Alfredo Mantovano, Cristianità n. 368 (2013)
Quando, il 13 agosto 1480 a Otranto, Antonio Primaldo, che il cronista descrive “sarto di professione, d’età provetto, ma pieno di religione e di fervore” (1) esorta i suoi 812 compagni, in catene come lui, a “[…] credere tutti in Gesù Cristo, figlio di Dio, ed essere pronti a morire mille volte per lui” (2), e così rifiuta la proposta di Ahmet pascià (m. 1482) di avere salva la vita in cambio della conversione all’islam, la Polonia era ai margini dell’Europa e l’Argentina non esisteva neanche sulla carta geografica. Mai Antonio avrebbe immaginato che mezzo millennio dopo tre Pontefici, in continuità di pontificato, il primo polacco e il terzo argentino, si sarebbero occupati degli Ottocento che erano con lui. Papa Giovanni Paolo II (1978-2005) li ha proclamati beati il 5 ottobre 1980, recandosi a Otranto esattamente cinque secoli dopo il loro sacrificio. Papa Benedetto XVI (2005-2013) ha dapprima riconosciuto loro il titolo di martiri il 6 luglio 2007, allorché ha autorizzato la pubblicazione del decreto di autenticazione del martirio di Antonio Primaldo e dei suoi compagni laici, “uccisi in odio alla fede”; quindi, l’11 febbraio 2013, nel medesimo Concistoro in cui ha rinunciato al Pontificato (3), ha annunciato la loro imminente canonizzazione, celebrata, infine, da Papa Francesco il 12 maggio 2013.
Degli Ottocento, Antonio Primaldo è l’unico del quale è tramandato il nome. Gli altri sono ignoti pescatori, artigiani, pastori e agricoltori di una città periferica, il cui sangue, cinque secoli fa, è stato sparso in una terribile giornata di agosto solo perché cristiani.
L’esecuzione di massa ha un prologo, alle prime ore del mattino del 29 luglio 1480, quando dalle mura della città adriatica comincia a scorgersi all’orizzonte, e diventa sempre più visibile, una flotta composta da 90 galee, 15 maone e 48 galeotte, con diciottomila soldati a bordo. L’armata è guidata dal pascià Ahmet; costui è agli ordini di Maometto II (1430-1481), detto Fatih, “il Conquistatore”, cioè del sultano che nel 1451, ad appena ventun anni, è salito a capo della tribù degli ottomani, a sua volta impostasi sul mosaico degli emirati islamici un secolo e mezzo prima. Nel 1453, alla guida di un esercito di 260.000 turchi, Maometto II conquista Bisanzio, la “seconda Roma”, e da quel momento coltiva il progetto di espugnare la “prima Roma”, la Roma vera e propria, e di trasformare la basilica di san Pietro in una stalla per i suoi cavalli. Nel giugno 1480 valuta maturi i tempi per completare l’opera: toglie l’assedio all’isola di Rodi, difesa con coraggio dai Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, in seguito noti come Cavalieri di Malta, e punta la flotta verso l’Adriatico. L’intenzione è di approdare a Brindisi, il cui porto è ampio e comodo: da lì egli immagina di risalire l’Italia fino a raggiungere la sede del Papato. Un forte vento contrario costringe però le navi a toccare terra cinquanta miglia più a sud e a sbarcare in una località chiamata Roca, a qualche chilometro da Otranto (4).
1. Otranto 1480: assedio alla Cristianità
Otranto era — ed è — la città più orientale d’Italia. Ha un passato ricco di storia: le immediate vicinanze sono abitate probabilmente già dal Paleolitico, certamente dal Neolitico. È stata poi popolata dai messapi, stirpe che precede i greci, quindi — conquistata da costoro — entra nella Magna Grecia e, ancora, cade nelle mani dei romani, diventando presto municipio. L’importanza del porto le fa assumere il ruolo di ponte fra Oriente e Occidente, consolidato sul piano culturale, e anche politico, dalla presenza di un importante monastero di monaci basiliani, quello di San Nicola in Casole, di cui oggi restano un paio di colonne, sulla litoranea che conduce a Porto Badisco. Nella sua splendida cattedrale, costruita fra il 1080 e il 1088, viene impartita nel 1095 la benedizione ai dodicimila crociati che, al comando del principe Boemondo I d’Altavilla (1050-1111), partono per liberare e per proteggere il Santo Sepolcro. Di ritorno dalla Terra Santa, proprio a Otranto san Francesco d’Assisi (1182-1226) approda nel 1219, accolto con grandi onori. A Otranto, l’11 settembre 1227, muore a seguito di malaria il langravio di Turingia, Ludovico (1200-1227), sposo di santa Elisabetta di Ungheria (1207-1231).
Al momento dello sbarco degli ottomani la città può contare su una guarnigione di quattrocento uomini in armi, e per questo i capitani del presidio si affrettano a chiedere aiuto al re di Napoli, Ferrante d’Aragona (1431-1494), inviandogli una missiva. Cinto d’assedio il castello, nelle cui mura si rifugiano gli abitanti del borgo, il pascià, attraverso un messaggero, propone una resa a condizioni vantaggiose: se non resisteranno, uomini e donne saranno lasciati liberi e non riceveranno alcun torto. La risposta giunge da uno dei maggiorenti della città, Ladislao De Marco: se gli assedianti vogliono Otranto — fa sapere —, devono venirsela a prendere con le armi. Al nuncius è intimato di non tornare più e, quando arriva un secondo messaggero con la medesima proposta di resa, costui viene trafitto dalle frecce; per togliere ogni sospetto, i capitani prendono le chiavi delle porte della città e, in modo visibile, da una torre, le buttano in mare, alla presenza del popolo. Durante la notte, buona parte dei soldati della guarnigione — constatata la sproporzione tra le forze contrapposte — pensa bene di calarsi con le funi dalle mura e di scappare. A difendere Otranto restano soltanto i suoi abitanti.
L’assedio che segue è martellante: le bombarde turche rovesciano sulla città centinaia di grosse palle di pietra; molte di esse sono state conservate e sono ancora oggi visibili per le strade del centro storico, all’ingresso del municipio o a fianco di ristoranti e di negozi. Dopo quindici giorni, all’alba del 12 agosto, gli ottomani concentrano il fuoco contro uno dei punti più deboli delle mura: aprono una breccia, irrompono nelle strade, massacrano chiunque capiti a tiro e raggiungono la Cattedrale, nella quale in tanti si sono rifugiati. Ne abbattono la porta e dilagano nel tempio, raggiungono l’arcivescovo Stefano, lì presente con gli abiti pontificali e con il crocifisso in mano: all’intimazione di non nominare più Cristo, poiché da quel momento regna Maometto, l’arcivescovo risponde esortando gli assalitori alla conversione, e per questo gli viene reciso il capo con una scimitarra. Il 13 agosto Ahmet chiede e ottiene la lista degli abitanti catturati, con esclusione delle donne e dei ragazzi di età inferiore ai quindici anni.
2. L’”amore della patria terrena” degli Ottocento Martiri
Così racconta il cronista De Marco: “In numero di circa ottocento furono presentati al pascià che aveva al suo fianco un miserrimo prete, nativo di Calabria, di nome Giovanni, apostata della fede. Costui impiegò la satannica sua eloquenza a fin di persuadere a’ nostri santi che, abbandonato Cristo, abbracciassero il maomettismo, sicuri della buona grazia d’Acmet, il quale accordava loro vita, sostanze e tutti quei beni che godevano nella patria: in contrario sarebbero stati tutti trucidati. Tra quegli eroi ve n’ebbe uno di nome Antonio Primaldo, sarto di professione, d’età provetto, ma pieno di religione e di fervore. Questi a nome di tutti rispose: “Credere tutti in Gesù Cristo, figlio di Dio, ed essere pronti a morire mille volte per lui”” (5). Aggiunge Laggetto: “E voltatosi ai cristiani disse queste parole: “Fratelli miei, sino oggi abbiamo combattuto per defensione della patria e per salvar la vita e per li signori nostri temporali, ora è tempo che combattiamo per salvar l’anime nostre per il nostro Signore, quale essendo morto per noi in croce conviene che noi moriamo per esso, stando saldi e costanti nella fede e con questa morte temporale guadagneremo la vita eterna e la gloria del martirio”. A queste parole incominciarono a gridare tutti a una voce con molto fervore che più tosto volevano mille volte morire con qual si voglia sorta di morte che di rinnegar Cristo” (6).
Ahmet decreta la condanna a morte di tutti gli ottocento prigionieri. Al mattino seguente, costoro vengono condotti con la fune al collo e le mani legate dietro la schiena al colle della Minerva, a poche centinaia di metri dalla città. Scrive, ancora, il cronista: “Ratificarono tutti la professione di fede e la generosa risposta data innanzi; onde il tiranno comandò che si venisse alla decapitazione e, prima che agli altri, fosse reciso il capo a quel vecchio Primaldo, a lui odiosissimo, perché non rifiniva di far da apostolo co’ suoi, anzi in questi momenti, prima di chinare la testa sul sasso, aggiungeva a’ commilitoni che vedeva il cielo aperto e gli angeli confortatori; che stessero saldi nella fede e mirassero il cielo già aperto a riceverli. Piegò la fronte, gli fu spiccata la testa, ma il busto si rizzò in piedi: e ad onta degli sforzi de’ carnefici, restò immobile, finché tutti non furono decollati. Il portento evidente ed oltremodo strepitoso sarebbe stata lezione di salute a quegl’infedeli, se non fossero stati ribelli a quel lume che illumina ognuno che vive nel mondo. Un solo carnefice, di nome Berlabei, profittò avventurosamente del miracolo e, protestandosi ad alta voce cristiano, fu condannato alla pena del palo” (7). Durante le fasi iniziali del processo per la beatificazione degli Ottocento, nel 1539, quattro testimoni oculari riferiscono il duplice prodigio di Antonio Primaldo, che resta in piedi dopo la decapitazione, e della conversione e del martirio del boia. Questa la dichiarazione di uno dei quattro, Francesco Cerra, che nel 1539 aveva 72 anni: “Antonio Primaldo fu il primo trucidato e senza testa stette immobile, né tutti gli sforzi dei nemici lo poter gettare, finché tutti furono uccisi. Il Carnefice, stupefatto per il miracolo, confessò la fede Cattolica essere vera, e insisteva di farsi Cristiano, e questa fu la causa, perché per comando del Bassà fu dato alla morte del palo” (8).
Cinquecento anni dopo, il 5 ottobre 1980, il beato Giovanni Paolo II — come ricordavo prima — si reca a Otranto per commemorare il sacrificio degli Ottocento. È una splendida mattinata di sole nella spianata sottostante il Colle della Minerva, dal 1480 chiamato “Colle dei Martiri”. Il Pontefice polacco coglie l’occasione per rivolgere un invito, attuale allora come oggi: “Non dimentichiamo […] i martiri dei nostri tempi. Non comportiamoci come se essi non esistessero” (9). Esorta a guardare oltre il mare e richiama espressamente le sofferenze del popolo di Albania, al quale in quel momento, sottoposto a una delle più feroci versioni del comunismo, nessuno rivolgeva l’attenzione. Trentatré anni dopo, proclamandoli santi, Papa Francesco si pone sulla lunghezza d’onda del predecessore: “Mentre veneriamo i Martiri d’Otranto, chiediamo a Dio di sostenere tanti cristiani che, proprio in questi tempi e in tante parti del mondo, adesso, ancora soffrono violenze, e dia loro il coraggio della fedeltà e di rispondere al male col bene” (10).
3. Roma “salvata” da Otranto
Il sacrificio di Otranto non è importante soltanto sul piano della fede. Le due settimane di resistenza della città consentono all’esercito del re di Napoli di organizzarsi e di avvicinarsi a quei luoghi, così impedendo ai diciottomila ottomani di dilagare per la Puglia. I cronisti dell’epoca non esagerano nell’affermare che la salvezza dell’Italia Meridionale è garantita da Otranto: e non solo quella, se è vero che la notizia della presa della città inizialmente induce il pontefice regnante, Sisto IV (1471-1484), a programmare il trasferimento ad Avignone, in Francia(11), nel timore che gli ottomani si avvicinino a Roma. Il Papa recede dall’intento quando il re Ferrante incarica il figlio Alfonso (1448-1495), duca di Calabria, di trasferirsi in Puglia, e gli affida il compito di riconquistare Otranto: il che accade il 13 settembre 1481, dopo che Ahmet è tornato in Turchia e Maometto II è morto.
È sempre Papa Giovanni Paolo II che sottolinea il valore civile di quanto accaduto a Otranto nell’estate del 1480: “I Beati Martiri ci hanno lasciato — e in particolare hanno lasciato a voi — due consegne fondamentali: l’amore alla Patria terrena; l’autenticità della fede cristiana.
“Il cristiano ama la sua Patria terrena. L’amore della Patria è una virtù cristiana” (12). In linea di continuità con il Pontefice beato, Papa Francesco ha ricordato il legame fra Antonio Primaldo e i suoi e l’intera nazione italiana: “I Martiri di Otranto aiutino il caro popolo italiano a guardare con speranza al futuro, confidando nella vicinanza di Dio che mai abbandona, anche nei momenti difficili” (13).
Ciò che rende questo straordinario episodio pieno di significato, anche per l’europeo di oggi, è che nella storia della Cristianità non sono mai mancate testimonianze di fede e di valori civili, né sono mai mancati gruppi di uomini che hanno affrontato con coraggio prove estreme. Mai però è accaduto un episodio di proporzioni così vaste: un’intera città dapprima combatte come può e tiene testa per più giorni all’assedio; poi risponde con fermezza alla proposta di abiura. Sul Colle della Minerva, al di fuori del vecchio Primaldo, non emerge alcuna individualità, se è vero che degli altri martiri non si conosce il nome, a riprova del fatto che non sono pochi eroi, bensì è una popolazione intera che affronta la prova.
Il tutto accade anche per l’indifferenza dei responsabili politici dell’Europa dell‘epoca di fronte alla minaccia ottomana. Nel 1459 Papa Pio II (1458-1464) aveva convocato a Mantova un congresso, al quale aveva invitato i capi degli Stati cristiani, e nel discorso introduttivo aveva delineato le loro colpe di fronte all’avanzata turca; benché nella circostanza venga decisa la guerra per contenere quest’ultima, poi non segue nulla, a causa dell’opposizione della Repubblica di Venezia e della noncuranza dell’Impero e del Regno di Francia. Dopo che i musulmani conquistano l’isola di Negroponte, l’odierna Eubea, appartenente a Venezia, una nuova alleanza contro gli ottomani, proposta da Papa Paolo II (1464-1471), viene fatta arenare dai milanesi e dai fiorentini, impegnati ad approfittare della situazione critica nella quale si trova la Serenissima. Il decennio successivo, con Sisto IV (1471-1484) che diventa pontefice nel 1471, fa assistere all’omicidio di Galeazzo Sforza (1444-1476), duca di Milano, all’alleanza antiromana del 1474 fra Milano, Venezia e Firenze, alla fiorentina Congiura dei Pazzi nel 1478 e alla guerra che ne segue, fra il Papa e il re di Napoli da una parte, e dall’altra Firenze, aiutata da Milano, da Venezia e dalla Francia. “Lorenzo il Magnifico [1449-1492], che aveva ammonito Ferrante di non prestarsi al gioco ed alle aspirazioni degli stranieri, fu proprio lui a sollecitare Venezia perché si accordasse con i Turchi e li spingesse ad assalire le sponde adriatiche del Regno di Napoli, al fine di turbare i disegni di Ferdinando e del figlio […].
“[…] la Serenissima, firmata da poco la pace con i Turchi (1479), aderì al disegno del Magnifico nella speranza di riversare sulla Puglia l’orda musulmana che da un momento all’alto poteva abbattersi sulla Dalmazia, dove sventolava il vessillo di S. Marco. […] E gli uomini di Lorenzo il Magnifico non esitarono neppure […] a sollecitare Maometto II ad invadere le terre del re di Napoli […], ricordandogli i vari torti subiti da questi. Ma il Sultano non aveva bisogno di questi consigli: da 27 anni attendeva il momento buono per sbarcare in Italia, e sin allora era stata proprio Venezia, la diretta avversaria sul mare, ad impedirglielo” (14).
Come mai, di fronte a una vicenda così straordinaria come quella di Otranto, nonostante l’intensa devozione popolare iniziata subito dopo il martirio e benché il processo di beatificazione sia stato avviato pochi anni dopo il 1480, sono dovuti trascorrere cinque secoli per proclamarli beati? Forse la risposta, alla luce di quanto hanno detto di loro i Pontefici, sta nel fatto che oggi è il momento giusto per porli al centro del mondo e della Storia, per far sì che loro, ignoti pescatori, artigiani, pastori e agricoltori, siano il punto di riferimento, al tempo stesso, della fedeltà a Cristo ovunque nel globo e dell’“amore per la Patria terrena”.
4. La “naturalezza” del sacrificio di Otranto
Se la storia non è mai identica a sé stessa, tuttavia non è arbitrario cogliere dai suoi sviluppi analogie e similitudini: esattamente mille anni dopo il 480, anno della nascita di san Benedetto da Norcia (480-547), un umile monaco alla cui opera l’Europa deve tanto della sua identità, altri umili uomini interpretano l’Europa meglio e più dei loro capi, pronti a combattersi reciprocamente piuttosto che a fronteggiare il nemico comune. Quando gl’idruntini si trovano di fronte alle scimitarre ottomane, non invocano la distrazione dei re per motivare un proprio disimpegno; forti della cultura nella quale sono cresciuti, pur se la gran parte di loro non ha mai conosciuto l’alfabeto, sono convinti che resistere e non abiurare costituisca la scelta più ovvia, quella in qualche modo naturale. Si provi a parlare oggi con un nostro connazionale che torna dall’Afghanistan, dopo aver completato il periodo di missione: ciò che si coglie con maggiore frequenza è la meraviglia per le discussioni e per i contrasti infiniti sulla nostra presenza in quegli scenari, o in altri simili. Per loro è naturale che si vada ad aiutare chi ha necessità di sostegno e che si garantisca la sicurezza della ricostruzione contro gli attacchi terroristici.
A Otranto cinque secoli fa nessuno ha invocato risoluzioni internazionali o ha chiesto la convocazione del consiglio comunale perché la zona fosse dichiarata demilitarizzata. Per due settimane quindicimila pacifici idruntini hanno bollito olio e acqua, finché ne hanno avuto, e li hanno rovesciati dalle mura sugli assedianti. Quando sono rimasti in vita soltanto ottocento uomini adulti e sono stati catturati, hanno fatto volontariamente la fine che oggi tanti fratelli nella fede continuano a subire in luoghi nei quali la persecuzione è cruenta, dal Niger all’Egitto, dal Sudan alla Somalia, dall’Indonesia ai Paesi arabi: ottocento teste tagliate una per una, senza che all’epoca cronisti politically correct ne abbiano censurato i dettagli. Se oggi conosciamo bene questa straordinaria vicenda, è perché chi l’ha descritta è stato preciso e rigoroso.
Oggi l’Europa è attaccata non — come nell’episodio storico richiamato — da una realtà ultrafondamentalista islamica istituzionalmente organizzata, bensì dall’equivalente di più organizzazioni non governative ispirate dall’ultrafondamentalismo e da tanti singoli terroristi “fai-da-te”, sobillati da seminatori di odio spesso nascosti sul web; mentre nei territori che si affacciano sulla sponda Sud del Mediterraneo le attese “primavere” sono diventati cupi inverni di violenza e di desolazione. Non è fuori luogo chiedersi quanto vi è oggi in Occidente, in Europa e in Italia, di quella “naturalezza” che ha portato un’intera comunità “a difendere la pace della propria terra” fino al sacrificio estremo. Il quesito ha senso, se si riflette che nella difesa dall’aggressione terroristica un elemento realmente decisivo è la tenuta del corpo sociale, o comunque di gran parte di esso, di fronte alla minaccia e ai modi più efferati di concretizzazione della stessa. È ovvio che la memoria di Otranto non vale soltanto a sottolineare che vi sono momenti in cui resistere è un dovere, ma prima ancora a ricordare a noi stessi chi siamo e da quali comunità discendiamo.
Nel 1571, novant’anni dopo il martirio di Otranto, una flotta di Stati cristiani ferma finalmente la minaccia turco-islamica nel Mediterraneo al largo di Lepanto. Lo scenario europeo non è migliorato nel frattempo: la Francia fa lega con i principati protestanti per contrapporsi agli Asburgo e si compiace della pressione che i turchi esercitano contro l’Impero nel Mediterraneo; Parigi e Venezia non muovono un dito per difendere i Cavalieri di Malta nell’assedio condotto contro di loro da Solimano il Magnifico (1494-1566). Questo vuol dire che la vittoria di Lepanto non è il frutto della convergenza d’interessi politici; al contrario, il trionfo — tale è stato — si realizza nonostante le divergenze. La straordinarietà di Lepanto sta nel fatto che, nonostante tutto, per una volta principi, politici e comandanti militari hanno saputo accantonare le divisioni e unirsi per difendere l’Europa. Questa unione si è certamente realizzata grazie all’impegno di uomini che non hanno disdegnato il nobile esercizio della leadership — come si dice oggi —, ma soprattutto perché la politica europea del secolo XVI ha ancora un residuo di visione del mondo sostanzialmente comune, fondata sul rispetto del cristianesimo e del diritto naturale. E se oggi tante testoline allegramente agnostiche girano liberamente, senza essere costrette ad avvolgersi nei burka, ciò accade anche perché qualcuno a suo tempo ha speso tempo, energie, e perfino la vita, per la buona causa: la vittoria degli altri avrebbe fatto cadere in mani musulmane l’Italia, e forse anche la Spagna.
5. Otranto, città martire per l’Europa
Otranto insegna che una civiltà culturalmente omogenea — o anche solo in prevalenza animata da princìpi di realtà — è capace di reagire in modo sostanzialmente compatto a difesa della propria pace, e lo fa senza calpestare l’identità e la propria dignità. Dal frutto — la bontà della reazione — si comprende che la radice — l’omogeneità culturale — è un bene, ovviamente nella misura in cui la cultura condivisa è sana. Oggi la Cristianità romano-germanica come civiltà omogenea non esiste più. Ne restano alcune vestigia significative. La riflessione su quanto accaduto nel 1480 permette d’individuare tre capisaldi attorno ai quali rifare unità, e cioè: a) il riferimento al diritto naturale, b) la riscoperta delle radici cristiane dell’Europa, c) l’amor di patria, esplicitamente evocato dal beato Giovanni Paolo II quale lascito dei martiri idruntini.
In una delle lettere inviate da san Paolo alle comunità cristiane che ha contribuito a costituire, vi è un’espressione che non può lasciare indifferenti: “la nostra lettera siete voi” (2 Cor. 3, 2), a conferma della prevalenza del rapporto umano su quello dello scritto, che pure l’Apostolo non riteneva marginale. All’indomani della rivoluzione in Francia, il pensatore e uomo politico savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821) riceve le considerazioni sconfortate di un amico che, come spesso capita nei dialoghi fra appassionati di politica, sono piene di amarezza sulla situazione dell’epoca e sulle prospettive dopo le devastazioni subite dalla Francia. E de Maistre, dopo avergli ricordato che il fondamento di tutte le costituzioni politiche sono gli uomini, gli chiede: forse che non esistono più uomini oggi in Francia? (15). Oggi, guardandosi allo specchio, ci si potrebbe rivolgere la medesima domanda, con tutti gli adattamenti del caso: forse che non esistono più uomini in Italia, in Europa, in Occidente?
La Sacra Scrittura è maestra anche su questo piano. Nel dialogo fra Dio e Abramo, Dio mette a conoscenza Abramo dell’intenzione di distruggere Sodoma e Gomorra (Gen. 18, 16-33). Abramo tenta di intercedere e gli dice: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse ci sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?”. Ricevuta l’assicurazione da Dio che, per riguardo a quei cinquanta giusti avrebbe perdonato l’intera città, Abramo va avanti, in una sorta di ardita trattativa: e se ce ne fossero 45, 40, 30, 20, o soltanto 10? La risposta di Dio è la medesima: “Non la distruggerò per riguardo a quei dieci”. Ma non se ne trovarono né 50, né 45, né 30, né 20, e neanche 10; e le due città furono distrutte. Questa pagina scritturale è terribile per la sorte di annientamento che prospetta alle civiltà che rinnegano i valori scritti nella natura dell’uomo: è una pagina che è stata dolorosamente riletta tante volte, soprattutto nel secolo XX, di fronte alle rovine del nazionalsocialismo e del socialcomunismo realizzato. Ma è altrettanto confortante per chi ritiene che la centralità dell’uomo e la coerenza con i princìpi non costituiscano soltanto il punto di partenza, ma abbiano un respiro strategico.
Nel 1480 quel brano del Genesi trova un’applicazione particolare: l’Europa, ma in particolare la sua città più importante, Roma, vengono risparmiate dalla distruzione non “per riguardo”, bensì “per il sacrificio” di ottocento sconosciuti pescatori, artigiani, pastori e agricoltori di una città periferica. Colpisce che quanto accaduto a Otranto non abbia avuto, e ancora non abbia, la conoscenza e il riconoscimento diffuso che merita. La stessa Chiesa ha atteso cinque secoli e gli ultimi tre Pontefici per proclamare “beati” quegli Ottocento, quindi per attestare che il “martirio” deve intendersi come storicamente e teologicamente accaduto, infine per giungere alla loro canonizzazione.
Nella cattedrale di Otranto le ossa dei Martiri accolgono chi visita l’edificio sacro ordinate in più edicole, nella cappella situata alla destra dell’altare maggiore. Chi entra in quella cappella trova anche una teca, esposta all’aria e visibile da chiunque, che reca all’interno l’intestino di un martire con il cibo, ancora inalterati nonostante siano trascorsi più di cinque secoli, e una spiga di grano raccolta dalla pietra sulla quale, uno per uno, gli Ottocento sono stati decapitati. Questi resti nella loro materialità sono al tempo stesso storia e attualità. Ricordano che la fede e la civiltà hanno un prezzo: un prezzo non monetizzabile, paradossalmente compatibile con l’aver ricevuto la fede e la civiltà come doni inestimabili. Quel prezzo viene chiesto a ciascuno in modo differente, ma — come insegnano i Santi Martiri — non ammette né saldi né liquidazioni. E per questo è iscritto nella Storia.
Note:
(1) Don Saverio De Marco, Compendiosa istoria degli Ottocento Martiri Otrantini, Tipografia Cooperativa, Lecce 1905, p. 11.
(2) Ibidem.
(3) La rinuncia al Pontificato di Papa Ratzinger ha coperto mediaticamente — come era ovvio — l’iniziativa della canonizzazione degli Ottocento Martiri. Chi ne ha accennato nei commenti ha escluso collegamenti fra le due comunicazioni e ha preferito insistere sulla coincidenza con la festa della Vergine di Lourdes, senza andare oltre. Eppure non è forzato immaginare un nesso fra quanto accaduto a Otranto nel 1480 e quanto accaduto nella sala del Concistoro l’11 febbraio 2013. Gli Ottocento Martiri — insieme con coloro che hanno combattuto e sono caduti sulle mura di Otranto per resistere agli ottomani — avrebbero potuto vivere di più: sarebbe bastato dapprima arrendersi, poi abiurare. Hanno scelto la fede, ritenendola più importante di qualche decennio o di qualche anno di vita terrena, e per questo sono entrati nella Storia. Il tempo per loro in qualche modo si è fermato, come attestano le reliquie custodite nella cappella della cattedrale di Otranto. Anche Benedetto XVI avrebbe avuto tempo, fino alla morte, per proseguire il pontificato; ha ritenuto più importante, come egli stesso ha ricordato, “il bene della Chiesa” (Udienza generale, del 27-2-2013, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 28-2-2013), ha rinunciato a quel tempo e per questo è entrato nella Storia. I Martiri hanno avuto l’umiltà di far venire Dio prima di sé; Papa Benedetto ha avuto l’umiltà di far venire la Chiesa, e quindi la barca di Dio, prima di sé. Quello dei Martiri è stato un gesto di fede semplice e diretto, nonostante fossero quasi tutti analfabeti; quello di Joseph Ratzinger è stato pur esso un gesto di fede semplice e diretto, nonostante egli sia uno degli uomini più colti del nostro tempo. Nulla nella Chiesa accade per caso; e spesso chiamiamo “caso” quel che i nostri limiti impediscono di vedere come opera della Provvidenza.
(4) La storia degli Ottocento Martiri di Otranto è nota nei particolari perché, oltre a essere recepita negli atti del processo di beatificazione, che utilizzano le deposizioni di testimoni oculari, è stata descritta da cronisti contemporanei, primo fra tutti Giovanni Michele Laggetto (1504-1571 ca.), Historia della guerra di Otranto del 1480, ripresa da un antico manoscritto e pubblicata dal canonico Luigi Muscari, Tip. Messapica, Maglie (Lecce) 1924. Cfr. anche l’opera di Antonio De Ferraris Galateo (1448-1517), De situ Japigiae, la cui prima edizione è pubblicata a Basilea nel 1558; Galateo era parente dell’arcivescovo di Otranto Stefano Argercolo de Pendinellis (1403-1480), morto durante la presa da parte degli ottomani: ho consultato la traduzione italiana La Iapigia, Messapica, Galatina (Lecce) 1975. Da non trascurare, infine, Pietro Colonna detto il Galatino (1460-1540), che riferisce dell’assedio di Otranto e del suo epilogo nei Commentaria in Apocalypsim, manoscritto conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Sull’episodio cfr. il mio Gli Ottocento Martiri di Otranto, in Cristianità, anno VIII, n. 61, maggio 1980, pp. 14-19.
(5) S. De Marco, op. cit., pp. 11-12.
(6) G. M. Laggetto, op. cit., pp. 37-38.
(7) S. De Marco, op. cit., pp. 13-14.
(8) G. M. Laggetto, op. cit., p. 41.
(9) Giovanni Paolo II, Omelia sul Colle dei Martiri, del 5-10-1980, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III, 2, 1980 (Luglio-Dicembre), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1980, pp. 773-781 (p. 777).
(10) Papa Francesco, Omelia nella Messa, del 12-5-2013, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 13/14-5-2013.
(11) Cfr. Ludovico von Pastor (1854-1928), Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, trad.it., Desclée, Roma 1925, vol. II, pp. 532-533.
(12) Giovanni Paolo II, Discorso ai giovani, del 5-10-1980, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III, 2, 1980 (Luglio-Dicembre), cit., pp. 790-793 (pp. 791-792).
(13) Papa Francesco, Regina Coeli, del 12-5-2013, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 13/14-5-2013.
(14) Monsignor Grazio Gianfreda (1912-2007), Otranto nella storia, Edizioni del Grifo, Lecce 1997, pp 251-252; cfr. anche Pietro Giannone (1676-1748), Istoria civile del Regno di Napoli, 5 voll., libro VIII, Società Tipografica De’ Classici Italiani, Milano 1823, pp. 322-323.
(15) Cfr. Joseph de Maistre, Lettera al visconte Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald (1754-1840), del 29-5-1819, in Idem, Oeuvres Complètes, nouvelle édition contenant ses Oeuvres posthumes et toute sa Correspondance inédite, vol. XIV, Correspondance VI. 1817-1821, Imprimerie Vitte & Perrussel, Lyon 1886, pp. 166-170 (pp. 168-169).