Alfredo Mantovano, Cristianità n. 191-192 (1991)
Una cronaca ragionata dell’esodo di massa dal paese balcanico, che ha interessato in modo consistente i porti pugliesi soprattutto nel mese di marzo: la posizione del Governo albanese, quella del Governo italiano, la solidarietà della popolazione nei confronti dei profughi, e le prospettive del “paese delle aquile” all’indomani di una consultazione elettorale palesemente manovrata dal regime socialcomunista.
1. “Il presidente albanese Alia ha mantenuto la parola. Egli disse che il partito del Lavoro avrebbe vinto, ma che sarebbe nato un Parlamento pluripartitico. Così è stato, le elezioni sono andate secondo le previsioni di Alia e il voto si è potuto svolgere senza imbrogli o frodi. Il Partito del lavoro ha vinto nelle campagne ma il Partito democratico ha vinto nei centri urbani, e il governo e il presidente sono stati sconfitti: questa è la strada buona per raggiungere una democrazia stabile anche se il percorso sarà difficile” (1).
In questi termini l’on. Flaminio Piccoli, presidente dell’Internazionale democristiana, valutava sinteticamente le elezioni svoltesi in Albania il 31 marzo 1991, con ogni evidenza sulla base delle notizie fornite dalla gran parte dei mass media italiani all’indomani della consultazione: ne usciva l’abbozzo di un quadro forse complesso ma non preoccupante, esito di un voto liberamente manifestato; un quadro nel quale non mancavano le prospettive positive, fondate anche sulle dichiarazioni dello stesso Ramiz Alia, presidente della Repubblica balcanica nonché leader del Partito del Lavoro — nome locale del partito comunista —, il quale, alla vigilia, aveva assicurato che “dopo le elezioni, vinca chi vinca, il paese ha bisogno di un governo di unità nazionale” (2).
Si trattava di un quadro tutto sommato sereno e ordinato, pur nella consapevolezza dei tanti problemi da risolvere, e certamente in contrasto con le scene, che facevano pensare a tutto fuorché alla serenità e all’ordine, mandate in onda dalle reti televisive poche settimane prima, quando avevano trasmesso le immagini dello sbarco nei porti della Puglia meridionale, e soprattutto di Brindisi, di migliaia e migliaia di albanesi fuggiti dalla loro terra. Se la “strada buona per raggiungere la democrazia” — per usare le parole dell’on. Flaminio Piccoli — era già visibile fra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, quando era certo che il 31 marzo si sarebbe votato, perché l’esilio è stato scelto nelle proporzioni massicce e nelle condizioni disperate che tutti hanno potuto vedere? Se la “strada” imboccata era veramente quella “buona”, perché la maggior parte dei circa 25.000 profughi arrivati in Italia non ha mostrato alcuna intenzione di tornare sui propri passi e di contribuire alla costruzione della “nuova” Albania, anzi, ciò che li terrorizza più di ogni altra cosa è proprio la prospettiva del rientro?
2. In realtà, sono bastate poche ore a far sorgere più di qualche dubbio sul fatto che “il voto si è potuto svolgere senza imbrogli o frodi”: infatti, in molte zone del paese balcanico il malcontento e la protesta contro le manipolazioni elettorali sono scoppiati subito, e l’immediato intervento della polizia e dell’esercito hanno fatto riprendere la conta dei morti e dei feriti.
In Albania, per quel che è possibile desumere raccogliendo le informazioni diffuse in questi giorni, comprese quelle fornite dai profughi presenti in Italia, la situazione si rivela molto meno rosea e promettente di quella descritta dall’on. Flaminio Piccoli e da chi la pensa come lui. Inoltre, i fatti accaduti nelle ultime settimane fanno sorgere ulteriori interrogativi: com’è possibile che, dopo decenni di completa chiusura, in presenza di controlli strettissimi nei porti e alle frontiere e nel vigore di una legislazione penale che punisce fino alla morte l’espatrio illegale, tanti albanesi siano riusciti nel giro di pochi giorni a lasciare la loro terra? E com’è accaduto che questo esodo si sia interrotto con la medesima rapidità con la quale si era avviato? E ancora: qual è il destino degli esuli oggi presenti in Italia?
Le ragioni dell’esodo
3. Con circa 2.850.000 abitanti, distribuiti su un territorio di 28.748 chilometri quadrati, la Repubblica Popolare Socialista di Albania ha rappresentato per quarantacinque anni il modello di comunismo realizzato nella forma più dura; un mondo, apparentemente chiuso a ogni contatto con l’esterno, nel quale l’oppressione non soltanto ha costituito oggetto di pratica quotidiana, ma ha trovato teorizzazione fin nelle leggi fondamentali. Nella Costituzione entrata in vigore il 28 dicembre 1976, benché l’articolo 40 garantisca formalmente l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l’articolo 56 l’inviolabilità della persona, l’articolo 57 quella del domicilio e l’articolo 58 quella della corrispondenza, vi è nel contempo la previsione che i diritti dei cittadini devono essere conciliati con gli interessi della società socialista, che — secondo l’articolo 39 — non possono esercitarsi in contrasto con l’ordine socialista, e che — a norma dell’articolo 37 — l’ordinamento “non riconosce alcuna religione e sostiene ed esercita direttamente la propaganda ateista, al fine di promuovere nel popolo la concezione materialistica”.
Nell’unico Stato europeo che non ha sottoscritto l’Atto Finale della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, redatto a Helsinki nel 1975, “la legislazione penale — così recita l’articolo 1 del codice penale promulgato il 1° ottobre 1977 — […] è espressione della volontà della classe operaia e costituisce una potente arma al servizio della dittatura del proletariato nella lotta di classe. Essa ha l’obiettivo di difendere dai comportamenti socialmente pericolosi lo Stato socialista, il Partito albanese del Lavoro, che è la sola guida dello Stato e della società, la proprietà socialista, i diritti e gli interessi dei cittadini e l’ordine sociale socialista, mediante l’applicazione di misure penali contro chi se ne renda responsabile”. In coerenza con questa impostazione, lo stesso codice penale dedica ampio spazio ai reati politici, disciplinati nella prima sezione della parte speciale e sanzionati in molti casi con la pena capitale, mentre mancano del tutto le garanzie difensive: l’articolo 4 della legge sull’ordinamento giudiziario del 1968 sancisce che “nello svolgimento della propria azione i Tribunali del Popolo sono guidati dall’indirizzo politico del Partito”. Non è difficile immaginare quale sia stata la realizzazione concreta di queste norme: la documentata presenza di numerosi campi di concentramento ne è una delle testimonianze più tangibili (3). Particolarmente crudele si è rivelata la persecuzione religiosa, accentuatasi nel 1967, quando, dopo la chiusura di tutti gli edifici religiosi, Enver Hoxha — il “padre” dell’Albania comunista — si vantava pubblicamente di aver creato il “primo paese ateo del mondo”.
Nella vita quotidiana l’Albania comunista non poteva però sfuggire alla massima di esperienza, che ha trovato conferma in ogni regime di socialismo reale, secondo cui “la privazione di Dio porta con sé il venir meno di ogni bene, nel caso concreto anche di ogni bene materiale” (4): in un paese dotato di notevoli materie prime, ricco di risorse minerarie e agricole, il reddito pro capite annuo è di 850 dollari e la miseria è l’immancabile protagonista delle vicende di ogni giorno; solo il 20% del terreno disponibile nelle campagne viene coltivato, con tecniche rudimentali e prevalentemente manuali, mentre la produzione industriale è praticamente inesistente (5).
4. Sotto questo regime la fuga è stata vista dai più come la sola alternativa a un’esistenza di oppressione e di fame, nonostante le gravi pene — dai dieci anni di detenzione fino alla morte — che la sanzionano. Fino a pochi mesi fa essa rappresentava il frutto dell’iniziativa di singoli o di gruppi ristretti di persone: è nota in tutto il mondo la vicenda dei sei fratelli Popa, che il 12 dicembre 1985 riuscivano a penetrare nell’ambasciata italiana di Tirana, dove chiedevano asilo politico, e che — fino a quando, nel maggio del 1990, non è stato loro consentito di raggiungere l’Italia — hanno costituito un simbolo di libertà per tanti albanesi (6). Meno nota a livello internazionale, ma non meno significativa, è stata la fuga da Durazzo a Brindisi, avvenuta nel gennaio del 1989, di nove giovani a bordo del peschereccio Dukati, guidati dal comandante dell’imbarcazione, Enver Meta, e conclusa con la concessione agli esuli da parte delle autorità italiane dell’asilo politico (7).
E però impossibile elencare in modo anche approssimativo i tentativi di fuga succedutisi negli anni, e dei quali sono trapelate scarne notizie; è certo che all’inizio del 1986 due albanesi, dopo avere attraversato la frontiera con la Grecia e aver chiesto asilo politico alle autorità elleniche, venivano da queste restituiti alla Sigurimi, la famigerata polizia politica albanese, e impiccati nella piazza principale di Argirocastro, e che nello stesso periodo tre giovani, arrestati mentre cercavano di espatriare, venivano incatenati vivi a trattori e trascinati, pur dopo essere stati ridotti a cadaveri straziati, per le comunità agricole della zona (8): peraltro, episodi come questi sono ricorrenti nei racconti di più di un esule oggi presente in Italia.
Nel luglio del 1990 la fuga diventa di massa. A Tirana circa 5.000 persone entrano nei recinti delle ambasciate di alcuni paesi occidentali — in particolare in quelle di Germania, Italia e Francia — e, dopo giorni di tensione, il regime accetta il loro trasferimento via mare a Brindisi, dove vengano smistate per gruppi in Europa e nell’America Settentrionale. Che il Governo albanese anche in questo caso non abbia gradito l’esodo è dimostrato sia dalle numerose vittime della polizia rimaste sulle strade della capitale nei giorni dell’assalto alle sedi diplomatiche (9), sia dalla circostanza, riferita da pochissimi organi d’informazione occidentali, che all’indomani della partenza dei profughi il quartiere delle ambasciate, raccolto attorno alla via Skanderbeg, venne completamente isolato con muri, cancelli e blocchi di cemento anticarro, che ostruivano sia la via principale, sia le stradine laterali che si affacciano su di essa (10): a nove mesi dalla caduta del Muro di Berlino, la costruzione del Muro di Tirana — una delle pochissime, reali “opere del regime” — non ha però avuto alcuna eco sui mass media.
Le ragioni dell’insuccesso del Governo albanese nell’impedire una fuga di così ampie proporzioni, e della mancata utilizzazione di mezzi di dissuasione ancora più drastici, devono individuarsi in parte nelle stesse proporzioni dell’esodo, probabilmente non ipotizzate alla vigilia, in parte nel desiderio dell’esecutivo di Tirana, nel momento in cui ricerca presso i Governi occidentali crediti e aiuti economici, e subito dopo la visita nella capitale albanese, avvenuta nel maggio del 1990, del segretario dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, Javier Pérez de Cuéllar, di offrire un’immagine meno dura e oppressiva.
5. Tuttavia, si tratta di un’immagine che non intacca la sostanza, perché a essa non corrispondono mutamenti sostanziali a livello legislativo ed economico. La protesta riprende e s’intensifica nel mese di dicembre; i disordini interessano soprattutto le città del Nord: Kavaja, i cui abitanti vantano una tradizione di resistenza alla polizia e all’esercito; Scutari, il centro con la più elevata presenza di cattolici; Durazzo, che è il porto principale del paese; Elbasan, città operaia; e infine Tirana, dove una folla di 60.000 persone, composta in buona parte da studenti, chiede riforme, e dove una parte degli ottomila operai dell’industria tessile Stalin reclama aumenti salariali (11). Il regime risponde proclamando lo stato di emergenza (12) e ordinando l’intervento dei carri armati: ovunque la polizia spara, provocando morti e feriti (13).
Allo scopo di attenuare la tensione Ramiz Alia dispone un “rimpasto” nel governo, consente la costituzione di partiti di opposizione, previa registrazione al ministero della Giustizia, rinuncia formalmente al monopolio del Partito del Lavoro che non avrà più “il suo ruolo guida nel sistema statale” (14), indice le elezioni per il 10 febbraio 1991 e, accogliendo le richieste dei dimostranti, ordina la rimozione di tutte le immagini pubbliche di Stalin; “è stato un gesto — spiegherà qualche mese dopo lo stesso capo del regime parlando del provvedimento — che non aveva riferimento con la situazione interna, ma si rivolgeva all’opinione esterna, straniera, la quale considerava l’Albania un paese stalinista. Per smentire questo luogo comune” (15).
Che si tratti soltanto dell’eliminazione di qualche statua “a uso esterno” è confermato anche dal fatto che nelle stesse ore dure condanne, con pene che secondo alcune fonti giungono fino a dodici anni di detenzione (16), e secondo altre fino a venti (17), vengono pronunciate a carico dei cosiddetti “teppisti”, cioè di coloro che — in numero considerevole: 55 a Elbasan, 60 a Scutari, 62 a Durazzo (18) — sono stati arrestati nel corso delle manifestazioni dei giorni precedenti; sempre nelle stesse ore due fuggiaschi vengono uccisi dalle guardie di confine mentre tentano di raggiungere la Grecia e quattro mentre provano a passare in Jugoslavia (19).
L’anno si chiude con un segno di speranza, che però non proviene dalle riforme annunciate dal regime: la notte di Natale nella cappella del cimitero di Scutari don Simon Jubani — un sacerdote cattolico di 65 anni, di cui 26 trascorsi nelle carceri albanesi — celebra la Messa davanti a diecimila fedeli, che riempiono tutta l’area del cimitero.
6. Un nuovo massiccio esodo interessa la frontiera con la Grecia nei primi giorni di gennaio del 1991: circa 5.000 persone, in gran parte di etnia ellenica, attraversano il confine (20). Ma questa volta la resistenza all’espatrio è inesistente, tanto che il Governo greco accusa quello albanese di averlo favorito; sembra delinearsi — da parte del regime — una nuova politica consistente nel tollerare, se non proprio nel favorire, le fughe all’estero, quando la tensione è tale da poter essere difficilmente controllata.
Sempre in gennaio Ramiz Alia accorda il rinvio delle elezioni, chiesto dalle opposizioni, dal 10 febbraio al 31 marzo. Ma ciò non basta ad allentare la protesta popolare: il 2 febbraio si svolge una manifestazione contro il Governo davanti alla sede del ministero degli Esteri (21). Il 9 febbraio, mentre è in corso una missione di funzionari del ministero degli Esteri italiano — guidata dal vice capo di gabinetto Alessandro Grafini, quale rappresentante personale del ministro, on. Gianni De Michelis, e volta ad assicurare al Governo albanese un primo invio di aiuti da parte di quello italiano (22) —, l’esercito interviene in forze, adoperando anche mezzi blindati, contro una folla di 20.000 persone, che si era raccolta a Durazzo dopo che si era sparsa la voce della presenza nel porto di traghetti pronti al trasferimento verso l’Italia: si parla di dieci morti e di decine di feriti (23).
Il regime albanese di fronte all’esodo
7. Mentre sulle coste pugliesi non cessa l’arrivo di imbarcazioni di fortuna con albanesi in fuga, a Tirana la protesta cresce al punto che quanto era stato annunciato da tanti oppositori due mesi prima, come logica conseguenza della rimozione delle immagini di Stalin, diventa realtà: il 20 febbraio, nella piazza Skanderbeg al centro di Tirana, una folla di centomila persone abbatte l’enorme statua, alta circa 40 metri, di Enver Hoxha.
Dalle 11 alle 13 del giorno dopo, nel quartiere della capitale abitato dagli uomini del vertice del Partito del Lavoro e dello Stato, vengono sentiti numerosi colpi di arma da fuoco e raffiche di armi automatiche (24). Intervengono ancora una volta i carri armati e si hanno nuove notizie di morti (25). Ramiz Alia pone a capo del Governo Fatos Nano, già segretario generale del precedente esecutivo guidato da Adil Carcani: il 28 febbraio cominciano i processi contro 74 manifestanti individuati fra coloro che otto giorni prima avevano partecipato all’abbattimento della statua di Enver Hoxha (26).
Nelle stesse ore le fughe, che nelle settimane precedenti avevano interessato solo gruppi ristretti, riprendono fino a superare ampiamente — nei giorni successivi — le proporzioni di luglio: alle 16.30 del 28 febbraio approda a Otranto la motonave Kanina, carica di 121 profughi e di un morto, Bardh Geleli, di 32 anni, ucciso dai colpi delle motovedette albanesi che hanno inseguito la nave da Valona, luogo della partenza, fino alle acque internazionali.
E solo la prima di una serie: all’inizio Otranto, poi soprattutto Brindisi e, in dimensioni inferiori, Monopoli, diventano gli approdi di imbarcazioni di ogni tipo, cariche di profughi fino all’inverosimile. E se a Otranto, grazie all’immediato intervento della Caritas diocesana e dell’arcivescovo, S. E. mons. Vincenzo Franco, vicepresidente nazionale della Caritas, ma anche di tante famiglie della cittadina e dell’entroterra, si riesce in qualche modo a provvedere all’accoglienza degli esuli, il cui numero supera di poco le mille unità, e a ricoverarli in un camping della zona, ciò che vive Brindisi a partire dal 6 marzo è difficilmente descrivibile e qualificabile: in poche ore oltre ventimila albanesi raggiungono la città pugliese a bordo delle navi.
8. I numeri dell’esodo questa volta sono troppo elevati per non far pensare, dopo un tentativo iniziale di dissuasione, quanto meno a una tolleranza del vertice albanese. Ciò che era parso chiaro già a gennaio, in coincidenza della fuga dei 5.000 in Grecia, riceve a distanza di due mesi una significativa conferma: il regime in forte difficoltà, preoccupato per l’estendersi dei disordini in tutto il territorio nazionale — dopo Tirana, le statue di Enver Hoxha sono prese di mira anche nelle altre città —, tollera l’esodo nella prospettiva di un allentamento della tensione. L’abbattimento dell’immagine del “padre della patria” è ben più di un semplice atto di protesta: è il segno più eloquente che la gente è pronta a tutto pur di manifestare la propria ribellione.
A riprova dello stato di tensione che attraversa il paese basta ricordare che, nei giorni seguenti quell’episodio, un’intera accademia militare minaccia la diserzione e rifiuta di ubbidire agli ordini degli ufficiali (27); né mancano soldati che solidarizzano con i manifestanti. La presenza di migliaia di albanesi desiderosi di lasciare il paese nei porti di Durazzo e di Valona rappresenta d’altra parte un pericolo continuo:; l’uso della forza avrebbe prodotto un numero di vittime difficilmente compatibile con lo sforzo di Tirana di mostrare al mondo che, in fondo, qualcosa stava cambiando, e quindi avrebbe avuto un costo pesante in termini di credito e di aiuti da parte dei governi occidentali. E ciò, peraltro, alla vigilia di quelle elezioni che dovevano dimostrare l’affidabilità del “nuovo corso”, e che, nel contempo, avrebbero fatto crescere l’attenzione internazionale nei confronti della situazione albanese.
Si può comunque ritenere con certezza che la fuga viene accettata, se non addirittura favorita: infatti, nei primi giorni di marzo viene sparsa la notizia che i traghetti sono alla rada pronti per imbarcare chi desideri andare in Italia; i cancelli del porto di Durazzo sono chiusi, ma possono essere scavalcati facilmente, senza che i soldati intervengano (28). I fatti vengono descritti in questi termini dai profughi presenti in Italia, i quali testimoniano che i soldati al massimo sparavano in aria e chiedevano denaro a chi passava.
Al timore del regime di non essere in grado di contrastare la protesta si aggiunge, probabilmente, il tentativo di accelerare i tempi dell’aiuto economico, soprattutto da parte italiana; in proposito appare significativo quanto suggerisce Fatos Nano alla delegazione di parlamentari italiani, guidata dall’on Flaminio Piccoli, in visita a Tirana proprio mentre a Durazzo le imbarcazioni sono prese d’assalto: “Forse ci vuole qualche dichiarazione ufficiale da parte dell’Italia — così afferma il capo del governo provvisorio albanese — per dire “aspettate, noi siamo pronti a darvi collaborazione per una ripresa economica” e così ridare fiducia alla nostra gente” (29). E Ramiz Alia, premesso che “queste fughe dal Paese non hanno carattere politico, ma sono causate dalla situazione economica”, nella stessa circostanza aggiunge che “l’Italia deve aiutarci a creare posti di lavoro in Albania” (30).
9. Se la gente scappa dall’Albania, e in quelle proporzioni, è certamente anche per ragioni di carattere economico; ma queste sono strettamente correlate a ragioni di ordine politico: la fame è tanto più forte quanto più il comunismo ha inciso sulla vita di una nazione. Ma la fame non è l’unica ragione dell’esodo; sono insopportabili le condizioni di vita in senso ampio, come già riconosceva due anni fa un importante documento ufficiale dello Stato italiano: nella sentenza con la quale il 20 gennaio 1989 la seconda sezione penale del Tribunale di Brindisi assolveva Enver Meta e Bardhyl Vogli, rispettivamente comandante e marinaio del peschereccio Dukati, dall’accusa di sequestro di persona loro contestata, riconoscendo che i due avevano agito in “stato di necessità”, si poteva leggere che “non solo il pericolo di compressione di quei diritti fondamentali della persona umana appare probabile e imminente, ma anzi la si può tranquillamente definire “immanente” nella vita dei cittadini albane- si” (31).
Che non si tratti di retaggi di un passato, pur recente, da dimenticare — “Credo che senz’altro ci siano stati eccessi”, ha affermato candidamente pochi giorni fa Ramiz Alia, parlando del comportamento tenuto dal regime verso gli oppositori (32) — è confermato dalla visita che a metà del mese di marzo la “delegazione Helsinki” ha effettuato in Albania: “Centinaia di detenuti politici sono ancora internati come criminali comuni in condizioni subumane”, ha dichiarato nel corso della visita Christine von Khol, componente della “delegazione”, e ha aggiunto di aver visto persone torturate “con la privazione di dita, mani e occhi” e detenuti malati o paralizzati senza alcuna cura (33).
Il rinnovamento di Ramiz Alia è “del tutto fittizio, immaginario” (34); e ciò emerge in modo esplicito quando lo stesso Ramiz Alia dichiara che “il marxismo come lo immagino io vuol dire opporsi allo sfruttamento, vivere del proprio lavoro, essere apprezzati per il proprio contributo alla società: significa felicità del popolo” (35). Se questa è la prospettiva del presidente della Repubblica, non ci si deve meravigliare del fatto che ben pochi albanesi diano credito al processo di “democratizzazione”: la preferenza accordata alla fuga nelle condizioni disperate che tutti hanno potuto constatare, almeno attraverso le immagini televisive, è la dimostrazione, evidente più di qualunque discorso, di com’è il mondo che si è lasciato.
Le elezioni del 31 marzo 1991
10. La sfiducia si proietta nel tempo e non lascia intravvedere spiragli positivi per il futuro. I risultati delle elezioni del 31 marzo erano ampiamente previsti dai profughi più sensibili alle vicende politiche albanesi, convinti al tempo stesso del loro carattere truffaldino e dell’assenza di un’alternativa seria ed efficace al Partito del Lavoro. “Saranno false — aveva detto don Simon Jubani, parlando di esse due settimane prima del loro svolgimento —, non c’è nessuna tradizione di elezioni libere. Come può una nazione che non è libera da più di cinquant’anni diventare democratica con un voto?” (36).
E false sono state. Quale garanzia di libera espressione del voto può essere derivata dalla presenza, in concomitanza della consultazione, di “osservatori internazionali”, se è vero che costoro erano 150, mentre le sezioni elettorali erano 6.800? Solo la presenza ininterrotta di un “osservatore” in ogni sezione per l’intero svolgimento della consultazione avrebbe potuto far parlare di inesistenza di brogli; gli stessi “osservatori” hanno peraltro ammesso che la loro azione si è limitata ai centri urbani, a causa della difficoltà di raggiungere le sezioni dislocate nelle campagne. Per avere un’idea dello stato dei collegamenti interni in Albania basta pensare che le due città principali — Tirana e Durazzo — sono unite da una strada lunga 120 chilometri che, con qualche difficoltà, si percorre in non meno di tre ore di automobile: non è quindi immaginabile una “mobilità” nei controlli da parte degli “osservatori”. E per questo non è un caso che i comunisti abbiano raccolto i maggiori consensi in quelle campagne dove era materialmente impossibile qualsiasi “osservazione” esterna, e che lì abbiano prevalso proprio i candidati più stalinisti.
Non sono state rese note le cifre assolute delle elezioni, ma solo i valori percentuali. Né si è conosciuto, prima e dopo il voto, il numero complessivo degli elettori, e perciò neanche quello degli astenuti. Ora, poiché il voto è stato espresso per collegi uninominali, è lecito sospettare, in assenza completa di prova contraria, che la suddivisione fra i collegi sia stata disuguale; che cioè i collegi sui quali era più facile l’opera di intimidazione e di controllo da parte del regime riunissero un numero di elettori inferiore rispetto a quelli dei collegi cittadini, manipolabili con maggiore difficoltà.
11. Le elezioni si sono svolte senza che fossero stati distribuiti i certificati elettorali (37), e utilizzando schede stampate solo in parte e in modo rozzo, e per il resto completate manualmente. Ci si è recati al voto muniti del documento di identità, ma non è infondato chiedersi che fine abbiano fatto i documenti delle migliaia di albanesi che hanno lasciato la loro terra nelle settimane passate, e se per caso non siano stati adoperati per far votare più volte le stesse persone. I giornalisti presenti a Tirana sono stati testimoni in un seggio dell’esistenza nelle urne di più schede rispetto al numero di coloro che risultavano aver vota- to (38); a Scutari gli stessi soldati hanno votato fino a cinque volte (39): e si era in grandi città! Diventa a questo punto arduo comprendere sulla base di quali elementi di fatto — allo stato avvolti da mistero — gli “osservatori” stranieri, o quanto meno alcuni di loro, abbiano potuto parlare di sostanziale regolarità del voto.
Quanto detto finora è limitato alla giornata del 31 marzo; non va però dimenticato che:
a. solo due formazioni politiche, il Partito del Lavoro e il Partito Democratico, hanno presentato propri candidati in quasi tutti i collegi, mentre la presenza degli altri partiti è stata percentualmente irrilevante già al momento delle candidature;
b. la vigilia del voto è stata turbata da incidenti; nel distretto di Progradec i candidati del Partito Democratico e del Partito Repubblicano si sono ritirati a causa delle minacce subite (40);
c. fra la fine formale del monopolio del Partito del Lavoro e la data delle elezioni sono trascorsi appena tre mesi; non ha torto don Simon Jubani quando ricorda che “non abbiamo una classe politica preparata. E per forgiarla non bastano certamente due mesi” (41). Le elezioni fissate a breve scadenza — l’esperienza rumena insegna — servono soprattutto a differire la formazione di una classe politica autenticamente alternativa, e, prima ancora, a impedire gli stessi contatti organizzativi preliminari fra gli eventuali oppositori;
d. una parte consistente di albanesi non ha fiducia nel Partito Democratico, candidatosi come la principale forza di opposizione; fra i profughi è diffusa la diffidenza verso i suoi dirigenti: Gramoz Pashko è figlio di un ex ministro della Giustizia sotto Enver Hoxha, mentre Sali Berisha ha una posizione professionale di prestigio, che non può aver raggiunto senza il gradimento del regime. A uomini che hanno trascorso anni in carcere, o in campi di internamento, per essersi limitati a esprimere un’opinione o per aver pronunciato una parola diversa, tutto ciò non può non far sorgere fondati sospetti. E questi ultimi si traducono nell’assenza di speranza in una evoluzione positiva dell’assetto politico albanese.
Ciò spiega non solo perché nel porto di Durazzo, in attesa di una nave che non si sa se e quando partirà, vivano ormai stabilmente migliaia di albanesi, che sperano di aggiungersi agli altri che già sono in Italia, ma anche perché, subito dopo i risultati elettorali, sia esplosa la protesta — ancora una volta duramente repressa — dei tanti che sono fondatamente convinti di essere stati raggirati.
Infatti, le modifiche apparenti apportate dal regime non impediscono di far rientrare l’Albania di oggi nel gruppo di quei paesi che “[…] sono ancora sotto il dominio oppressivo del Comunismo, con una conseguente perdita di libertà umana” (42), e nei quali “[…] il Comunismo ha introdotto una terribile disarmonia. Esso frena lo sviluppo umano integrale in quanto esige una rottura con le tradizioni, spesso imposta con la violenza, e sottopone un gran numero di persone a grandi sofferenze, tra cui la fame” (43).
L’Italia di fronte all’esodo
12. “In un’Italia nella quale si parla spesso contro l’invadenza dello Stato è giunta l’occasione perché i privati dimostrino ciò che sono in grado di fare; che le famiglie di Brindisi, città di 400.000 abitanti e perciò capace di accoglienza, si diano da fare e “adottino” ciascuna una famiglia albanese!”.
Questa la sostanza della soluzione che la sera del 10 marzo, in piena “emergenza profughi”, il presidente del Consiglio, on. Giulio Andreotti, proponeva — non dai luoghi della crisi, ma dal salotto della trasmissione televisiva di varietà Domenica In — per far fronte a una realtà della quale nessuno in quel momento poteva ignorare il carattere tragico. Un atteggiamento, quello del capo del Governo italiano, emblematico non solo per il suggerimento dato allo scopo di affrontare l’emergenza in corso — l’appello al volontariato e alle famiglie a fronte di una situazione che richiedeva, per proporzioni e per gravità, l’immediato e massiccio intervento dello Stato —, ma anche per la superficiale informazione fattuale tradita dal fatto — tutt’altro che insignificante — di attribuire alla sola città di Brindisi i 400.000 abitanti dell’intera provincia.
In realtà, quella che per l’on. Giulio Andreotti costituiva una delle sue tante boutade, del tutto fuori luogo data la drammaticità della situazione in atto, era per la gente di Brindisi, e in genere per quella salentina, una realtà diffusa e capillare già da tre giorni. Dal mattino dell’8 marzo l’”emergenza profughi” aveva infatti preso corpo in tutta la sua evidenza; dopo il blocco di alcune delle navi cariche di albanesi nel porto di Brindisi ordinato dalle autorità italiane il giorno prima, dopo la forzatura del blocco e l’ingresso dei profughi sul molo, la sola assistenza fornita dallo Stato e dagli enti locali per dare riparo ai circa 20.000 albanesi presenti nel porto consiste nella distribuzione, nella notte fra il 7 e l’8, di grandi lenzuola di plastica.
In quelle ore a livello pubblico non viene fatto niente di più; al mattino dell’8 i profughi, superati i cancelli del porto, “invadono” la città e trovano accoglienza da parte di privati, di famiglie, di centri di assistenza, istituiti presso e a cura delle parrocchie: in queste sedi e per più giorni gruppi di volontari provvedono a far lavare, vestire e mangiare gli albanesi. Soltanto nella serata dell’8 giunge dalla Prefettura l’ordine di adibire le scuole cittadine a ricovero dei profughi, dopo che l’arcivescovo di Brindisi-Ostuni, S. E. mons. Settimio Todisco, aveva avvertito che, se entro la serata non si fosse adottata quella decisione, avrebbe aperto agli albanesi le porte di tutte le chiese della città (44).
13. “Sono sconvolto, la situazione è molto grave. La mia impressione è che ci sia stato un ritardo del Governo nell’affrontare questa emergenza. Solo questa mattina ha deciso l’intervento della Protezione civile”: così dichiara l’8 marzo l’on. Giorgio La Malfa, segretario di uno dei partiti che formano la coalizione di Governo (45). Nonostante l’intervento della Protezione civile, solo nella notte fra il 9 e il 10 marzo tutti i profughi lasciano la banchina del porto; lì infatti migliaia di essi, compresi bambini e donne, avevano trascorso anche la notte precedente. Peraltro, la sistemazione nelle scuole, se evita l’esposizione alle intemperie, non impedisce i disagi, se è vero che ogni aula serve da ricovero per circa 40 persone, buona parte delle quali dormono per terra o sui banchi, e se è vero che i servizi igienici degli istituti requisiti appaiono immediatamente inadeguati alle esigenze: in alcune scuole manca l’acqua, in tutte si accumulano ben presto i rifiuti.
E nelle scuole continuano a operare i volontari, i quali forniscono i pasti e corrono anche rischi di contagio, per la presenza di casi di scabbia; l’opera di coordinamento fra le varie scuole, come già è avvenuto all’inizio per l’assistenza al porto, viene svolta per più giorni — allo scopo di segnalare le necessità e di indirizzare in modo efficace e tempestivo gli aiuti — non dalla Prefettura o dalla Protezione civile, ma da una emittente radiofonica privata brindisina, Radio Ciccio riccio. L’esercito comincia a farsi vedere soltanto al mattino del giorno 11, e la sera si avvia il trasferimento dei primi gruppi di profughi verso camping della zona. Gran parte di essi resta tuttavia nelle scuole fino a venerdì 15.
Si è a lungo polemizzato sui ritardi e sulla inadeguatezza dei soccorsi, e si è cercato, da parte del Governo, e anzitutto del vicepresidente del Consiglio, on. Claudio Martelli, ma anche di forze politiche di opposizione, di centrare il dibattito sulle carenze delle strutture della Protezione civile, nelle quali andrebbe cercata la causa esclusiva di ciò che non è stato fatto. Tuttavia, lo svolgersi degli eventi, se non riabilita la Protezione civile, consente di individuare il preciso rifiuto politico di accogliere i profughi, e anzi lo sforzo per dissuaderli dal restare o, per quelli che sono ancora in Albania, dall’intraprendere il viaggio verso l’Italia.
14. E certo che domenica 3 marzo si aveva la possibilità, se vi fosse stata la volontà in tal senso, di predisporre un piano per affrontare ciò che appariva con tutta evidenza un esodo di massa. A Otranto erano già sbarcati oltre mille albanesi e le notizie provenienti da Durazzo consentivano di prevedere quel che sarebbe accaduto nelle ore successive. Si è lasciata trascorrere quasi una settimana prima di intervenire, nella “latitanza di quanti avevano il dovere di provvedere” (46), e quando lo si è fatto ciò è avvenuto con incredibile lentezza.
Le energie che dovevano essere spese per l’accoglienza sono state invece dirette a scoraggiare gli arrivi e a favorire i rientri. “Bisogna chiudere i rubinetti”, dichiara l’on. Claudio Martelli al termine della riunione del Consiglio dei Ministri di giovedì 7 marzo, “e i rubinetti si chiudono in Albania” (47); nella stessa circostanza egli esorta il Governo albanese a darsi da fare in tal senso, invoca l’applicazione rigorosa della legge n. 39 del 1990 — appunto la “legge Martelli” —, poiché “non ritiene che i cittadini albanesi si trovino, salvo casi particolari, nella situazione di profughi politici” (48), ordina alla navi militari italiane di svolgere opera “di deterrenza”, e invita la televisione di Stato con i suoi servizi “a scoraggiare quell’immagine di Eldorado”, che l’Italia si è data “accogliendo i profughi a braccia aper- te” (49). Quest’ultimo invito è immediatamente accolto: nei giorni seguenti il TG1, che viene captato in Albania, non perde occasione per trasmettere le immagini drammatiche delle migliaia di profughi che stazionano nel porto di Brindisi.
Il “progetto di non solidarietà” (50) sortisce qualche effetto: il Governo albanese, di fronte alla prospettiva, enunciata a chiare lettere da quello italiano, di vedersi chiudere il “rubinetto” dei finanziamenti se non avesse chiuso il “rubinetto” dell’esodo, provvede subito. L’8 marzo ordina il blocco di tutti i porti del paese, che vengono presidiati dai militari. Il 9 marzo la nave Partizan, ancorata da due giorni a Durazzo con migliaia di albanesi ammassati a bordo in procinto di partire per l’Italia, viene circondata dal corpo speciale di polizia 326-sambista, e attaccata da mare e da terra con il lancio di lacrimogeni, di proiettili di plastica e di pallottole vere: si contano almeno due morti e molti feriti (51).
Nelle settimane seguenti i profughi non abbandonano il porto di Durazzo, anzi lo prendono d’assalto al punto che il loro numero giunge a superare le 5.000 unità; il 25 marzo intervengono nuovamente le forze speciali, che ingaggiano una battaglia con raffiche di mitra ad altezza d’uomo: si contano non meno di dieci feriti (52). Il Governo italiano ha di che essere soddisfatto: per il momento il “rubinetto” dell’esodo è chiuso ermeticamente, quindi non vi sono ostacoli a versare quegli aiuti finanziari — consistenti inizialmente in dieci miliardi di lire — che rappresentano oggettivamente il prezzo della repressione.
Minore successo ha il tentativo di far rientrare i profughi che sono in Italia: si tratta di un tentativo rivelatosi inutile con il blocco del porto di Brindisi, poiché era già straordinario che le navi stracolme di albanesi potessero aver raggiunto l’Italia, ed era impossibile che quelle stesse imbarcazioni con il loro carico facessero retromarcia. Inoltre, un tentativo riuscito solo in parte quanto all’opera di dissuasione alla permanenza, poiché per la maggioranza dei profughi anche le condizioni più disagiate sono preferibili all’inferno albanese, sì che, finora, è pari a circa il 15% il numero di coloro che hanno deciso di ritornare. I primi 1.400 hanno lasciato Brindisi a bordo della nave Tirana il 10 marzo al grido di “Italia no!”: “Un’immagine che obbliga ad abbassare gli occhi: è l’immagine del rifiuto; della speranza uccisa; dell’indifferenza elevata a sistema; del cinismo di fronte all’uomo in situazione di bisogno. E il simbolo del no all’uo- mo” (53).
Il contributo di Alleanza Cattolica e del Comitato per i Diritti Umani in Albania
15. Da tempo Alleanza Cattolica e il Comitato per i Diritti Umani in Albania — sorto nel 1986 per iniziativa della stessa Alleanza Cattolica e della Conferenza Internazionale delle Resistenze nei Paesi Occupati, la CIRPO-Italia — si occupano del “caso albanese”; dal dicembre del 1985, quando la fuga dei fratelli Popa nell’ambasciata italiana di Tirana faceva emergere a livello internazionale le condizioni di vita di quel popolo, l’Albania ha costituito oggetto sistematico di campagne d’informazione articolatesi in conferenze, convegni, manifestazioni pubbliche, interviste, raccolte di firme di autorità e di semplici cittadini (54), oltre che di interventi concreti, quando se ne verificata la necessità, come nell’episodio del peschereccio Dukati (55).
Nella prima fase della “emergenza profughi” militanti e simpatizzanti delle due associazioni sono stati impegnati in tre direzioni:
a. anzitutto quella, all’inizio indispensabile, del contributo materiale alle esigenze e alle necessità degli albanesi, concretizzatasi in particolare a Brindisi, in parte affiancando le iniziative promosse dalla parrocchia di San Vito;
b. una seconda, che si inserisce nel lavoro svolto negli anni passati, di sensibilizzazione dell’opinione pubblica italiana circa le ragioni dell’esodo, strettamente correlate al regime al potere in Albania da quasi mezzo secolo, e che si è sviluppata in una serie di interventi sui mass media — consistiti soprattutto in interviste e tavole rotonde trasmesse da reti televisive private — e in manifestazioni pubbliche, comprendenti la diffusione di due manifesti — “Bugiardi, bugiardi”! La verità sulla situazione albanese e sul governo italiano e Solidarietà con gli esuli albanesi, quest’ultimo pubblicato anche su il Giornale (56) —, organizzata in numerose città italiane;
c. ma vi è una terza direttrice di impegno, che le vicende dei giorni passati hanno consentito di avviare: il contatto diretto con i profughi, allo scopo anzitutto di conoscere la loro situazione e il mondo che hanno lasciato.
16. Fin dai primi giorni Alleanza Cattolica e il Comitato hanno svolto nei confronti dei profughi un’opera d’informazione sui diritti loro spettanti in quanto rifugiati diffondendo, a partire dal 10 marzo, nelle scuole di Brindisi dove erano ricoverati, il manifesto Solidarietà con gli esuli albanesi, tradotto nella loro lingua. Insieme a questo manifesto in più scuole sono state distribuite una documentazione relativa alla persecuzione dei sacerdoti cattolici in Albania, immagini sacre e corone per la recita del rosario — molto gradite, ovviamente, dai cattolici — nonché una stampa, nei colori originali, del simbolo di Skanderbeg, l’aquila nera a due teste su fondo amaranto; ciò ha incontrato l’apprezzamento di molti albanesi, uno dei quali ha motivato la sua gratitudine con il fatto che finalmente vedeva l’aquila raffigurata senza la stella a cinque punte, a sua volta simbolo del regime comunista: è stata proprio quella stella, così ha detto l’esule, che nei decenni trascorsi ha impedito all’aquila albanese di volare!
Il 12 marzo, su richiesta esplicita di un gruppo di profughi rivolta a un militante di Alleanza Cattolica, quest’ultimo ha accompagnato in visita in quattro scuole, oltre che in due parrocchie, monsignor Angelo Catarozzolo, vicario episcopale dell’arcidiocesi di Brindisi-Ostuni: l’iniziativa ha incontrato entusiasmo e gioia fra i profughi. Il vicario ha spiegato loro che il Santo Padre Giovanni Paolo II è vicino al dramma dell’Albania e che prega, con tutta la Chiesa, per quella nazione. Altri incontri, tesi allo scambio di idee sulla situazione albanese e sulle prospettive riguardanti i profughi, si sono svolti nei giorni successivi o sono in programma: e ciò non solo a Brindisi, ma in tutto il territorio nazionale, e soprattutto con coloro che risiedono nei campi appositamente allestiti.
Le prospettive
17. Ciò che l’Occidente in genere, e — per i vincoli plurisecolari, oltre che per la vicinanza geografica — l’Italia in particolare, ha il dovere di fare per l’Albania, in questo delicato momento storico, può essere decisivo per la sorte di quella nazione. La scelta a livello di Governo di proseguire nel quasi cinquantennale disinteresse, o, peggio, di supportare il regime comunista, provoca soltanto morte e ulteriore miseria, materiale e morale, come è dimostrato in modo evidente da quel che è seguito al comportamento dell’esecutivo italiano, ed è destinata inevitabilmente a far crescere il numero dei profughi.
In questo momento il regime di Tirana ha estremo bisogno di aiuti; se si ritiene di doverli concedere, questi aiuti, in conformità con una regola che è stata invocata e applicata fino alle conseguenze estreme di recente nei confronti dell’Irak, ma che ha trovato concreta attuazione in un passato non remoto relativamente al Cile e, in parte, è tuttora vigente quanto alla Repubblica Sudafricana — le cui condizioni interne sono difficilmente comparabili con quelle albanesi — vanno subordinati al reale rispetto dei diritti umani più elementari e a effettive garanzie di rappresentanza e di partecipazione politica. Peraltro, questo è l’unico modo per concorrere alla creazione, sia pure a lungo termine, di quelle condizioni concrete in presenza delle quali la fuga non sia più ritenuta l’unica soluzione accettabile, e perché chi è già fuggito prenda in considerazione l’idea di rientrare in patria, in un contesto mutato, o comunque in via di serio mutamento, cui portare il proprio contributo diretto.
Nei confronti degli esuli oggi presenti in Italia è necessario far cessare quanto prima la loro condizione di internati, che corrisponde poi a quella di oziosi; già cominciano a diffondersi le notizie di arresti, e di conseguenti giudizi, a carico di albanesi sorpresi a rubare o colti mentre compiono atti di violenza: questa situazione inevitabile, la cui consistenza è destinata ad aumentare se la gran parte dei profughi resta senza lavoro — e che, inoltre, li può rendere facile preda del reclutamento da parte della criminalità di ogni tipo —, richiede interventi immediati. E inammissibile trincerarsi dietro la pretesa carenza di posti di lavoro, quando tutti sanno che vi sono attività cui ben pochi hanno voglia di attendere. D’altronde, a fronte di oltre un milione di immigrati terzomondiali presenti in Italia, molti dei quali clandestini, e tuttavia inseriti in realtà lavorative — soprattutto in agricoltura —, la cifra di 25.000 albanesi, distribuita in tutto il territorio italiano, è davvero ben poca cosa e appare lontana dal creare allarme.
Va ovviamente respinta, per le considerazioni svolte prima, ogni differenza di comodo fra profughi “politici” e profughi “economici”: la distinzione da fare è piuttosto fra “il bisogno da povertà naturale e quello da malizia umana” (57). Quando la causa diretta della fuga è quest’ultima — e il caso albanese è il più significativo in tal senso —, ogni ulteriore distinzione è infondata.
L’opera di pressione politica nei confronti del Governo italiano tesa a conseguire questi obiettivi spetta a ogni uomo di buona volontà; ma compete in modo tutto speciale ai cattolici, le cui associazioni di volontariato si sono, come sempre accade in fasi di emergenza, distinte per l’abnegazione dimostrata in questa circostanza. E necessario però comprendere che quanto è stato fatto finora rientra solo nella “prima fase” dell’emergenza; e questa non è terminata, anzi richiede un lavoro ancora lungo e difficile.
L’esperienza che ciascun esule ha vissuto sulla propria pelle merita anzitutto profondo rispetto; cinquant’anni di comunismo duro non possono non lasciare il segno sul carattere di un popolo, prostrandolo e mettendone a dura prova le virtù che in passato, in tante occasioni, lo hanno esaltato. Ma questa situazione, piuttosto che una ragione per lasciar perdere, deve costituire un motivo in più per riprendere e ravvivare il dialogo sempre esistito fra popoli accumunati da vicende storiche importanti; ed è chiaro che a questo compito non ci si può, al momento, accingere con ogni singolo profugo: quanto ognuno ha patito individualmente, l’età, la diversa provenienza geografica, il differente credo religioso, non praticato ma trasmesso dalla memoria dei padri, il diverso grado di istruzione, sono tutti fattori fortemente condizionanti, e dei quali non si può non tener conto.
I cattolici, in particolare, sono però chiamati nei confronti dei fratelli albanesi a rendere concreto — affrontando le immaginabili difficoltà — il richiamo del Sommo Pontefice a che, certamente con la prudenza richiesta dai singoli casi, “si annunci con la parola, senza la quale il valore apostolico delle buone azioni diminuisce o sfugge” (58) e a ricordare che “non è carità sufficiente lasciare i fratelli all’oscuro della verità; non è carità nutrire i poveri o visitare i malati portando loro risorse umane e tacendo la Parola che salva” (59).
La frontiera della “nuova evangelizzazione” passa anche per la terra di Skanderbeg e per ogni singolo discendente del “popolo delle aquile”.
Alfredo Mantovano
Note:
(1) Avvenire, 2-4-1991.
(2) Ramiz Alia, “In Albania mai più comunismo”, intervista a cura di Edgardo Bartoli, in la Repubblica, 26-3-1991.
(3) Cfr. Zef Margjinaj con Gianpaolo Sabbatini, Piccolo compendio della grande storia dell’Albania, con una prefazione di Mauro Ronco, Krinon, Caltanissetta 1990, pp. 86-90; e, più in esteso, Z. Margjinaj, Marcia di un albanese verso la libertà, La Nuova Base, Udine 1982.
(4) Giovanni Cantoni, L’impero socialcomunista fra crisi e “ristrutturazione”, in Cristianità, anno XVIII, n. 177, gennaio 1990.
(5) La Gazzetta del Mezzogiorno, 23-3-1991; l’industria produce soltanto fertilizzanti chimici e tessuti: cfr. ibid., 17-7-1990.
(6) Sul “caso Popa” cfr., fra gli altri, Oscar Sanguinetti, Il caso dei fratelli Popa e la tragedia albanese, in Cristianità, anno XV, n. 151, novembre 1987.
(7) Sul “caso Dukati”, cfr. “Boat people” dall’Albania, ibid., anno XVII, n. 166, febbraio 1989.
(8) Cfr. il Giornale, 22-3-1986.
(9) Cfr. Avvenire, 7-7-1990.
(10) Cfr. Quotidiano di Lecce, 30-8-1990; il giornale, il cui inviato, Lino De Matteis, era a Tirana nei giorni della realizzazione del muro, ha pubblicato anche le fotografie della costruzione.
(11) Cfr. La Gazzetta del Mezzogiorno, 23-12-1990.
(12) Cfr. ibid., 16-12-1990.
(13) Cfr. Avvenire, 13-12-1990.
(14) Ibid., 28-12-1990.
(15) R. Alia, intervista cit.
(16) Cfr. il Giornale, 20-12-1990.
(17) Cfr. ibid., 21-12-1990.
(18) Cfr. ibidem.
(19) Cfr. La Gazzetta del Mezzogiorno, 21-12-1990.
(20) Cfr. ibid., 2-1-1991; e 3-1-1991.
(21) Cfr. ibid., 3-2-1991.
(22) Cfr. ibid., 11-2-1991.
(23) Cfr. ibid., 10-2-1991.
(24) Cfr. ibid., 22-2-1991.
(25) Cfr. ibid., 24-2-1991.
(26) Cfr. Avvenire, 1-3-1991.
(27) Cfr. La Gazzetta del Mezzogiorno, 23-3-1991.
(28) Cfr. ibidem.
(29) Ibid., 6-3-1991.
(30) Ibidem.
(31) La sentenza di primo grado, impugnata dal Pubblico Ministero, dottor Domenico Catenacci, è stata confermata il 22-2-1991 dalla 2a Sezione penale della Corte d’Appello di Lecce, presidente dottor Mario Buffa, giudici a latere dottor Donato Sanarico e dottor Filomeno Di Lonardo. Nella circostanza, il Comitato per i Diritti Umani in Albania, come già per il processo celebrato innanzi al Tribunale di Brindisi, ha offerto agli imputati assistenza legale nella persona dell’avvocato Fedele De Cristofaro.
(32) R. Alia, intervista cit.
(33) Cfr. Avvenire, 19-3-1991.
(34) Don Jubani boccia Alia “Il suo rinnovamento è del tutto immaginario”, intervista a cura di Flavio Mucciante, ibid., 17-2-1991.
(35) R. Alia, intervista cit.
(36) Don Simon Jubani, “Ci attendono ancora tempi duri”, intervista a cura di Michele Cennamo, in Avvenire, 15-3-1991.
(37) Cfr. La Gazzetta del Mezzogiorno, 28-3-1991.
(38) Cfr. Avvenire, 2-4-1991.
(39) Cfr. ibid., 3-4-1991.
(40) Cfr. La Gazzetta del Mezzogiorno, 29-3-1991.
(41) Avvenire, 5-2-1991.
(42) Giovanni Paolo II, Lettera ai Vescovi dell’Asia in occasione della Quinta Assemblea Plenaria della Federazione delle Conferenze Episcopali del Continente, del 23-6-1990, n. 2, in L’Osservatore Romano, 18-7-1990.
(43) Ibidem.
(44) Cfr. La Gazzetta del Mezzogiorno, 9-3-1991.
(45) Ibidem.
(46) Mario Agnes, Ad occhi abbassati, in L’Osservatore Romano, 11/12- 3-1991.
(47) La Gazzetta del Mezzogiorno, 8-3-1991.
(48) Avvenire, 8-3-1991; per la confutazione di tale tesi, cfr. il manifesto Solidarietà con gli esuli albanesi.
(49) La Gazzetta del Mezzogiorno, 8-3-1991.
(50) M. Agnes, art. cit.
(51) Cfr. La Gazzetta del Mezzogiorno, 10-3-1991.
(52) Cfr. ibid., 26-3-1991; i feriti, secondo altre fonti, sarebbero stati 17 fra i civili e 12 fra i poliziotti: cfr. Avvenire, 31-3-1991.
(53) M. Agnes, art. cit.
(54) Cfr. Petizione per la concessione dell’asilo politico ai sei fratelli albanesi Popa, in Cristianità, anno XVI, n. 161, settembre 1988.
(55) Cfr. “Boat people” dall’Albania, cit.
(56) Cfr. il Giornale, 15-3-1991.
(57) G. Cantoni, Il dramma dei profughi dai paesi a regime socialcomunista e il giudizio di “ognuno”, in Cristianità, anno X, n. 81, gennaio 1982.
(58) Giovanni Paolo II, Discorso ai Vescovi dell’Emilia-Romagna in visita ad limina Apostolorum, del 1°-3-1991, n. 5, in L’Osservatore Romano, 2-3-1991.
(59) Ibidem.