramite i consultori. In tutti i casi non può essere venduto in farmacia” (18).
La procedura di assunzione della “pillola abortiva” è allora meno rapida di quello di cui si vorrebbe convincere la pubblica opinione. In Francia ci si deve recare in ospedale o nel centro autorizzato almeno tre volte: la prima per firmare il formulario e assumere la RU 486; la seconda, a distanza di quarantotto ore, per ricevere le prostaglandine; la terza, a distanza di 8-12 giorni, per verificare se l’aborto è riuscito, quindi permangono le “lunghe attese” (19) che la sen. Elena Marinucci ritiene di far scomparire. La circostanza che la Roussel Uclaf sia stata — almeno in un primo momento — molto cauta sulla diffusione del prodotto in Italia è significativa e conferma la pericolosità dello stesso: la mancanza di un’adeguata assistenza medica prima, durante e dopo l’ingestione del composto provocherebbe danni oltre che alla salute della donna anche all’immagine internazionale della casa farmaceutica (20).
Le tesi degli entusiastici paladini della “pillola abortiva” non convincono neanche quanto all’eliminazione dell’obiezione di coscienza che conseguirebbe alla sua diffusione.
Delle due l’una: o, come vuole il dottor Giorgio Conciani e quanti la pensano come lui, si ritiene superflua l’assistenza medica in relazione all’ingestione della RU 486 — ma non è chiaro come, in tal caso, la Roussel Uclaf possa domandare la distribuzione del composto in Italia —, e allora si deve avere il coraggio di dire che la pretesa “liberazione” della donna conta più della sua stessa salute, oltre che — ovviamente — della vita del nascituro che viene soppresso e la cui sorte non interessa a nessuno; oppure si deve ammettere, come è imposto in Francia, che l’assistenza medica è necessaria: e allora la questione dell’obiezione di coscienza si ripropone inalterata. Se è vero che il terzo comma dell’articolo 9 della legge n. 194 circoscrive l’esonero riconosciuto al “personale ausiliario ed esercente le attività ausiliarie” al “compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non” all’”assistenza antecedente e conseguente l’intervento”, non si può negare che sia la consegna materiale del mifepristone, sia la somministrazione delle prostaglandine, sia — a maggior ragione — l’eventuale aborto chirurgico da praticare in caso di fallimento della “pillola” costituiscano attività “specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza”.
Si ammetta però, per un momento, di poter distribuire la RU 486 facendo a meno dei medici. I problemi di fronte ai quali ci si troverebbe non riguarderebbero solo la salute della gestante, ma anche la compatibilità formale con le norme della stessa legge n. 194. Infatti, per i primi novanta giorni della gravidanza — e il discorso si limita a questa prima fase perché, come si è visto, la RU 486 è assumibile fino ai primi cinquanta giorni di vita del nascituro — essa prescrive che si seguano le procedure di cui agli articoli 4 e 5, in base ai quali la gestante è tenuta a rivolgersi a un consultorio pubblico, o a una struttura sociosanitaria a ciò abilitata dalla Regione, o a un medico di sua fiducia, ciascuno dei quali deve svolgere i necessari accertamenti medici, tentare un’opera di dissuasione, e rilasciare il certificato che consente di eseguire l’intervento. L’articolo 19, poi, punisce rispettivamente con la reclusione fino a tre anni chi cagiona l’”ivg”, l’interruzione volontaria della gravidanza, e con la multa fino a centomila lire la donna che abortisce senza l’osservanza delle modalità di cui all’articolo 5.
Ora, è certo che se la RU 486 fosse venduta in farmacia o anche distribuita in ambulatorio, ma al di fuori della procedura appena ricordata, in tesi si ricadrebbe nella fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 19. In questo caso, come fare per consentire che il composto RU 486 venga “[…] eventualmente usato nel rispetto delle norme della 194″ (21)?
La realtà, difficile da ammettere, ma che emerge con evidenza da certe apparenti incongruenze, è che, nonostante talune dichiarazioni contrarie — che tuttavia era più facile trovare al momento dell’introduzione dell’ivg “legale” —, l’aborto come configurato dalla legge n. 194 non è un “male evitabile” (22), ma una facoltà concessa ad libitum alla donna. E allora l’incoerenza è soltanto formale: infatti, nella sostanza è del tutto logico, dopo dodici anni di pratica abortiva indiscriminata e a semplice richiesta della gestante, così come di fatto consente la legge n. 194, che il profilarsi all’orizzonte di un sistema in apparenza più pratico e più veloce trovi consensi fra i sostenitori della legalizzazione della ivg.
5. Se i danni fisici derivanti per la donna dall’ingestione della pillola abortiva trovano così scarsa considerazione, un peso praticamente nullo hanno i problemi psicologici, precedenti e seguenti l’assunzione del composto. Eppure non mancano.
Quanto a quelli che la precedono, va ricordato che “[…] l’RU 486 deve essere usato prima della quinta settimana di gravidanza. La decisione di abortire deve essere presa molto rapidamente e precisamente nel momento che la donna è più vulnerabile. Il panico per la scoperta di una gravidanza indesiderata conduce ad affrettate ma irreversibili decisioni fonte di seri drammi futuri” (23); e ciò — volendo attenersi al disposto di quella legge n. 194 della quale viene continuamente ribadita l’intoccabilità — non va certamente nella direzione del contributo, prescritto alla lettera d) dal primo comma dell’articolo 2, che deve essere offerto per “[…] far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza”. Con la RU 486 la gestante in difficoltà si trova ancor più abbandonata a sé stessa: se basta la “pillola”, le pressioni da parte del partner o dei familiari diventano più pressanti; e la solitudine si fa ancora più cupa e deformante per la minorenne. Ciò è stato ben sottolineato dalle poche — ma coraggiose — voci provenienti da schieramenti ideologici tendenzialmente abortisti levatesi contro l’introduzione del composto chimico: per esempio, Giuliano Ferrara, dopo aver definito quest’ultimo un “prezzemolo tecnologico”, ha aggiunto che esso è pure una “condanna per la libertà e la sicurezza delle donne, anzi un viatico per la loro più completa solitudine […] un verdetto di assoluzione per l’irresponsabilità del comportamento sessuale maschile” (24); e Saverio Vertone, dopo aver notato che “[…] per una persona normale è più facile annientare mille uomini invisibili premendo un pulsante che ucciderne uno solo premendo il grilletto di una pistola a pochi metri di distanza”, ha scritto che l’aborto in pillola rientra in una “[…] fascia neutra nella quale le conseguenze delle nostre decisioni si renderanno sempre meno visibili […], in cui spariscono (non perché non ci siano più, ma perché non si vedono più) il sangue, il dolore e la morte” (25).
I problemi di natura psicologica aumentano dopo l’assunzione della RU 486; e ciò sia “[…] perché la donna stessa diventa l’agente dell’aborto” (26), in quanto non patisce un intervento da parte di altri, ma ingerisce personalmente la “pillola”, sia perché per circa dieci giorni vive nell’incertezza e nell’angoscia sull’efficacia dell’azione della stessa, fino al momento della visita di controllo, subendo nel frattempo perdite ematiche.
L’incertezza e l’angoscia sono poi destinate a crescere se dovesse affermarsi l’uso, proposto dal professor Étienne-Émile Baulieu, di adoperare la RU 486 come “anticoncezionale”, da prendere durante il ciclo, una volta al mese, indipendentemente da una gravidanza accertata, e da far funzionare “[…] come la spirale, che impedisce l’impianto dell’ovulo” (27). Merita di essere segnalato che, in questo caso, è già pronto il termine di “contragestione”, coniato dallo stesso professore (28), per mascherare come qualcosa di simile alla contraccezione quanto è solo un aborto, con ciò seguendo modalità già consolidate, quelle per cui in Italia la legge sul divorzio e la legge sull’aborto non adoperano mai questi termini, ma le espressioni meno traumatiche e più ampie, nel primo caso di “cessazione degli effetti civili del matrimonio”, e nel secondo caso di “interruzione volontaria della gravidanza”.
Ma non è pronto il rimedio perché la gestante non si arrovelli nel dubbio di avere eliminato il nascituro; né per impedire che di questo passo, e alla distanza, si pervenga alla totale indifferenza circa gli effetti che certi atti hanno verso il mantenimento in vita di un essere umano.
Inutile infine far presente che il padre del nascituro, sia egli coniugato o no con la gestante, può restare del tutto all’oscuro dell’accaduto dal momento che ciò non costituisce un problema per la Corte Costituzionale italiana, la quale ha da tempo pensato bene di stabilire che l’eliminazione del feto non è affare che riguardi il genitore (29).
6. “[…] di aborto si tratta, ossia di deliberata eliminazione della vita umana, per altro a scapito di ogni reclamata socializzazione e del superamento della clandestinità” (30): in questo modo i vescovi italiani hanno commentato il prospettato ricorso anche nel nostro paese alla RU 486. E hanno inserito la costruzione di “una cultura della vita” nel quadro della necessaria “nuova evangelizzazione” (31), intrapresa da Papa Giovanni Paolo II dall’inizio del suo Pontificato: i “passi avanti” che da dodici anni si fanno contro la vita umana innocente e contro la vera dignità della donna — dei quali l’ulteriore banalizzazione della vicenda abortiva attraverso l’introduzione della “pillola” francese rappresenterebbe una nuova tappa — dovrebbero convincere quanti a vario livello e a diverso titolo sono dagli stessi vescovi qualificati come “responsabili di fronte alla vita” (32) — non ultimi i politici (33) — a non perdere altro tempo prezioso.
Alfredo Mantovano
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(1) Camera dei Deputati, Relazione delle Commissioni riunite IV e XIV (Giustizia — Igiene e sanità). Presentata alla Presidenza il 30 novembre 1977, in G. Galli e altri, L’interruzione volontaria della gravidanza (Commento alla legge 22 maggio 1978, n. 194 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”), Giuffrè, Milano 1978, p. 397.
(2) Stefano Rodotà, Paura della libertà, in Panorama, anno XXVII, n. 1231, 19-11-1989, p. 58.
(3) Nel luglio del 1990 la sen. Elena Marinucci ha sollecitato il parlamento a votare una risoluzione che impegni il governo a presentare la richiesta di autorizzazione della pillola per abortire: si tratta di un’iniziativa singolare, non essendo consueto che un sottosegretario di Stato, invece di rivolgersi al ministro titolare del dicastero di cui fa parte, scelga come interlocutori le due Camere allo scopo di ottenere una spinta all’impegno del medesimo ministro (cfr. Avvenire, 21 e 31-7-1990).
(4) Cit. in Carlo Gallucci, L’altro aborto, in L’Espresso, anno XXV, n. 46, 19-11-1989, p. 41.
(5) Conferenza Episcopale Italiana, Documento pastorale Evangelizzazione e cultura della vita, dell’8-12-1989, n. 23.
(6) Cfr. Rudolf Ehmann, Il composto RU 486 e il mito della “pillola”, intervista a cura di Ermanno Pavesi, in Cristianità, anno XVII, n. 169, maggio 1989; cfr. anche Jerôme Lejeune, RU 486 il pesticida umano, in RU 486 Genocidio brutale (Dossier sulla pillola del mese dopo), supplemento al n. 1/1990 di Sì alla Vita, mensile del Movimento per la Vita Italiano, p. 10.
(7) J. Lejeune, “Ecco i guasti di quel pesticida”, intervista a cura di Andrea Costanzi, in Il Sabato, anno XII, n. 13, 31-3-1990, p. 51.
(8) L’”informazione” e il formulario vengono riprodotti in lingua francese, seguiti da una traduzione in italiano, in RU 486 Genocidio brutale (Dossier sulla pillola del mese dopo), cit., pp. 37-42; le citazioni seguenti senza indicazione di fonte sono tratte da questi documenti.
(9) Cfr. anche, più in esteso, ibid., p. 23. Va segnalato che, di recente, una legge federale ha proibito l’importazione negli Stati Uniti d’America della “pillola abortiva”, e che la Hoechst, azionista di maggioranza della Roussel Uclaf, ne ha sospesa la produzione: cfr. Mario Marcolla, Aborto, giornali alla sbarra, in Avvenire, 10-8-1990.
(10) Avvenire, 8-11-1989.
(11) Ibidem.
(12) Cit. in Valeria Gandus e Bianca Stancanelli, E tu partorirai con dolore, in Panorama, anno XXVII, n. 1231, cit., p. 54. L’area dell’obiezione di coscienza è in significativo costante aumento: nel 1988 essa comprendeva il 61,8% dei ginecologi, il 54,6% degli anestesisti e il 52% dei paramedici (cfr. Relazioni sull’attuazione della legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza [1987 e 1988] Atti Parlamentari, X Legislatura, Camera dei Deputati, Doc. LI, n. 4, p. 156).
(13) Avvenire, 17-1-1990.
(14) Ibid., 13-12-1989.
(15) Ibid., 31-7-1990.
(16) “Neppure durante un’epidemia il governo si sognerebbe di chiedere a una ditta farmaceutica di registrare e distribuire un farmaco”, ha commentato il ministro della Sanità on. Francesco De Lorenzo, cit. in V. Gandus e B. Stancanelli, art. cit., p. 52.
(17) la Repubblica, 4-11-1989.
(18) Ibidem. Al termine di un incontro svoltosi il 9 novembre 1989 fra la sen. Elena Marinucci e l’avvocato Roberto Conte, la prima ha escluso il permanere di preclusioni da parte della Roussel Uclaf a introdurre la pillola abortiva in Italia; secondo le previsioni avanzate in tale circostanza, la ditta farmaceutica dovrebbe presentare la relativa documentazione intorno al mese di settembre del 1990: cfr. Avvenire, 10-11-1989.
(19) Avvenire, 13-12-1989.
(20) Il controllo delle azioni della società Roussel Uclaf è per il 36% nelle mani del governo francese e per il 54,5% — come già ricordato — in quelle del gigante farmaceutico tedesco occidentale Hoechst; quest’ultimo, a sua volta, “[…] è una delle tre società formate dalla cosiddetta “dissoluzione” dopo la seconda guerra mondiale, della I. G. Farben. La I. G. Farben gestiva il proprio campo di concentramento e aveva pure una struttura ad Auschwitz”, ove era adoperato “il gas Zyclon B prodotto sotto brevetto della I. G. Farben” (RU 486 Genocidio brutale [Dossier sulla pillola del mese dopo], cit., p. 19).
(21) Così l’on. Livia Turco, in il Giornale, 5-11-1989.
(22) Camera dei Deputati, Relazione delle Commissioni riunite IV e XIV (Giustizia — Igiene e sanità). Presentata alla Presidenza il 30 novembre 1977, cit., ibidem.
(23) J. Lejeune, RU 486 il pesticida umano, cit., p. 11.
(24) Giuliano Ferrara, Maschio sempre più irresponsabile con la nuova “pillola” per abortire, in Corriere della Sera, 5-11-1989.
(25) Saverio Vertone, La morale opaca, ibid., 4-11-1989.
(26) J. Lejeune, RU 486 il pesticida umano, cit., p. 10.
(27) Gianna Milano, E se bastasse una volta al mese?, in Panorama, anno XXVII, n. 1231, cit., p. 57.
(28) Cfr. RU 486 Genocidio brutale (Dossier sulla pillola del mese dopo), cit., p. 14.
(29) Cfr. Corte Costituzionale, Ordinanza 31 marzo 1988 n. 389, in Il Foro Italiano, n. 7-8, luglio-agosto 1988, parte I, coll. 2110 ss.
(30) Conferenza Episcopale Italiana, doc. cit., n. 9.
(31) Ibid., n. 42.
(32) Ibid., 3, V.
(33) Cfr. ibid., n. 60. Va ricordato al riguardo che non ha avuto alcun seguito la proposta di legge — sottoscritta da tutti i deputati del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale e avente come prima firmataria l’on. Adriana Poli Bortone — dal titolo Provvedimenti a favore della maternità, l’unica finora presentata in parlamento con la previsione dell’integrale modifica della legge 194/78: cfr. il mio Aborto anno undecimo: dal “caso Mangiagalli” a “Provvedimenti in difesa della maternità”, in Cristianità, anno XVIII, n. 177, gennaio 1990.