PAOLO MARIANI, Cristianità n. 258 (1996)
L’invasione giacobina e l’”intellighenzia” italiana
Dinanzi all’invasione del territorio italiano compiuta a partire dal 1796 a opera dell’Armée d’Italie, guidata dal giovane generale Napoleone Bonaparte (1769-1821), le reazioni degli uomini di cultura sono varie e articolate.
L’abate padovano Melchiorre Cesarotti (1730-1808), per esempio, scrive un’orazione in cui giura di morire per la Repubblica di San Marco ma, lodato da Napoleone Bonaparte, due giorni dopo la sconfessa e si schiera senz’altro con lui e con i francesi. Il sacerdote lombardo, poeta e letterato, Giuseppe Parini (1729-1799), meno cedevole sul piano dei princìpi e solamente più pragmatico, deve accettare di far parte personalmente della nuova municipalità rivoluzionaria costituita a Milano per arrivare ad accorgersi della violenza e della irreligiosità degli occupanti e ad allontanarsene amareggiato. Un altro suddito della Repubblica di San Marco, Ugo Foscolo (1778-1827), aderisce invece con furor sacro alle idee della Rivoluzione e compone, nel fervore dei primi tempi, l’ode A Bonaparte liberatore. Posizione questa più ideologizzante, come quella che settant’anni più tardi avrebbe sostenuta, collaborazionista a posteriori, Giosuè Carducci (1835-1907), osservando che l’invasione del 1796 aveva dopo tutto svecchiato un popolo “[…] di frati, briganti, ciceroni e cicisbei” (1) e aveva liberato l’Italia “[…] dalla polvere delle anticamere e dalle macchie e dal tanfo di sacrestia” (2) e che, dunque, si potesse ben pagare con opere d’arte e con libri, dal momento “[…] che al fin fine ci furono restituiti […] la coscienza di noi stessi che i Francesi con la repubblica e con l’imperio ci resero” (3).
Vittorio Alfieri “antifrancese”
Fra gli atteggiamenti più lucidi e meno compromissori di fronte a quegli eventi vi è piuttosto quello di un suddito del Regno di Sardegna, l’”astratto” Vittorio Alfieri: è un atteggiamento di decisa ripulsa che trova ne Il Misogallo, meglio che in altre opere dell’autore astigiano, toni particolarmente pregnanti, ora irosi e indignati, ora sarcastici e grotteschi, frutto di una meravigliosa bile inventiva (4).
Vita e opere
Nato ad Asti nel 1749 da una famiglia dell’antica nobiltà piemontese — aveva titolo di conte —, appena compiuti gli studi presso l’Accademia di Torino, da dove esce nel 1766 come porta insegne, il primo grado dell’ufficialità, Vittorio Alfieri si dà a conoscere l’Italia e l’Europa attraverso viaggi avventurosi, che narra poi nella Vita scritta da esso (5). Solo dopo il 1792 si stabilisce definitivamente a Firenze, dove muore nel 1803 e dove viene sepolto in Santa Croce. La composizione quasi occasionalmente originata di un dramma, Cleopatra, nel 1774 (6), sviluppa definitivamente in lui la vocazione letteraria, che impegna prima di tutto nel voler dare all’Italia quel teatro tragico, in cui solamente la letteratura italiana, secondo la mentalità del tempo, non poteva ancora gareggiare con gli antichi latini e greci. Fra le tragedie maggiori, tutte contraddistinte, com’è noto, da essenzialità d’intreccio, pathos altissimo ed eccezionale concentrazione dello stile, vanno ricordate Congiura de’ Pazzi, del 1779 (7), Virginia (8), Filippo (9), Agamennone (10) — ultimate tutte e tre nel 1781 —, e i capolavori, Saul, del 1782 (11), e Mirra, del 1786 (12). Compone anche commedie (13), le numerosissime Rime (14), e singolari opere di carattere morale e politico (15).
“Il Misogallo”
Tornando ora a Il Misogallo, le pagine del libretto, al di là di alcuni passi di storia, sono pagine di prosa d’arte o di poesia scritte fra il 1789 e il 1798, mentre l’idea di una loro raccolta selezionata e ordinata risalirebbe al 1793 e avrebbe preso corpo in un primo autografo nel 1795, quindi nel 1796; tale raccolta ha una sorta di tiratura manoscritta — ammontante a dieci esemplari — nel 1799, ne viene stampata una scelta anonima nel 1792 con il titolo Contravveleno Poetico per la Pestilenza corrente, quindi la prima edizione dell’opera esce solo nel 1814, scomparso Napoleone Bonaparte e alla vigilia della Restaurazione (16). Comunque, se dalle pagine de Il Misogallo non dobbiamo aspettarci sistematiche analisi degli avvenimenti militari, politici, costituzionali ed economici che stanno mutando l’Italia, è pur sempre dato, percorrendole, di rintracciare una singolare capacità di osservazione, sensibilità cronachistica, giudizi che rivelano l’impegno di una seria assiologia etico-politica. Le ragioni della condanna dell’invasione da parte dei giacobini francesi sono del resto tutte inscritte nelle rappresentazioni incisive: dove la campagna bonapartesca viene interpretata in chiari termini di intervento militare vile, di azione politica improvvisata, di sopruso depredatore, di spoliazione dell’onore italiano, di opera fautrice di grossolane empietà. Vi fa riscontro il sentimento dell’identità e della dignità della patria italiana, che esplode nella famosa profezia del sonetto finale — Giorno verrà, tornerà ’l giorno, in cui” (17) —, che auspica la riscossa antifrancese e il ricostituirsi dell’indipendenza.
Con sdegno il poeta dichiara, nella prevalente forma, rapida e sferzante, dell’epigramma, l’“inganno” dei francesi nell’agire “Contro pochi ed inermi, armati molti, / E in vista amici” (18), schernisce le “Reepubblicocuzze” fondate sulle galliche “culofatture” (19) — Vittorio Alfieri non solo in questo caso ricorre al linguaggio scatologico —, denuncia le spoliazioni, i saccheggi, le imposizioni di gravami fiscali, nonché le ruberie degli “Itali quadri”, che gli occupanti “sgraffiar ponno”, altro che “magnanimi conquistatori” (20)… In realtà, l’autore sconsolatamente constata, è tutta “La vile Europa” che “dalla Gallia vile / Batter si lascia” (21), mentre la forza dei francesi è fatta anche dalla debolezza di quanti aprono loro le porte — “Coalizzati ai Galli, e con gran frutto, / Tutti i Pessimi fur del Mondo tutto” (22) —, fra i quali egli ben scorge l’intellighenzia e i filo-illuministi patrii, derisi per il parassitismo e per l’insufficienza culturale: “E i Letterati, a mensa altrui rodenti; / E i Poetuzzi, il ricco invan lambenti; / E i Filosofurfanti, sconnettenti” (23).
Immancabile la figura di Napoleone Bonaparte al quale, con sarcastico capovolgimento speculare del Goffredo di Buglione descritto da Torquato Tasso (1544-1595), Vittorio Alfieri fa dire: “Rubo in Italia, e non guerreggio; cerco / Oro sonante” (24), e di fronte al cui operato egli certo non si chiede se la sua sia vera gloria, né lascia ai posteri l’ardua sentenza, qualificandolo senz’altro come “ignobil Capitan Pitocco” (25).
I toni si fanno tragici nell’epigramma LVI, dove, fra un eccezionale ribollimento d’umor nero, viene osservato che ai predatori francesi gli italiani stanno regalando anche l’onore (26); nell’epigramma LIX, dove l’invasore è additato con violento, espressionistico disprezzo come un novello Vanni Fucci collettivo, che ha fatto anche lui le fiche a Dio (27); e nel sonetto XLIII in cui si denuncia — “Questa [impresa] or mancava sola” — che è giunto a espugnare le “Romane chiese”, a intrecciare balli in Vaticano, a scacciarne quasi “Imperator nemico” l’ottuagenario Papa Pio VI (1775-1799), per farsi poi sacrilego alloro del “Santissimo Rosario” (28).
Questa seconda parte de Il Misogallo risulta d’altronde in piena, unitaria coerenza di giudizi con la prima, tutta incentrata sulla Francia e sulla sua Rivoluzione, osservata anch’essa dallo scrittore con assoluta riprovazione come il momento epocale in cui la realizzazione storica della liberté illuministica è fallita e ha portato anzi all’esito diametralmente opposto: alla costruzione della peggiore delle tirannie. Si pensi alla crisi cui dovette andare incontro Vittorio Alfieri, visto che gli ideali che naufragavano sotto i suoi occhi erano stati fino ad allora anche i suoi. È un fatto che Il Misogallo costituisce con le altre opere degli anni 1790 — l’epistolario (29), la Vita scritta da esso, le Satire (30), le commedie — una svolta capitale nell’evoluzione del suo pensiero.
“Fra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione” o “dalla Rivoluzione alla Contro-Rivoluzione”?
La formazione di Vittorio Alfieri era stata tipicamente illuminista. Al fortissimo impulso per la libertà, che gli era innato, egli cerca una conferma ideale e culturale nella massoneria, alla quale si affilia già forse negli anni della scuola militare e nella quale raggiunge il grado di “maestro” (31). Legge Plutarco (45 ca.-125) e Niccolò Machiavelli (1469-1527), i massoni Voltaire (François-Marie Arouet, 1694-1778) e Claude-Adrien Helvétius (1715-1771) e il massonizzante Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). Se la sua visione del mondo anteriore al 1789 si riverbera nella tragedia libertaria, per cui è più comunemente noto, essa più direttamente si esprime in opere come i due trattati politici, Della tirannide, del 1777 (32), e Del Principe e delle lettere, del 1777-1786 (33), che della letteratura massonica del secolo, impegnata su quegli argomenti, sono fra i capolavori a livello europeo e non (34). Nel primo dei due saggi, per esempio, significativamente lo scrittore sostiene l’ideale repubblicano, la sovranità popolare, la dottrina della separazione dei poteri. Quanto alla religione osserva che, spesso, proprio essa ha creato le tirannidi civili; che “[…] la religion cristiana […] non comanda se non la cieca ubbidienza; non nomina nè pure mai libertà; ed il tiranno […] interamente assimila a Dio” (35) e che con il cattolicesimo un popolo è costretto a divenire “ignorantissimo, servissimo, e stupidissimo” (36). Ma, soprattutto, il testo si qualifica per l’antropologia razionalistica e libertaria e per la morale tendenzialmente relativistica, continuamente sottese ai frequenti luoghi, che implicano una concezione dell’uomo come non dipendente che da se stesso e della vita come autorealizzazione. Si tratta di idee così intime al pensiero alfieriano, che si tradurranno anche nella lirica di quegli anni: nelle odi de L’America libera, del 1781-1783, che contemplano con ammirazione il sorgere di una nuova società tutta e solo fondata sulla libertà e ne celebrano i propugnatori George Washington (1732-1799), Benjamin Franklin (1706-1790) e Marie-Joseph de Motier, marchese di La Fayette (1757-1834) — si sa che furono tutti e tre “fratelli” — (37); e nell’ode Parigi sbastigliato, composta appena dopo il 14 luglio 1789, nella quale il poeta ancora esprime il suo entusiasmo per la Rivoluzione (38).
Lungo tutti questi percorsi si ritrovano coordinate teoretiche tipicamente liberomuratorie. Bernard Faÿ (1893-1978), per procedere secondo esempi, ha mostrato che fu grazie all’Esprit des lois del “fratello” Charles de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu (1689-1755), che la massoneria diffuse in Europa l’idea dell’uso rivoluzionario del parlamento, al quale essa stessa addestrò, con la pratica delle logge (39). Lo storico della massoneria Carlo Francovich (1910-1990) ha indicato come idee antimonarchiche e repubblicane affiorassero, seppure sporadicamente, quali obbiettivi d’azione nella Libera Muratoria in Italia dopo il 1752 (40). Ernest Nys (1851-1920), significativo esponente della cultura massonica ottocentesca, cattedratico di storia giuridica dell’Università libera di Bruxelles, ha documentato come “[…] la Massoneria contribuì potentemente a preparare il movimento formidabile del 1789″ (41) ed è uno dei tanti autori di parte massonica che hanno riconosciuto come massoniche le posizioni, in fatto di religione, del rifiuto dell’autorità, del libero esame e dell’antidogmatismo, del relativismo e dell’anticlericalismo (42).
Ebbene: il Vittorio Alfieri in cui ci si imbatte man mano che la Rivoluzione si compie è un Vittorio Alfieri in via di profondi ripensamenti, che in larga misura si ricrede sulla propria adesione alla prospettiva massonica e sul proprio illuminismo e lo palesa in ammissioni anche fortissime. “[…] disonorai allora la mia penna”, scrive ne Il Misogallo riferendosi all’ode Parigi sbastigliato (43), e denuncia apocalitticamente che, dopo il 14 luglio 1789, i francesi hanno operato la “violazione d’ogni proprietà, d’ogni giustizia, e d’ogni legge umana e divina” (44). Ma particolarmente indicativo di una crisi è il fatto che in lui, si direbbe, stia cambiando il concetto di libertà, vera pietra di paragone concettuale per una mentalità formatasi in sintonia con i philosophes. Ne Il Misogallo, infatti, la libertà non è più intesa come nei due libri Della tirannide, in senso soggettivistico e in quanto priva di un’intrinseca strutturazione ontologica, nei termini che emblematicamente il secolo esprimerà con l’articolo 4 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 — “La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri” —, ma viene a essere concepita in un senso che si accosta a quello tradizionale, della filosofia classico-cristiana, cioè come inseparabilmente unita all’ordine del vero e del giusto. Libertà, “Tu, di Giustizia suora, or ten disgiungi? / Religïon, già base tua, dileggi?”, chiede il poeta dinanzi agli orrori della Rivoluzione (45). Piuttosto “È Repubblica il suolo, ove divine / Leggi son base a umane leggi e scudo” (46). Si noti che qui, oltretutto, viene ribadito il nesso religione-morale-diritto, su cui era poggiato per secoli l’Ancien Régime.
In realtà, in questo Vittorio Alfieri fin de siècle, senza escludere in lui elementi contraddittori — come sostiene uno dei suoi maggiori biografi, Emilio Bertana (1860-1934) (47) — o, sotto aspetti fra loro anche distanti, reazionari — come affermano lo storico e critico della letteratura italiana Natalino Sapegno (1901-1990) e il giurista e storico del pensiero e delle dottrine politiche, nonché filosofo del diritto e della politica, Alessandro Passerin d’Entrèves (1902-1985) (48) —, si nota la presenza, che è risultanza diversa ancora, di tendenze propriamente contro-rivoluzionarie. E Giuseppe Giarrizzo sostiene addirittura che il Vittorio Alfieri “misogallo” deriverebbe dal pubblicista gesuita Augustin de Barruel (1741-1820) (49): da un autore che fu, appunto, fra gli iniziatori del pensiero contro-rivoluzionario cattolico e che ha lasciato un’eccezionale indagine sugli Illuminati di Baviera e sulla Rivoluzione nelle Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme, edita a Londra, in quattro volumi, nel 1797 (50), tanto discussa in passato, ma che Renzo De Felice (1929-1996) ha riconosciuto essere l’opera che “[…] fu, tra tante, quella che più di ogni altra si spinse in profondità e più si avvicinò alla sostanza del giacobinismo” (51).
La conferma nelle “Satire”
Segnalo appena, anche se essenziali da esaminare per il discorso qui suggerito, le Satire, dove il poeta fa i conti con il proprio illuminismo, come nella Satira settima. L’Antireligionería, del 1796 (52), prendendo le difese del cristianesimo contro Voltaire; e con la propria precedente accettazione della prospettiva massonica, come nella Satira undecima. La Filantropinería, del 1797 (53), e soprattutto nella Satira decimaquinta. Le imposture, del 1797, dove, concentrandosi sulla società segreta degli Illuminati di Baviera, egli mostra la consapevolezza che esistono nella sua età poteri occulti, i quali agiscono mirando al dominio e al controllo sociali (54). Era questa appunto la grande asserzione di Augustin de Barruel.
Non entro nel merito se Vittorio Alfieri abbia riconsiderato il cristianesimo e la sua azione morale e sociale per convinzione o per mera, machiavelliana valutazione politica. Durante il Triennio Rivoluzionario, dal 1796 al 1799, non schierato né con la chiesuola dei giacobini, né con la Chiesa delle masse insorgenti cattoliche, ma fra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, egli appare invero un appartato, anche se molto lo lascia intravedere più vicino a quest’ultima. Le ultime sue composizioni si presentano come l’opera di esorcizzazione di un clerc, che ha intuito la Rivoluzione come azione più o meno conscia di dissolvimento della civiltà e che si avvia per questo alla riscoperta dei valori da essa misconosciuti e conculcati. Quindi, mi sembra di poter parlare a questo proposito di un cammino in varia misura positivo dello scrittore, dinanzi alla lezione dei fatti, verso una comprensione essenziale della Rivoluzione e della modernità.
Paolo Mariani
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(1) Cfr. Giosuè Carducci, Ça ira, in Idem, Confessioni e battaglie, vol. I, Zanichelli, Bologna 1924, p. 452.
(2) Ibid., p. 453.
(3) Ibidem.
(4) Cfr. Vittorio Alfieri, Il Misogallo, in Idem, Scritti politici e morali, vol. 3 (vol. 5 delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti), a cura di Clemente Mazzotta, Casa d’Alfieri, Asti 1984, pp. 191-412. Il riferimento è sempre all’edizione nazionale delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti, pubblicata dal 1951 sotto gli auspici del Centro di Studi Alfieriani di Asti, Casa d’Alfieri, con la revisione critica dei testi da parte di alcuni dei maggiori filologi italiani.
(5) Cfr. Idem, Vita scritta da esso, 2 voll. (voll. 1 e 2 delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti), a cura di Luigi Fassò, Casa d’Alfieri, Asti 1951.
(6) Cfr. Idem, Cleopatra, in Idem, Antonio e Cleopatra. I Poeti. Charles Premier, vol. I delle Tragedie postume (vol. 32 delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti), a cura di Marco Sterpos, Casa d’Alfieri, Asti 1980.
(7) Cfr. Idem, Congiura de’ Pazzi, vol. XII delle Tragedie (vol. 20 delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti), a cura di Lovanio Rossi, Casa d’Alfieri, Asti 1968.
(8) Cfr. Idem, Virginia, volume IV delle Tragedie (vol. 13 delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti), a cura di Carmine Jannaco, Casa d’Alfieri, Asti 1955.
(9) Cfr. Idem, Filippo, vol. I delle Tragedie (vol. 6 delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti), a cura di C. Jannaco, Casa d’Alfieri, Asti 1952.
(10) Cfr. Idem, Agamennone, vol. V delle Tragedie (vol. 16 delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti), a cura di C. Jannaco e Raffaele De Bello, Casa d’Alfieri, Asti 1967.
(11) Cfr. Idem, Saul, vol. XIV delle Tragedie (vol. 31 delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti), a cura di C. Jannaco e Angelo Fabrizi, Casa d’Alfieri, Asti 1982.
(12) Cfr. Idem, Mirra, vol. XVIII delle Tragedie (vol. 23 delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti), a cura di Martino Capucci, Casa d’Alfieri, Asti 1974.
(13) Cfr. Idem, Commedie, 3 voll. (voll. 10, 11 e 12 delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti), a cura di Fiorenzo Forti, Casa d’Alfieri, Asti primo e secondo 1953 e terzo 1958.
(14) Cfr. Idem, Rime, vol. 9 delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti, a cura di Francesco Maggini, Casa d’Alfieri, Asti 1954.
(15) Cfr. Idem, Scritti politici e morali, 3 voll. (voll. 3, 4 e 5 delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti), i primi due a cura di Pietro Cazzani, il terzo di C. Mazzotta, Casa d’Alfieri, Asti 1951, 1966 e 1984.
(16) Cfr. C. Mazzotta, Introduzione a V. Alfieri, Scritti politici e morali, vol. 3 (vol. 5 delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti), cit., pp. XI-CLI (pp. XLVIII-LV).
(17) Cfr. V. Alfieri, Il Misogallo, Conclusione, p. 411.
(18) Ibid., Epigramma LIV. 18 Luglio 1796, p. 395.
(19) Ibid., Epigramma LII. 23 Maggio 1796, nota 70, p. 393.
(20) Ibidem.
(21) Ibid., Epigramma LIII. 7 Giugno 1796, p. 394.
(22) Ibid., Epigramma XLIX. 13 Maggio 1796, pp. 385-389 (p. 389).
(23) Ibid., p. 388.
(24) Ibid., Epigramma LXI. 6 Agosto 1796, p. 403; il riferimento tassesco — segnalato dallo stesso Vittorio Alfieri nella nota 77 — consiste nel verso “guerreggio in Asia, e non vi cambio o merco” (Gerusalemme liberata, canto ventesimo, ottava 142), ripreso integralmente.
(25) Ibidem.
(26) Cfr. ibid., Epigramma LVI. 22 Luglio 1796, p. 398.
(27) Cfr. ibid., Epigramma LIX. 28 Luglio 1796, p. 401; il riferimento al personaggio dantesco — il ladro pistoiese di oggetti sacri Vanni Fucci (cfr. Dante Alighieri [1265-1321], La Divina Commedia. Inferno, canto XXIV, vv. 122-151) e al suo gesto di scherno a Dio (cfr. ibid., canto XXV, vv. 1-3) — è chiaro, ma non indicato nelle note dell’autore.
(28) Ibid., Sonetto XLIII. 2 Marzo 1798, p. 409.
(29) Cfr. Idem, Epistolario, 2 voll. (voll. 14 e 15 delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti), a cura di Lanfranco Caretti, Casa d’Alfieri, Asti 1963 e 1981.
(30) Cfr. Idem, Satire, in Idem, Scritti politici e morali, vol. III, cit., pp. 63-190.
(31) Cfr. Giuseppe Giarrizzo, Massoneria e illuminismo, Marsilio, Venezia 1994, p. 153. Per la presenza del nome di Vittorio Alfieri nei tableaux della loggia La Vittoria di Napoli nel 1782 e nel 1784, cfr. Carlo Francovich, Storia della Massoneria in Italia dalle origini alla Rivoluzione Francese, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 353, nota 29; per il suo raggiungimento del grado di “maestro”, cfr. Rivista Massonica, vol. LXV-IX della nuova serie, n. 6, giugno 1974, p. 370: l’informazione è contenuta in una nota introduttiva anonima che, sotto il titolo La “Satira XV” e l’Appendice al capitolo I della “Vita” dell’Alfieri, presenta trascritti alle pp. 370-372 questi due testi.
(32) Cfr. V. Alfieri, Della tirannide, in Idem, Scritti politici e morali, vol. I (vol. 3 delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti), Casa d’Alfieri, Asti 1951, pp. 3-110.
(33) Cfr. Idem, Del Principe e delle lettere, in Idem, Scritti politici e morali, vol. I, cit., pp. 111-254.
(34) Una traduzione in turco del testo alfieriano Della tirannide — pubblicata a Ginevra nel 1898 — è alla base di The characteristics of tyranny di ‘Abd al Rahman al-Kawakibi (1849?-1902) — un siriano considerato il pioniere ideologico del panarabismo e avversario dell’impero ottomano —, edita nel 1900: cfr. Bernard Lewis, voce Panarabismo, in Enciclopedia del Novecento, vol. V, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1980, pp. 67-78 (p. 69).
(35) V. Alfieri, Della tirannide, cit., p. 44.
(36) Ibid., p. 46.
(37) Cfr. Idem, L’America libera, del l781-1783, in Idem, Scritti politici e morali, vol. II (vol. 4 delle Opere di Vittorio Alfieri da Asti), Casa d’Alfieri, Asti 1966, pp. 241-264.
(38) Cfr. Idem, Parigi sbastigliato, ibid., pp. 265-275.
(39) Cfr. Bernard Faÿ, La Massoneria e la rivoluzione intellettuale del secolo XVIII, trad. it., Einaudi, Torino 1945, pp. 175-176.
(40) Cfr. C. Francovich, op. cit., pp. 156, 160 e 164.
(41) Ernesto Nys, Origini glorie e fini della Massoneria, A. Forni, Sala Bolognese (Bologna) 1986, reprint dell’ed. del 1914, p. 103; nelle pagine seguenti, fino alla 107, l’autore sviluppa la dimostrazione del legame fra la massoneria e la Rivoluzione francese.
(42) Cfr. ibid., pp. 26, 58, 130 e 141.
(43) V. Alfieri, Il Misogallo, Prosa seconda. 24 Gennaio 1793. Ragion dell’opera. Avvenimenti, cit., p. 222.
(44) Ibid., p. 223.
(45) Ibid., Sonetto III. 17 Agosto 1790. In Parigi, pp. 238-239 (p. 238).
(46) Ibid., Sonetto XVI. 20 Ottobre 1792. In Kaufbairen, nella Soavia, pp. 261-262 (p. 261).
(47) Cfr. Emilio Bertana, Vittorio Alfieri studiato nel pensiero, nella vita e nell’arte, 2a ed., Loescher, Torino 1904, pp. 328 e 341.
(48) Cfr. un’analisi delle posizioni critiche di Natalino Sapegno e di Alessandro Passerin d’Entrèves intorno a Vittorio Alfieri misogallico, in Daniele Gorret, Il poeta e i mille tiranni. Per una rilettura critica del “Misogallo” dell’Alfieri, Laveglia, Salerno 1991, pp. 128-129.
(49) Cfr. G. Giarrizzo, op. cit., p. 503, nota 9; vicino alle posizioni di pensatori contro-rivoluzionari come Louis de Bonald (1754-1840), Joseph de Maistre (1753-1821) ed Edmund Burke (1729-1797) è inteso l’ultimo Vittorio Alfieri anche in Vitilio Masiello, Ragione e senso di un libello controrivoluzionario: il “Misogallo”, in Vittorio Alfieri e la cultura piemontese fra illuminismo e rivoluzione. Atti del convegno internazionale di studi in memoria di Carlo Palmisano, San Salvatore Monferrato, 22-24 settembre 1983, a cura di Giovanna Ioli, Cassa di Risparmio di Alessandria. Città di San Salvatore Monferrato. Regione Piemonte, Torino 1985, pp. 257-273 (pp. 262 e 267).
(50) Cfr. Augustin Barruel, Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme, Diffusion de la Pensée Française, Chiré-en-Montreuil 1974, 2 voll.; l’edizione è condotta su quella riveduta e corretta dall’autore nel 1818, con un’introduzione di Christian Lagrave.
(51) Renzo De Felice, Giacobini italiani, in Società, ottobre 1956, poi in Idem, Il triennio giacobino in Italia (1796-1799), a cura di Francesco Perfetti, Bonacci, Roma 1990, p. 81.
(52) Cfr. V. Alfieri, Satire, in Idem, Scritti politici e morali, vol. III, cit., pp. 63-190 (pp. 109-120); sulla politica in quest’opera, cfr. Giulio Carnazzi, L’altro Alfieri. Politica e letteratura nelle “Satire”, Mucchi, Modena 1996, soprattutto cap. III, Nel pianeta delle idee, pp. 61-91.
(53) Cfr. V. Alfieri, Satire, cit., pp. 159-164.
(54) Cfr. ibid., pp. 184-188.