PAOLO MARIANI, Cristianità n. 303 (2001)
La Bassvilliana di Vincenzo Monti (1754-1828) è forse l’opera poetica più bella che sia stata ispirata in Europa dalla reazione contro la Rivoluzione del 1789, detta francese. La stessa Contro-Rivoluzione della Vandea, nel 1793, che fu uno degli episodi insurrezionali più drammatici e più eroici fra quelli che si verificarono in un paese a eccezionale vocazione letteraria come la Francia, probabilmente non può vantare di aver ispirato una rappresentazione poetica tanto vivace per le immagini, aderente e partecipata.
Vincenzo Monti nasce in Romagna — ad Alfonsine, presso Ravenna — da una famiglia di proprietari terrieri che, dopo averlo avviato agli studi, gli consente di trasferirsi a Roma, dove vivrà fra il 1778 e il 1797, formandosi come poeta in un’atmosfera pregna di cattolicesimo, di gusto per la classicità latina e di passione per l’archeologia. Nella capitale dello Stato Pontificio, grazie anche alla sua prodigiosa capacità di assimilazione, egli saprà far propria quella cultura, ma si aprirà pure alla sensibilità romantica, con il poema La bellezza dell’universo, del 1781 (1), e all’interesse per la scienza, tanto diffuso nel suo secolo, con l’ode Al Signor di Montgolfier, del 1784 (2).
Il poema In morte di Ugo Bassville (3), detto comunemente dall’autore stesso Cantica Bassvilliana, è il suo capolavoro di quegli anni. Esso è scritto da Monti nel 1793, sotto l’incalzare delle impressioni suscitate in lui dalla morte, nello stesso anno, di Nicolas-Jean Hugou (1753-1793), detto Bassville. Gli eventi epocali che stavano cambiando il mondo duravano già dal 1789 e nel 1792, in particolare, il Regno di Francia era entrato in guerra con l’Impero Asburgico e con il Regno di Prussia; l’assemblea legislativa aveva proclamato la Repubblica e contro i nemici della Rivoluzione si erano scatenate quelle che sarebbero passate alla storia come le stragi di settembre. La gravità di quei fatti non poteva non avere riflessi anche sulla situazione romana, dove il corpo diplomatico francese aveva infatti rapporti sempre più difficili con il governo pontificio e con la stessa realtà cittadina di ogni giorno. Qualche accadimento clamoroso si “doveva” dunque produrre e si verifica infatti il 13 gennaio del 1793. Quel giorno Bassville, emissario del governo francese, ostenta per le strade della città la coccarda tricolore della Rivoluzione, quando un colpo di pistola, partito dalla sua carrozza, porta la provocazione al culmine e scatena all’inseguimento la folla, che lo raggiunge sulla scalinata della sua abitazione e lo finisce a morte. Di lì a qualche giorno Monti trae dall’episodio l’idea di un’opera in versi capace di raffigurarne il significato — che andava al di là del fatto di cronaca in sé — e impegnata a ricollegarsi addirittura a tutta la crisi che stava allora vivendo l’Europa. La bellezza dello scritto che si forma sotto la penna dell’autore consiste proprio in questo: la Cantica rappresenta diversi momenti della Rivoluzione francese, concentrandosi sulla loro valenza filosofica e religiosa, e li espone poeticamente — così favorendone una migliore comprensione — in un susseguirsi sorprendente d’immagini piene di forza.
Il successo dell’opera è enorme: “quattordici edizioni […] nello spazio di soli sei mesi” (4), informa l’autore stesso. Ovviamente oggi esprimere in poesia una presa di posizione ideologica di fronte a fatti di cronaca sarebbe inconcepibile, ma due secoli fa, in un contesto di secolari tradizioni letterarie come quello italiano, e in una società dove i mass media ancora non hanno cambiato le modalità della comunicazione culturale, la scelta non è sbagliata. Come ha mostrato lo storico della cultura fiammingo francofono Paul Hazard (1878-1944), nell’Italia della fine del 1700, che s’indigna di fronte allo scoppio e agli sviluppi dei fatti dell’Ottantanove, l’influenza della letteratura rivoluzionaria francese, esercitatasi per lungo tempo, comincia a scemare: negli Stati di tutta la penisola, e soprattutto a Roma, sede del Papato, documenta ampiamente lo studioso, si diffondono libri, stampe, opere teatrali e opuscoli, che sono effetto e causa dell’odio antirivoluzionario che si manifesta come avversione antifrancese (5). “Nei momenti solenni della storia italiana, le lettere si sono sempre avvicinate alla nazione”, nota Hazard (6). La Bassvilliana, sullo sfondo di questa produzione imponente, appare come la punta dell’iceberg, il capolavoro che esprime meglio di ogni altro scritto il contesto storico e culturale, che si è appena formato e che dà alla Contro-Rivoluzione in Italia l’opera migliore di uno dei “maggiori” della letteratura. Perché le opere di Monti sono state sempre apprezzate per la perfezione dello stile, ma spesso sono state giudicate anche come non altrettanto felici quanto al contenuto; mentre, se vi è una composizione montiana che non merita certamente una simile riserva, questa è appunto la Bassvilliana, e per un chiaro motivo: proprio per l’adesione contro-rivoluzionaria che l’ispira, Monti vi riesce pieno di mordente, impegnato verso il suo tempo, poeta insomma non d’evasione, ma che guarda all’uomo e gli si fa compagno discreto lungo il cammino accidentato della sua storia.
L’immagine conduttrice del poema raffigura Bassville morto riconciliato con la Chiesa, come storicamente accadde, che ora deve espiare la propria apostasìa andando in Francia, guidato da un angelo, a vedere gli orrori che la Rivoluzione vi sta perpetrando.
Nel canto primo stanno al centro della rappresentazione le stragi, le crudeltà, gli atti sacrileghi compiuti nel nome di quella Liberté che è stata posta a principio dell’abbattimento della vecchia società e a fondamento della nuova e che — mostra il poeta — è causa di un’esperienza di straordinaria prevaricazione sociale e religiosa: “la temeraria Libertà di Francia” (v. 95), “Libertà che stolta / in Dio medesmo l’empie mani adopra” (vv. 116-117).
Nel canto secondo è di scena ancora la Liberté rivoluzionaria come fattore che ha scatenato nel popolo francese abissi d’irresponsabilità e di efferatezza: “Parigi […] tardi e mal si pente / della sovrana plebe cittadina” (vv. 23-24); ora il “barbaro celta” (v. 212) è “di sua libertà spietato e baldo” (v. 214). Il fatto che più clamorosamente ne deriva, l’uccisione di re Luigi XVI di Borbone (1754-1793) , il cui regno è il fulcro della Cristianità — “il re più grande” (v. 133); il “maggior de’ troni” (v. 191) — viene lucidamente ritratto come compiuto contro un’istituzione, la cui ragion d’essere fa tutt’uno con la religione: “la causa di Cristo e di Luigi” (v. 149).
Il canto terzo contrappone Rivoluzione e Contro-Rivoluzione nel modo più drammatico e allusivo. Papa Pio VI (1775-1799) vi appare come il difensore dell’onore italiano (v. 56) e la pietra angolare del sistema delle monarchie coalizzate contro la Francia (vv. 135-144; 151-165), mentre Luigi XVI è senz’altro presentato come un martire cristiano (vv. 106-144) (7). Le responsabilità prime della Rivoluzione e del sacrificio del re vengono d’altronde attribuite agli esponenti della sovversione filosofica illuminista, ritratti come ombre che si affollano attorno al cadavere di Luigi: François Marie Arouet, detto Voltaire (1694- 1778), Denis Diderot (1713-1784), Jean-Claude-Adrien Helvétius (1715-1771), Jean Jacques Rousseau (1712-1778), Jean-Baptiste D’Alembert (1717-1783), Guillaume-Thomas-François Raynal (1713-1796), Pierre Bayle (1647-1706), Nicolas Frèret (1688-1749), Cornelius Giansenio (1588-1638) e i giansenisti e, capeggiante fra tutti per empietà, Paul Heinrich d’Holbach (1723-1789), che con “orribil voce” (v. 346) svela lui stesso il senso dissacratore dell’opera: “Dio distrussi” (v. 347). La loro attività intellettuale ha posto le principali premesse della demolizione delle due architravi della società cristiana, la Chiesa e la monarchia: “il soglio […] e la fede” (v. 254); “trono” (v. 269) e “ara” (v. 269); “il diadema […] e la tiara” (v. 273); “regi e sacerdoti” (v. 278); “Cesare e Dio” (v. 303); “lo scettro e le stole” (v. 336).
Il canto quarto introduce infine una descrizione decisiva degli avvenimenti — la Rivoluzione è demoniaca, angelica è la Contro-Rivoluzione (vv. 13-60) — e ritrae la Rivoluzione come opposizione ai valori fondamentali del mondo cristiano, la Fede e la Carità (vv. 109-126), mentre nella parte finale fa della coalizione antifrancese degli Stati europei l’oggetto delle speranze nella riscossa della civiltà tradita (vv. 322-351).
Lo studioso francese Bruno Toppan, titolare della cattedra di Lingua e Letteratura Italiana Moderna presso l’università Nancy 2, ha studiato proprio il versante contro-rivoluzionario della produzione montiana, ma ciò che sembra gli sfugga, a mio avviso, è appunto la profondità del giudizio espresso nella Bassvilliana sulla Rivoluzione dell’Ottantanove (8). Secondo il critico, la Cantica avrebbe gli stessi limiti della propaganda contro-rivoluzionaria della Roma e della Chiesa del tempo, da cui il poeta attinge le idee che animano l’opera. La Bassvilliana — sostiene lo studioso — “[…] non affronta le cause profonde, sociali ed economiche, di questa Rivoluzione. La sola spiegazione accolta è quella dell’erosione dei princìpi di autorità incarnati dalla monarchia e dalla religione. La sola controproposta è il ritorno ad una situazione — d’altronde mitica o utopica — da cui ogni velleità di emancipazione del pensiero sarebbe stata assente” (9). Una critica dunque che, fra ascendenze marxiste da una parte e illuministe dall’altra, sembra trasferire su Monti e nell’ambito letterario giudizi analoghi a quelli che, a livello storiografico, sono stati spesso pronunciati sulla Contro-Rivoluzione italiana sotto il profilo storico-politico. Mi pare invece di poter rilevare che Monti, il quale ancora il 7 giugno 1794 dichiarava in una lettera di sentirsi “buon cattolico” (10), semplicemente nel 1793, di fronte alla Rivoluzione, si trova non certo prigioniero degli schematismi di una propaganda, ma piuttosto in larga sintonìa con la coscienza nazionale dell’epoca. “Il radicamento del cattolicesimo, la presenza della Santa Sede, l’intensa opera di rinascita religiosa operata dalle congregazioni missionarie, la struttura politico-territoriale a base prevalentemente municipale, la varietà degli statuti locali, le differenze di costumi, […] la relativa “leggerezza” degli Stati — che lasciava ancora notevole autonomia alle comunità particolari” (11) stimolano, infatti, la reazione compatta delle popolazioni italiane. Anche l’episodio romano di Bassville è logicamente collocabile all’interno del grande, prolungato evento delle insorgenze contro-rivoluzionarie e più propriamente dell’Insorgenza italiana.
Va da sé che nello stendere la Bassvilliana Monti deve ovviamente comprendere di non potersi considerare del tutto esonerato dagli oneri metodologicamente più propri della ricerca storica, come quello di compiere ricognizioni esaurienti, di evitare semplicismi nelle interpretazioni o, nei giudizi, parzialità, moralismi, chiusure e via dicendo. Ma capisce certamente che il suo problema in quanto poeta era prima di tutto un altro: quello cioè di cogliere valore simbolico nella realtà, d’identificare “universali concreti” da rendere in immagine. Così dinanzi a un avvenimento complesso e oltretutto ancora in via di svolgimento come la Rivoluzione, Monti vede nella società tradizionale e nella società che si stava costruendo le due differenti concezioni dell’uomo, della storia, del mondo che ne stavano rispettivamente alle origini, e compie la scelta di stare dalla parte che gli appariva più vicina alla “verità delle cose”. Infatti, molto chiara appare nell’autore la consapevolezza che la Rivoluzione francese è eminentemente una questione di concezione del mondo e che il concetto liberale di libertà e il filosofismo del secolo sono i punti chiave sui quali essa s’impegna, mentre la Chiesa e la monarchia sono le istituzioni contro cui essa si schiera.
Questa visione del poeta avrà d’altronde conferma nella sua produzione successiva, quando egli, passando dalla parte della Rivoluzione e accostandosi alla massoneria, non farà che parlare degli stessi argomenti delle sue composizioni precedenti, ma da un punto di vista esattamente opposto. Il 1797 già segna l’avvenuta “conversione” dell’autore che, tutto fervido ormai dei nuovi spiriti giacobini, razionalisti, anticlericali e anticattolici, imposta la parte più accesa, provocatoria della sua opera creativa sempre sui grandi problemi del dibattito culturale posto dalla Rivoluzione. Quello è inoltre l’anno in cui, all’avanzare dei francesi, Monti fugge da Roma e si trasferisce a Milano, allora capitale della neonata Repubblica Cisalpina (1797-1799), dove ormai vivrà quasi ininterrottamente fino alla fine dei suoi giorni.
Nel sonetto La pianta che in Giudea mise radice (12), scritto appunto nel maggio del 1797, Monti raffronta la croce cristiana e l’albero della libertà che i rivoluzionari francesi erigevano dovunque arrivassero e, vedendo simboleggiate in essi due diverse visioni del mondo, appoggia la ragione illuminista che ha abbattuto il cristianesimo. Nel poemetto Il fanatismo (13), dei primi mesi dello stesso 1797, pure intende la Rivoluzione come progetto sociale derivante da una nuova Weltanschauung che si contrappone a quella proclamata dalla Chiesa e, in stretta aderenza con la realtà contemporanea, non perde l’occasione per deprecare l’insurrezione vandeana contro il governo repubblicano di Parigi: esempio di umanità perdente e assurdamente in conflitto — “infelice […] delira” (vv. 146-147) — con il cambiamento storico prodotto dalla Rivoluzione. Con un altro poemetto, La superstizione (14), composto nello stesso periodo del precedente, appunto la superstizione — osserva l’autore — si è insediata nella Roma cristiana, che ha fra l’altro offerto di recente spettacoli come quelli delle processioni degl’Insorgenti con i loro “Viva Maria!”: “per gli occhi di Maria s’udiva / Roma di sacri gemiti feroci / sonar gridando orribilmente evviva” (vv. 113-115). Il poeta invita ora il generale francese Napoleone Bonaparte (1769-1821) a favorire la rinascita della Roma antica e a far tacere la voce ingannevole della Chiesa: “la fonte chiudi dell’error, che prava / gl’intelletti avvelena” (vv. 142-143). Ancora, nel carme Per il Congresso di Udine (15), scritto nell’agosto del 1797 in occasione del negoziato che si sarebbe concluso con la pace di Campoformio, Monti auspica che i francesi diffondano in Italia il principio di uguaglianza fondato sulla Natura e sulla Ragione: “ed alzerà Natura alfine / […] quel dolce grido che nel cor si sente, / tutti abbracciando con amplesso uguale” (vv. 56-58); “Ragion […] / pianterà colla destra onnipossente / l’immobil suo triangolo immortale” (vv. 59-61). Il triangolo immortale del verso 61 è il noto simbolo massonico della divinità e, dunque, nel carme l’invasione francese è proposta come il contrapporsi al Dio cristiano del dio massonico nonché — si è visto — degli altrettanto massonici ideali di Natura e di Ragione. Si noti che al binomio Natura e Ragione il “fratello” massone Giosuè Carducci (1835-1907), ancora sessant’anni più tardi, darà il nome di Satana nel famoso Inno, vedendo nei due concetti, in conformità con la dottrina liberomuratoria, i princìpi ispiratori della lotta demolitrice della Chiesa, capaci, a suo avviso, di rifondare la nuova Europa (16). La cultura dominante, illuminista e massonica, interpreta il mondo in cui si diffonde e così intende cambiarlo, e Monti legge il suo tempo proprio nel segno di questi riferimenti concettuali. Non a caso, del resto, Monti, “il poeta italiano più insigne nei riguardi specificamente massonici” (17), risulta sicuramente iniziato come “fratello” a Milano, nel 1806, nella loggia Eugenia e nel 1807, con il grado di “compagno”, nella loggia Reale Augusta (18); ma è evidente, in base a quanto ho riferito sopra, che alla massoneria egli si era avvicinato, quanto meno a livello ideale, anche parecchi anni prima.
Per tutti questi motivi la sua produzione lo renderà prezioso agli occhi dei vari regimi politici, con i quali s’imbatterà nel corso successivo della sua vita. Durante la Repubblica Italiana (1802-1805) egli diventa professore di eloquenza nell’università governativa di Pavia: una delle sue tragedie migliori, Caio Gracco (19), tutta fremente di spiriti ribellistici e democratici, è del 1800. Poi, durante il Regno Italico (1805-1814), inneggia a Napoleone — Il bardo della selva nera (20), del 1806 — e viene nominato poeta di corte e storiografo ufficiale del Regno. Quindi, al ritorno degli austriaci nel 1815, con altri componimenti celebrativi quali Il mistico omaggio (21), del 1815, il Ritorno di Astrea (22), del 1816, e L’Invito a Pallade (23), del 1818, egli s’ingrazia i nuovi signori. È anche vero, d’altra parte, che con il trascorrere del tempo e la maturazione degli avvenimenti eccezionali del nuovo secolo, i fervori iniziatici e rivoluzionari del poeta si vanno assopendo e che, per quanto non rinneghi il nucleo della propria visione liberale, verso il declinare della vita egli ritorna cattolico. Nella chiesa di San Gregorio, a Milano, si può osservare ancor oggi, proveniente dall’antico cimitero andato distrutto, la lastra tombale che ricoprì le sue ceneri, posta accanto alle lapidi del poeta Carlo Porta (1776-1817) e del pittore Andrea Appiani (1754-1817), anch’essi massoni. A differenza però di quelle degli altri due artisti, la lapide di Monti non reca i simboli dell’iniziazione liberomuratoria, ma significativamente porta inciso solo che il poeta “spirò nelle braccia del Signore”.
Scrivendo nel 1826 la lirica Pel giorno onomastico della mia donna Teresa Pikler (24), Monti prevedeva che sarebbe stato ricordato dai posteri come “il cantor di Bassville” (v. 20), finendo così per riconoscere lui stesso la validità poetica della Cantica e anticipando oltretutto il giudizio di gran parte della critica a lui posteriore, che con Carducci nell’Ottocento — “[…] allora Roma e l’Italia, il papato e l’impero, ebbero il loro poema, la Bassvilliana” (25) — e con Benedetto Croce (1866-1952) ancora in pieno secolo XX (26) avrebbe visto in Monti, in relazione al suo tempo, una delle voci più importanti e rivelatrici dello svolgimento della cultura e della letteratura nazionali.
A me pare che negli anni Novanta del secolo XVIII nessun altro poeta in Italia abbia capito con esattezza quanto Monti, prima cattolico e poi liberale e massone, che le categorie di Rivoluzione e di Contro-Rivoluzione erano le più appropriate per interpretare la crisi profonda del tempo e che, all’interno di esse, la battaglia si giocava anzitutto sul piano della visione del mondo.
Paolo Mariani
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(1) Cfr. Vincenzo Monti, La bellezza dell’universo, in Idem, Opere scelte, vol. II, Poesie, a cura di Guido Bezzola, UTET, Torino 1984, pp. 67-78; delle citazioni dalle opere poetiche è indicato il verso fra parentesi nel testo.
(2) Cfr. Idem, Al Signor di Montgolfier, ibid., pp. 96-102.
(3) Cfr. Idem, In morte di Hugo Bassville, ibid., pp. 138-235.
(4) Idem, Lettera 520, Al cittadino Francesco Salvi. Milano, in data: Bologna, 18 giugno, A. I Repubblicano (1797), in Idem, Epistolario, a cura di Alfonso Bertoldi (1861-1936), vol. II (1797-1805), Le Monnier, Firenze 1928, p. 19.
(5) Cfr. Paul Hazard, Rivoluzione francese e lettere italiane (1789-1815), trad. it., a cura di Pier Antonio Borgheggiani, Bulzoni, Roma 1995, pp. 35-76; cfr. la recensione di Giovanni Cantoni, in Cristianità, anno XXVI, n. 282, ottobre 1998, pp. 23-24.
(6) P. Hazard, op. cit., p. 65.
(7) Cfr. Pio VI, Allocuzione sul martirio di Luigi XVI, re di Francia, del 17-6-1793, trad. it., in Cristianità, anno XVII, n. 166, febbraio 1989, pp. 7-11.
(8) Cfr. Bruno Toppan, Vincenzo Monti contre-révolutionnaire, in Revue des études italiennes, Nouvelle série, tomo XXXVIII, n. 1-4, Parigi gennaio-dicembre 1992, pp. 81-93.
(9) Ibid., p. 93.
(10) Cfr. V. Monti, Lettera 428, A Francesco Torti. Bevagna, in data: (Roma), 7 giugno 1794, in Idem, Epistolario, cit., vol. I (1771-1796), Le Monnier, Firenze 1927, p. 404.
(11) Oscar Sanguinetti, Le insorgenze contro-rivoluzionarie in Italia: un profilo storico (1796-1814), in lineaTEMPO. Itinerari di ricerca storica e letteraria, anno IV, vol. 3, Castel Bolognese (Ravenna) dicembre 2000, pp. 13-22 (p. 17).
(12) Cfr. V. Monti, La pianta che in Giudea mise radici, in Idem, Opere scelte, vol. II, cit., p. 326.
(13) Cfr. Idem, Il fanatismo, ibid., pp. 329-336.
(14) Cfr. Idem, La superstizione, ibid., pp. 337-345.
(15) Cfr. Idem, Per il Congresso di Udine, ibid., 355-359.
(16) Giosuè Carducci, Polemiche sataniche, in Idem, Edizione Nazionale delle Opere, vol. XXIV, Confessioni e battaglie, Serie prima, Zanichelli, Bologna 1937, pp. 90-91.
(17) Cfr. Alessandro Luzio (1857-1946), Carlo Alberto e Giuseppe Mazzini. Studi e ricerche di Storia del Risorgimento, Bocca, Torino 1923, p. 475.
(18) Cfr. Rivista massonica, vol. LXIII, VII della nuova serie, n. 10, Firenze dicembre 1972, p. 622.
(19) Cfr. V. Monti, Caio Gracco, in Idem, Opere scelte, vol. II, cit., pp. 464-546.
(20) Cfr. Idem, Il bardo della selva nera, ibid., pp. 561-657.
(21) Cfr. Idem, Il mistico omaggio, in Idem, Componimenti drammatici, Dalla Società tipogr. de’ Classici italiani, Milano 1834, pp. 75-88.
(22) Cfr. Idem, Il ritorno di Astrea, ibid., pp. 89-122.
(23) Cfr. Idem, L’invito a Pallade, ibid., pp. 123-136.
(24) Cfr. Idem, Pel giorno onomastico della mia donna Teresa Pilker, in Idem, Opere scelte, vol. II, cit., pp. 788-791.
(25) G. Carducci, Del rinnovamento letterario in Italia, 1874, in Idem, Edizione Nazionale delle Opere, vol. VII, Discorsi letterari e storici, Zanichelli, Bologna 1935, pp. 389-423 (p. 401).
(26) Cfr. Benedetto Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1923, pp. 21-30.