Francesco Pappalardo, Cristianità n. 310 (2002)
1. Un’epopea dimenticata
Nel 1736, durante la guerra di successione polacca (1733-1738), l’ambasciatore veneziano a Vienna, Marco Foscarini (1696-1763), annovera, fra le ragioni che avevano determinato fino a quel momento la condotta fallimentare degli eserciti del Sacro Romano Impero in Italia, il fatto che in essi non si era ritrovato “verun piede di milizia Italiana” (1), dal momento che quei reparti erano stati sciolti con la motivazione “[…] che la disciplina loro non confacendosi con quella dei Tedeschi, mal si adattasse un tal miscuglio alla composizione d’un giusto esercito” (2). Tuttavia, osserva ancora il dotto ed esperto diplomatico, futuro doge della Repubblica di Venezia, non può essere negato “[…] dagli uomini, per poco memori delle cose passate, essere la nazione Italiana attissima al mestiere dell’armi” (3), tanto “[…] che la Spagna ne aveva fatto gran conto per sino traendo quelle truppe alle guerre esterne” (4). E, come esempio delle belle prove sostenute dalle milizie italiche al servizio delle armi imperiali, ricorda la riconquista di Praga, nel 1632; gli elogi rivolti dal generale Albrecht Wenzel Eusebius di Wallenstein (1583-1634), principe dell’impero e duca di Friedland, ai soldati napoletani inviati dal re spagnolo Filippo IV d’Asburgo (1605-1665) in aiuto dell’imperatore Ferdinando II d’Asburgo (1578-1637) durante la Guerra dei Trent’anni (1618-1648); e la difesa di Barcellona durante la guerra di successione spagnola (1701-1713). Proprio Filippo IV, nel 1648, scrivendo a Iñigo de Velez Guevaray Taxis, conte di Oñate († 1658), appena nominato viceré a Napoli, aveva sottolineato: “[…] l’armi nostre non riportano giamai vittoria, che ‘l ferro Napolitano non mietesse le palme” (5).
In effetti, al servizio della Santa Sede, del Sacro Romano Impero e della Corona spagnola, le case regnanti, i ceti dirigenti, i condottieri e i soldati italiani hanno servito per secoli la Cristianità dovunque fosse minacciata. Dallo spoglio di un lavoro molto generico come quello di Corrado Argegni sui condottieri italiani (6) si può ricavare una sorta di elenco delle famiglie che vantano molti uomini d’arme nei secoli XVI e XVII: i Saluzzo con 96 nomi, i Gonzaga con 94, gli Orsini con 91, i Malatesta con 80 e i Savoia con 79. Ma a questa notevole tradizione militare appartengono famiglie di tutta la penisola: Biandrate, Borromeo, Brancaccio, Broglia, Caracciolo, Carafa, Colonna, Doria, Farnese, Fieschi, Incisa, Martinengo, Montecuccoli, Pallavicino, Piccolomini, Pignatelli, Savelli, Savorgnan, Spinola, Strozzi, Trivulzio, Visconti e tante altre ancora.
Sono parte integrante dell’epopea del popolo italiano non soltanto le gesta di grandi e noti condottieri — fra tutti, Emanuele Filiberto (1528-1580), duca di Savoia, Alessandro Farnese (1545-1592), duca di Parma e Piacenza, Ottavio Piccolomini (1600-1656), feldmaresciallo e principe dell’impero, Raimondo Montecuccoli (1609-1680), conte dell’impero, e il principe Eugenio di Savoia (1663-1736) —, ma anche l’eroismo di migliaia di valorosi e sconosciuti soldati: “Per ogni generale infatti che militò all’estero — scrive lo storico Enrico Stumpo — vi furono almeno dieci colonnelli; per ogni colonnello centinaia di altri ufficiali; per ogni ufficiale, migliaia di semplici soldati, reclutati ovunque” (7). Tuttavia, la loro storia oggi è quasi del tutto ignorata.
“E allora — scriveva Vittorio Buti nel 1940 — si cercano i vecchi libri polverosi e rivestiti di pergamena ingiallita per rintracciare ricordi e aneddoti: sono in generale padri domenicani o gesuiti che hanno raccolti gli uni e gli altri e li riportano con un certo stile soldatesco e soprattutto con […] esattezza di linguaggio” (8). Fra questi memorialisti d’epoca meritano d’esser ricordati almeno il conte vicentino Galeazzo Gualdo Priorato (1606-1678), militare e storiografo, autore di numerosi studi, fra cui Scena d’huomini illustri d’Italia conosciuti da lui singolari per Nascita, per Virtù e per Fortuna, del 1659; il domenicano napoletano Raffaele Maria Filamondo (1649-1706), vescovo di Sessa, autore de Il genio bellicoso di Napoli. Memorie historiche d’alcuni capitani celebri napoletani, c’han militato per la fede, per lo Re, per la patria nel secolo corrente, del 1694; e il conte parmense Giacomo Sanvitale (1668-1753), gesuita e professore di lettere e matematica, che scrive nel 1742 Scelta di azioni egregie operate in guerra da generali, e da soldati Italiani nel secolo ultimamente trascorso decimo settimo di nostra salute. Ma le loro testimonianze giacciono ancora sotto la polvere e l’oblio delle memorie militari italiane continua.
Per quanto riguarda le imprese belliche napoletane, secondo Benedetto Croce (1866-1952), che ne offre un breve saggio nella sua Storia del regno di Napoli, del 1925, esse “[…] sono obliterate o quasi, perché le famiglie o si estinsero o, cangiate d’interessi e sminuite d’importanza, le dimenticarono; e gli storici, colpiti da posteriori insuccessi delle armi napoletane e confondendo due cose diverse, la saldezza politica degli eserciti e l’attitudine militare della nazione, si appagarono di un superficiale giudizio dispregiativo. Giudizio, in verità, poco valido di fronte a quello dei meglio informati contemporanei” (9). Più in generale, secondo lo storico Raimondo Luraghi, l’oblio è dovuto alle modalità dell’unificazione politica italiana: mentre in Germania, “[…] pur dandosi vita ad un esercito nazionale tedesco, rimasero le differenziazioni tra le vecchie forze militari, poste in rilievo non solo da simboli, uniformi e titoli, ma anche dal reclutamento sulla base dei vecchi Stati e dall’inquadramento nei reggimenti tradizionali” (10), l’esercito italiano, “[…] che nacque all’indomani del 1861, fu sostanzialmente la continuazione di quello piemontese. Il personale delle antiche, disciolte organizzazioni militari fu assorbito individualmente nelle file dell’Esercito e della Marina; agli ex ufficiali borbonici non fu nemmeno risparmiata l’umiliazione della retrocessione al grado immediatamente inferiore” (11). Da ciò derivò anche la convinzione che fosse compito della storiografia militare valorizzare il patrimonio storico italiano in chiave nazionalistica, contribuendo ad allontanare molti dallo studio dell’età moderna, dei secoli dal XVI al XVIII, cioè di un periodo caratterizzato dalla prevalenza d’ideali “supernazionali” (12).
Ne nacquero, tuttavia, studi generali, soprattutto le raccolte enciclopediche curate da Argegni e da Aldo Valori (1882-1965) (13), che sono alla base di un primo lavoro d’insieme, compilato dallo storico canadese Gregory Hanlon, The twilight of a military tradition. Italian Aristocrats and European Conflicts, 1560-1800, “Il declino di una tradizione militare. Aristocratici italiani e guerre europee. 1560-1800” (14).
Studioso della storia italiana ed europea, Hanlon nasce a Toronto, in Canada, nel 1947, compie gli studi universitari a Bordeaux, in Francia, e nella stessa Toronto, intraprende la carriera accademica all’università di Berkeley, in California, dov’è Visiting Assistant Professor di storia, insegna quindi all’Università di Laval, nel Québec, come Professeur invité, e poi all’Université di Parigi-IV Sorbona, in qualità di Professeur associé. Attualmente insegna Storia Italiana e Francese alla Dalhousie University di Halifax, in Canada. Collabora a riviste storiche internazionali, quali l’inglese Past & Present. A Journal of Historical Studies, la statunitense Journal of Social History e la francese Annales: Economies, Sociétés, Civilisations. Ha pubblicato, fra l’altro, Early modern Italy (1550-1880). Three seasons in European history, “Italia moderna (1550-1880): tre periodi nella storia europea” (15).
2. La difesa dall’aggressione interna: gli eretici
a. Il fronte delle Fiandre
Nell’Introduzione Hanlon fa presente di non aver elaborato una classica monografia basata su ricerche archivistiche, ma piuttosto “una “pré-enquête”, un sommario dell’argomento” (p. 3), allo scopo di sfatare taluni preconcetti e d’individuare alcune costanti nel comportamento dei comandanti italiani dalla fine delle guerre d’Italia, nel 1559, all’avvento di Napoleone Bonaparte (1769-1821). “Questi ufficiali, non “condottieri” [in italiano nel testo] nel significato puramente mercenario del termine, svolsero una parte di rilievo ai più alti livelli nei sistemi imperiali spagnolo e austriaco. Scoprire tracce della loro attività e della loro influenza non è difficile. Le loro vocazioni svelano qualcosa della natura cosmopolita dell’aristocrazia italiana, e del modo con cui essa s’identificò con la causa cattolica degli Asburgo che il Risorgimento ha trascurato o deprecato” (p. 7).
La trattazione prende l’avvio dalla pace di Câteau-Cambrésis, in Francia, del 1559. Seguita alla vittoria travolgente delle armi ispaniche capitanate da Emanuele Filiberto di Savoia, comandante supremo dell’esercito delle Fiandre, sotto le mura della città francese di San Quintino, nel 1557, essa pone fine a un sessantennio di guerre in Europa, sancisce il predominio spagnolo in Italia e assicura un lungo periodo di relativa pace alla penisola, aprendo ampi scenari internazionali all’aristocrazia militare italiana.
Il Cinquecento vive da un lato l’espansione dell’islam nell’area balcanica e danubiana, dall’altro la lacerazione dell’unità della Chiesa cattolica provocata dalla Riforma protestante, le conseguenti guerre di religione e il lungo conflitto fra la Corona spagnola e il Regno di Francia, che avrà conseguenze devastanti per la Cristianità. La difesa del mondo cattolico è guidata prima da Carlo d’Asburgo (1550-1558) — erede delle case regnanti di Castiglia, d’Aragona, di Borgogna e d’Austria, quindi Sacro Romano Imperatore con il nome di Carlo V —, poi dai due rami della dinastia asburgica: quello capeggiato dal fratello Ferdinando (1503-1564), con i domini austriaci, le corone di Boemia e d’Ungheria, e il titolo imperiale, e quello affidato al figlio Filippo II (1527-1598), comprendente i Paesi Bassi, la Corona di Castiglia con i possedimenti americani e le piazzeforti africane, la Corona d’Aragona con i regni di Napoli, di Sardegna e di Sicilia, e costituente una vera e propria “monarchia imperiale” (16).
I principali esponenti della nobiltà italiana si schierano senza riserve con gli Asburgo e solo pochi — i Fieschi e i Fregoso di Genova, gli Strozzi di Firenze, gli Ornano della Corsica ligure — preferiscono recarsi in Francia, dove comunque offrono la loro spada alla causa cattolica quando il regno sprofonda nelle guerre di religione, dal 1561 al 1594. Gli italiani — reclutati soprattutto da Papa san Pio V (1566-1572), dal duca Cosimo I de’ Medici (1519-1574) e dal duca Carlo Emanuele I di Savoia (1562-1630) — si mettono in mostra nella difesa di Poitiers, nell’assedio di Châtellerault e nella battaglia di Moncontour, nel 1569, dove le loro forze ammontano a circa un quinto dell’armata reale francese.
In quegli anni si apre anche il fronte delle Fiandre, dove l’irrequietezza — dovuta al pesante carico fiscale e al crescente centralismo asburgico — emerge in tutta la sua gravità nell’agosto del 1566 con atti d’iconoclastia sistematica, compiuti da schiere di calvinisti, che costringono Filippo II d’Asburgo a inviare diecimila veterani spagnoli e italiani al comando di Hernando Alvárez de Toledo, duca d’Alba (1508-1582), coadiuvato dal toscano Chiappino Vitelli (1519-1578), marchese di Cetona e cavaliere di Santo Stefano. Le formazioni ribelli sono facilmente sgominate e le città insorte fanno atto di sottomissione, ma da quel momento la questione religiosa verrà utilizzata strumentalmente da quanti criticavano la politica asburgica. La rivolta, egemonizzata dai protestanti, sfocia in una lunghissima guerra, che fra il 1565 e il 1600 richiama dalla penisola italiana ben diciotto tercios — unità militari corrispondenti grosso modo a un reggimento —, i cui componenti militavano in un’armata sovranazionale, al servizio della Corona spagnola, composta di decine di migliaia di uomini provenienti da tutta l’Europa cattolica per partecipare “[…] alle imprese d’una nazione che portava le armi e la croce ai quattro angoli del mondo” (17).
Un’intera generazione di soldati italiani sarà segnata dalle ferite e dai ricordi dei campi di Fiandra, combattendo agli ordini di Alessandro Farnese, governatore generale di Borgogna — denominazione corrispondente agli attuali Paesi Bassi — e capitano generale dal 1578 al 1592, e del finanziere e imprenditore militare genovese Ambrogio Spinola (1569-1630), maestro di campo generale, cioè comandante supremo, degli eserciti dei Paesi Bassi dal 1605. Al loro fianco si distingueranno il mantovano Ferrante Gonzaga (1550-1605), il genovese Pompeo Giustiniani (1569-1616), capo di stato maggiore di Spinola e poi comandante delle forze terrestri della Repubblica di Venezia, il lombardo Lodovico Melzi (1567-1617), luogotenente generale della cavalleria leggera in Fiandra e nel Brabante, il generale di cavalleria napoletano Camillo Caracciolo († 1617), principe di Avellino, il marchese fiorentino Francesco Bourbon del Monte Santa Maria (1559-1622), il milanese Giovanni Barbiano di Belgioioso-Trivulzio (1565 ca.-1626), comandante di tutte le fanterie italiane nelle Fiandre, il napoletano Lelio Brancaccio (1560 ca.-1637), marchese di Montesilvano e luogotenente di Spinola, l’abruzzese Andrea Cantelmo (1598-1645), duca di Popoli e poi viceré in Catalogna.
Dopo la fine della Tregua dei Dodici Anni (1609-1621) cresce l’impegno degli italiani, che forniscono un grande contributo anche alle innovazioni e ai progressi dell’arte militare, lasciando “l’impronta del [loro] genio attraverso la fortificazione campale e permanente, le artiglierie leggere, la cavalleria leggera, la fanteria leggera, il patrimonio teorico e scientifico, le più evolute forme di strategia logoratrice” (18). Nella penisola, infatti, nasce fra i secoli XV e XVI la moderna architettura militare, la trace italienne, e gli esperti italiani fanno scuola in Europa, com’è attestato anche dall’impatto della nomenclatura italiana del genio militare sulle lingue d’oltralpe. “Dei trentadue lavori sulle fortificazioni pubblicati fra il 1554 e il 1600, 26 sono italiani, quattro francesi, due spagnoli, uno tedesco e uno olandese. I re francesi importano quasi tutti i loro tecnici dall’Italia verso la metà del secolo sedicesimo per erigere fortificazioni e migliorare l’artiglieria” (p. 73). In Francia l’urbinate Iacopo Fusti (1510-1562), detto il Castriota, raggiunge la carica d’ingegnere generale delle fortezze, e in Spagna il senese Tiberio Spannocchi (1541-1606) viene nominato alla fine del Cinquecento sovrintendente alle fortificazioni con il titolo d’ingegnere maggiore ed erige le fortificazioni di Cartagena, di Cadice e di Pamplona. Nelle Fiandre si mettono in luce l’urbinate Francesco Paciotto (1531-1591), architetto della cittadella di Anversa, il romano Pompeo Targone (1575-1630) e il fiorentino Rocco Guerrini (1525-1596), costruttore delle fortezze di Spandau e di Kustrin, mentre il marchigiano Pietro Paolo Floriani (1585-1638) si distingue come ingegnere militare al servizio dell’impero.
b. La Guerra dei Trent’anni
La guerra delle Fiandre s’intreccia con le alterne e drammatiche vicende della Guerra dei Trent’anni, che insanguina l’Europa dopo la frattura religiosa prodotta dal protestantesimo. Al servizio dell’imperatore Ferdinando II d’Asburgo, che nel santuario di Loreto aveva fatto voto solenne di estirpare l’eresia dai suoi Stati, accorrono ancora una volta migliaia di militi e di ufficiali italiani. “Di questi ultimi, alcuni pervennero al comando supremo delle truppe imperiali e alla carica altissima di presidente del consiglio aulico di guerra, altri furono alla testa di grandi unità operanti su vari settori bellici, molti condussero reggimenti di proprietà o imperiali, non numerabili furono quelli che fecero parte dello Stato maggiore, o per tecnica competenza diressero la costruzione e l’impiego delle artiglierie, eressero fortezze, o vennero incaricati di espugnare quelle tenute dal nemico” (19).
Dopo la ribellione di Praga, nel 1618, il granduca di Toscana, Cosimo II de’ Medici (1590-1621), invia alcune compagnie di cavalleria, agli ordini, fra gli altri, di Ottavio Piccolomini, che sarebbe divenuto nel 1648 comandante supremo degli eserciti imperiali; e il re di Spagna, Filippo III d’Asburgo (1578-1621), manda in Boemia i tercios valloni e napoletani stanziati nelle Fiandre agli ordini di Ambrogio Spinola, nonché il tercio condotto dal napoletano Carlo Spinelli (1575-1634), che sarà marchese del Sacro Romano Impero e direttore delle armi per la Moravia e per la Slesia. Quest’armata composita nel 1620 sbaraglia i ribelli presso la Montagna Bianca, a Praga, — dove “[…] Carlo Spinelli avea, con le picche abbassate, costretto la cavalleria imperiale che fuggiva a ritornare all’assalto, e così la battaglia erasi vinta” (20) — e ristabilisce quasi ovunque l’autorità imperiale. Dal 1622 il comando generale delle truppe ispaniche in Germania è affidato al napoletano Girolamo Carafa (1564-1633), marchese di Montenero, mentre il fiorentino Pietro de’ Medici (1588-1654) guida un reggimento di archibugieri formato da truppe germaniche e valloni, e il romano Torquato Conti (1591-1636), duca di Guadagnola, nel 1630 comanda trentamila imperiali in Pomerania.
Fra il 1631 e il 1636 sono inviati in Germania, in Catalogna e in Provenza dal Regno di Napoli risorse finanziarie ingenti e soldati per un ammontare complessivo di circa 48.000 fanti e 5.500 cavalieri: “[…] la battaglia di Nordlingen con la quale il Cardinal Infante [Ferdinando d’Asburgo (1609-1641)] sbaragliò il 6 settembre del 1634 gli svedesi entrò a far parte, come la presa di Praga del 1620 e la riconquista dello Stato dei Presidi avvenuta nel 1650, dell’epopea dei soldati e dei signori meridionali” (21), guidati in quell’occasione da Francesco Toraldo († 1647), principe di Massa, e da Gerardo Gambacorta (1586-1636), generale della cavalleria, e affiancati validamente dai tercios lombardi di Guarnerio Guasco (1595-1664) e del conte Giovanni Serbelloni († 1637), nonché dagli uomini di Alessandro del Borro (1600-1656), marchese di Arezzo, e del principe Aldobrando Aldobrandini († 1634), già priore dell’Ordine di Malta, intervenuto nella guerra alla testa di truppe reclutate personalmente.
Con la riorganizzazione dell’esercito imperiale, nel 1631-1632, un quinto degli ufficiali è italiano. “Fu tutta una falange di capi degni di tal nome, cui fecero corona una serie di ufficiali superiori e inferiori, molti dei quali condussero seco d’Italia interi reggimenti e compagnie di fanti, reggimenti e squadroni di cavalleria” (22).
Nella Guerra dei Trent’anni rientrano anche, al servizio della Corona spagnola, i fatti d’armi — che Hanlon non menziona — compiuti nel Brasile Settentrionale da soldati napoletani contro anglicani inglesi e contro calvinisti olandesi nella prima metà del secolo XVII, agli ordini di Carlo Andrea Caracciolo (1584-1646), marchese di Torrecuso, e poi di Giovan Vincenzo Sanfelice (1575-1645), conte di Bagnoli (23); la guerra del Portogallo, nel 1640, cui presero parte circa diecimila spagnoli, 3.500 “tedeschi”, mille lombardi e quattromila napoletani; e la difesa della Catalogna, guidata nel 1643 dal marchese di Torrecuso con cinquemila fanti italiani, un tercio di borgognoni e due di spagnoli.
Anche nella battaglia di Rocroi, combattuta nelle Ardenne francesi il 19 maggio 1643 dall’armata imperiale ispanica contro l’esercito del Regno di Francia, le unità italiane combattono valorosamente in prima linea e cedono soltanto quando la cavalleria spagnola è travolta da quella francese.
“L’aristocrazia militare italiana si mise a disposizione della causa controriformistica della Chiesa militante e collaborò ai suoi trionfi. Questi furono soprattutto difensivi, contribuendo ad arginare le conquiste dei turchi, ad arrestare l’espansione del protestantesimo e a riconquistare la maggior parte dei Paesi Bassi ribelli” (p. 86).
Fa eccezione il Piemonte sabaudo, che partecipa allo sforzo generale con Emanuele Filiberto — il quale invia un contingente di cavalleria contro i turchi in Ungheria nel 1566 e milizie in Francia al fianco della Lega Cattolica durante le guerre di religione — ma patisce poi la politica ambigua di Carlo Emanuele I, che, insieme alla Repubblica di Venezia, appoggia più volte i protestanti durante la Guerra dei Trent’anni, scontrandosi con gli ispanici e con gli altri Stati italiani. “Essi rimasero isolati in una nazione entusiasta per la promozione della causa cattolica.
“In definitiva, la solidità del “sistema” asburgico in Italia fu ampiamente provata. Gli Stati italiani erano sufficientemente interessati alla salvaguardia della Pax hispanica per bilanciare l’influenza destabilizzante di Carlo Emanuele e l’egoismo del Senato veneziano. Non si dovrebbe dimenticare, inoltre, che i nobili italiani avevano generalmente legami di fedeltà fuori degli stretti confini dei loro Stati, e seguivano prìncipi diversi da quelli “naturali”. Il carisma della dinastia degli Asburgo derivava in parte dalla loro missione cattolica al servizio della Contro-Riforma” (pp. 90-91).
3. La difesa dall’aggressione esterna: l’islam
a. La guerra sui mari
L’impegno degli italiani è significativo anche nel Mediterraneo, lago cristiano dal secolo XII alla prima metà del secolo XVI, quando i turchi ottomani, alleati ai corsari barbareschi, guidati dal più illustre di essi, l’ammiraglio turco Khayr al-Din “Barbarossa” (1465 ca.-1546), conquistano la supremazia sui mari, minacciando gravemente la Cristianità. La resistenza è affidata all’attività navale — che raggiunge livelli molto elevati nei secoli XVI e XVII e rimane apprezzabile fino agli anni 1720 — di alcuni ordini militari, l’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, denominato poi di Rodi e infine di Malta, e l’Ordine marittimo dei cavalieri di Santo Stefano, fondato dal duca di Toscana Cosimo I de’ Medici nel 1562 con l’obiettivo specifico di combattere i musulmani sul mare: “Con essi un pezzo della storia crociata sopravvive fino in epoca moderna (fino alla soglia dell’Ottocento)” (24).
In tutti gli episodi salienti della guerra nel Mediterraneo — la conquista cristiana di La Goletta e di Tunisi, nel 1536, l’assedio turco all’isola di Malta, nel 1565, la battaglia di Lepanto, nel 1571, e la guerra di Candia (1645-1669), l’odierna Creta — sono protagonisti soldati e marinai italiani, fra i quali centinaia di aristocratici: “[…] è evidente che la gran parte delle flotte cattoliche nel Mediterraneo, probabilmente più del 70 per cento, erano in realtà italiane, con marinai e soldati di predominante origine italiana” (p. 16). In particolare nelle acque del golfo di Lepanto, in Grecia, la maggior parte delle navi crociate appartengono alla Repubblica di Venezia, mentre il grosso degli equipaggi, la metà dei soldati imbarcati e quasi tutti gli ufficiali — in maggioranza al servizio della Corona spagnola — provengono dagli altri Stati italiani: “Dei 371 vascelli, dei 76.000 uomini, e di tutta la flotta cristiana solo 14 galee e 2 tercios (reggimenti di circa 5.000 uomini) vennero dalla Spagna, e di essi 6.000 erano tedeschi. Gli altri 2 tercios spagnoli erano formati da Siciliani e da “bellicosi fanti calabresi”. Dalla Venezia, dalla Dalmazia, dalla Savoia, da Nizza, dal Piemonte, dalla Liguria, dalla Sardegna, dalla Sicilia, dalla Calabria e da Malta, l’Italia diede suoi figli alla Lega cristiana” (25).
Dopo la grande tregua del 1581 fra ottomani e spagnoli, le coste italiane sono oggetto per circa due secoli delle scorrerie compiute dai pirati barbareschi, che saccheggiano città e villaggi, distruggono chiese e conventi, massacrano e riducono in schiavitù le popolazioni cristiane. Per respingere i pirati — che, solo ad Algeri, nel secolo XVII ammontavano a 7.000-10.000 uomini con decine d’imbarcazioni — sono impegnate quasi quotidianamente le marinerie dei principali Stati italiani, dell’Ordine di Malta e dell’Ordine di Santo Stefano, nel quale militarono anche cattolici inglesi, come sir Robert Dudley (1574-1649), duca di Northumberland, e sir Kenelm Digby (1603-1665). “Fra il 1560 e il 1609, la flotta toscana catturò 76 galeotte, sette galee, due grandi bertoni [bastimenti da carico] e 67 imbarcazioni minori, imprigionando 9620 schiavi e liberando 2076 cristiani” (p. 40). Tuttavia, nel corso del secolo XVII ben sessantamila cristiani languono nelle carceri del Nord Africa, soprattutto ad Algeri.
In quegli anni, mentre l’Europa è dilaniata dalle guerre di religione, la Repubblica di Venezia resta quasi sola a contendere ai turchi ogni isola dell’Egeo e ogni possedimento in Grecia e in Dalmazia combattendo orgogliosamente la guerra di Candia, che culmina con la caduta dell’isola, difesa eroicamente da Francesco Morosini il Peloponnesiaco (1618-1694). Inizialmente soltanto Papa Innocenzo X (1644-1655) e il granduca di Toscana, Ferdinando II de’ Medici (1610-1670), s’impegnano a favore della Serenissima, inviando 3.600 uomini e una decina di galee, alle quali si aggiungono alcune unità navali maltesi e napoletane. In seguito partecipano alla guerra anche i due fratelli di Ranuccio II Farnese (1630-1694), duca di Parma e Piacenza, Alessandro (1635-1689) — che sarà governatore delle Fiandre — e Orazio (1636-1656), mentre i Savoia inviano un reggimento agli ordini del generale ferrarese Francesco Villa Ghiron († 1670). Grazie a questi e ad altri soccorsi, e grazie anche a una certa superiorità della flotta veneziana su quella turca, l’armata di San Marco riuscirà ad alimentare la resistenza per un quarto di secolo, spingendosi con le sue navi fin quasi a Costantinopoli.
Negli anni 1680 Francesco Morosini approfitta di una congiuntura internazionale favorevole e dell’insofferenza dei greci nei riguardi del dominio ottomano per conquistare la Morea con un piccolo esercito e con un uso attento della flotta. All’inizio del secolo XVIII Venezia, attaccata dai turchi, combatte la sua ultima guerra (1714-1718), al termine della quale — grazie alla costituzione di un’ennesima lega con i regni di Spagna e di Portogallo, con l’Ordine di Malta e con il Granducato di Toscana e grazie soprattutto all’intervento austriaco — la configurazione dei domini della Repubblica nell’Adriatico, nello Ionio e nell’Egeo, il cosiddetto Stato da Mar, non subisce danni rilevanti, perdendo la Morea e due piazzeforti cretesi, ma acquisendo territori in Epiro.
b. La difesa dei Balcani
Un secondo fronte contro l’islam è quello terrestre, aperto dall’offensiva dei turchi selgiuchidi, che conquistano Costantinopoli nel 1453, annientano l’esercito ungherese a Mohàcs, in Ungheria, nel 1526, e assediano Vienna nel 1529 (26).
In Ungheria, sia nella breve guerra del 1566, sia durante la Guerra dei Quindici Anni (1590-1606), l’esercito imperiale è integrato da milizie e da tecnici italiani, che contribuiscono alla costruzione di numerose fortificazioni lungo un’ampia frontiera dalle Alpi Dinariche alla Transilvania. I primi a prestare aiuto sono Vincenzo I Gonzaga (1562-1612), il duca di Mantova, che invia nel 1595 tre compagnie di archibugieri, il fiore della nobiltà mantovana, agli ordini di Carlo dei Rossi, marchese di San Secondo, e Ferdinando I de’ Medici (1549-1609), granduca di Toscana, che manda tremila fanti e quattrocento cavalieri al comando di Giovanni de’ Medici (1567-1621) — che diventerà generale di artiglieria al servizio dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo (1552-1612) e, in seguito, governatore generale delle armi veneziane contro i pirati uscocchi —, mentre suo nipote, il diciannovenne Antonio de’ Medici (1576-1621), si arruola nell’esercito imperiale assoldando a sue spese una compagnia di cento gendarmi e cento archibugieri a cavallo. In seguito il granduca invia a Sigismondo Bathory (1573-1616), principe di Transilvania, un centinaio di ufficiali e di tecnici, agli ordini del senese Silvio Piccolomini, destinati a istruire le milizie transilvane e a dirigere la guerra d’assedio e di difesa dei luoghi fortificati.
Anima della resistenza antiturca è Papa Clemente VIII (1592-1605), che nel 1594 recluta circa dodicimila fanti agli ordini prima del nipote Gianfrancesco Aldobrandini (1545-1601), coadiuvato da Paolo Sforza (1535-1597), veterano delle Fiandre e di Lepanto, quindi del romano Camillo Capizzucchi (1531-1597). Ma il vero protagonista per circa un decennio è l’italo-albanese Giorgio Basta (1547-1607), luogotenente generale dell’imperatore e comandante della cavalleria leggera, non soltanto “un combattente e un capo di valore, ma uno studioso attento di cose militari, sopra tutto di problemi tattici” (27).
I Trattati di Westfalia del 1648 sanciscono l’indebolimento definitivo del Sacro Romano Impero. Ne approfittano i turchi ottomani, guidati dal gran visir Köprülü-Zadeh Fadil Ahmed Pascià (1635-1676), che nel 1660 dichiarano guerra all’imperatore Leopoldo I d’Asburgo (1640-1705), il quale affida la condotta delle operazioni al modenese Raimondo Montecuccoli, nominandolo feldmaresciallo generale, cioè suprema autorità militare dell’impero. Montecuccoli vince il 1° agosto 1664, presso il villaggio ungherese di San Gottardo, oggi Györ. La vittoria porta alla tregua di Vasvár, in Ungheria, ma ben presto, sotto l’energica guida del gran visir Kara Mustafà (1634-1683), l’offensiva turca riprende. Nel 1672 la Podolia — parte dell’odierna Ucraina — viene sottratta alla Polonia e nel gennaio del 1683 un immenso esercito si mette in marcia verso il cuore dell’Europa, sotto la guida di Kara Mustafà e del sultano Maometto IV (1642-1693), con l’obiettivo di conquistare Vienna. Nella battaglia decisiva del 12 settembre — giorno ancor oggi, per decisione di Papa beato Innocenzo XI (1676-1689), dedicato al SS. Nome di Maria, in ricordo e in ringraziamento della vittoria — il centro dello schieramento imperiale, costituito dai fanti bavaresi e sassoni, riesce alla fine vincitore, grazie anche alla resistenza sul Kalhenberg dei corazzieri italiani del conte bolognese Enea Silvio Caprara (1631-1701).
La battaglia di Vienna è il punto di partenza per la controffensiva condotta dagli Asburgo contro l’impero ottomano nell’Europa danubiana, che porta, negli anni seguenti, sotto la guida del principe Eugenio di Savoia, alla difesa della Dalmazia veneziana e alla liberazione della Croazia e dell’Ungheria. Sarà il napoletano Michele d’Aste (1647-1686), barone di Acerno, a entrare per primo nella fortezza di Buda, trovandovi la morte alla testa dei suoi granatieri.
4. La smilitarizzazione della società
L’assedio vittorioso di Buda, nel 1686, e la fallita spedizione contro il presidio turco dell’isola greca di Chios, nel 1695, rappresentano le ultime grandi operazioni militari condotte da consistenti formazioni italiane. Negli anni 1710 sono allestiti gli ultimi reggimenti italiani al servizio della Spagna e nel secolo XVIII, a parte il re di Sardegna, Carlo Emanuele III di Savoia (1701-1773), sempre sul piede di guerra, soltanto un sovrano italiano, Francesco III d’Este (1698-1780), duca di Modena, intraprende una campagna militare, inviando circa 1.500 soldati in Ungheria, nel 1739, al servizio dell’impero.
La difesa della Cristianità, sempre meno minacciata dall’esterno e sempre più divisa al suo interno, a causa di politiche fondate sul solo interesse nazionale, passa in secondo piano. La Guerra dei Trent’anni, iniziata come guerra di religione, prosegue come conflitto fra la Casa regnante francese dei Borbone, guidata da Luigi XIV (1638-1715), e gli Asburgo per togliere a costoro l’egemonia sulla Germania — devastata e divisa fra cattolici e protestanti e frazionata politicamente —, che derivava loro dall’autorità imperiale.
Inoltre, la sostituzione della dinastia degli Asburgo con quella dei Borbone sul trono di Madrid, nel 1701, produce in molti italiani una “divaricazione” dei lealismi. Mentre gli aristocratici napoletani e lombardi non vedono incrinato “il sentimento della fedeltà […] al sovrano, al re di Spagna” (28), affiora una componente di lealismo asburgico nei piccoli Stati della penisola, che durante la guerra di successione spagnola si schierano con l’impero contro l’alleanza franco-ispanica. Se molti continuano a ricoprire incarichi di rilievo in Spagna, e fra costoro spiccano esponenti di quelle famiglie che avevano servito la Corona negli ultimi due secoli — i napoletani Caracciolo, Caetano e Cantelmo, i Guasco di Alessandria, i Pio di Milano —, altri passano al servizio dell’impero. All’inizio del secolo XVIII, nel corpo degli ufficiali imperiali, che è “[…] ancora fra i più cosmopoliti in Europa e il più “democratico” nei reparti inferiori dove i non nobili ricoprono la maggior parte degli incarichi” (p. 308), gl’italiani sono numerosi e godono di elevata considerazione, sebbene la loro funzione diminuisca. Fra il 1740 e il 1790 i generali italiani sono non più di 24, metà dei quali provenienti dalla Lombardia, e restano in armi soltanto due reggimenti, sempre più lombardi nella loro composizione, che combattono valorosamente contro i turchi in Ungheria negli anni 1788-1790.
“La società italiana — osserva Hanlon — si smilitarizzò quando l’aristocrazia si ritirò dagli eserciti europei” (p. 273), a causa di numerosi fattori, innanzitutto il diminuito fervore religioso e il declinante pericolo turco, quindi la fine dell’egemonia della Spagna nella penisola, che ebbe dei riflessi anche sui processi di omogeneizzazione e d’integrazione delle aristocrazie italiane, infine il decremento demografico che colpisce la nobiltà nel suo insieme. Infatti, le guerre incessanti che coinvolgono la monarchia ispanica provocano la rovina economica di molte famiglie o la loro estinzione, perché spesso i combattenti, lontani da casa anche per decenni, restavano scapoli o si sposavano tardi. Secondo lo storico Angelantonio Spagnoletti gli elevati costi delle guerre e la crescente crisi economica spinsero le famiglie aristocratiche italiane a cercare un legame più stretto con i propri sovrani e ad assumere connotati decisamente cortigiani: “Schiere sempre più ampie di nobili preferirono porsi sotto la tutela delle strutture monarchiche, che pure ne depotenziavano gli istituti più rappresentativi […]. Dalla corte allo Stato fu la parabola conclusiva delle nobiltà della Italia di antico regime” (29).
Tuttavia, lo storico Claudio Donati ritiene che i dati forniti da Hanlon sulla drastica caduta delle vocazioni militari dei nobili italiani, soprattutto per il decennio 1700-1710, “[…] risentano della scarsa sistematicità delle sue fonti bibliografiche e presentino così un quadro fortemente sottostimato rispetto alla realtà” (30).
Dal 1797 Napoleone cerca di creare un esercito italiano, ma “[…] la tradizione militare era scomparsa” (p. 326) e soltanto con grandi sforzi — soprattutto, nel 1802, con l’introduzione della leva obbligatoria nella Repubblica Italiana, poi Regno d’Italia, costituito nelle regioni settentrionali della penisola — è possibile allestire una grande armata. Fra il 1797 e il 1814 saranno arruolati 165.000 coscritti e 44.000 volontari, più di metà dei quali, circa 125.000, perderanno la vita sui campi di battaglia o per malattia. Molto rilevante è “[…] la tenace avversione delle popolazioni — e di quelle rurali in particolare — alla coscrizione e alla leva obbligatoria, alle quali reagirono con la renitenza e con la diserzione, che divennero fenomeni di massa e alimentarono un brigantaggio endemico e le rabbiose insorgenze antifrancesi” (31). Mentre alcuni volontari restano al servizio della Corona spagnola, come il reggimento di fanteria Napoli, che nel 1808 difende la penisola iberica contro l’aggressione napoleonica, decine, forse centinaia di migliaia di uomini, prendono le armi fra il 1796 e il 1814 contro gli eserciti rivoluzionari e napoleonici, dando vita al fenomeno dell’Insorgenza, con la quale i popoli italiani si schierano ancora una volta in difesa delle ultime vestigia della Cristianità (32).
Francesco Pappalardo
Note:
(1) Luigi Firpo (1915-1989) (a cura di), Relazioni di ambasciatori veneti al Senato. Tratte dalle migliori edizioni disponibili e ordinate cronologicamente, volume IV, Germania (1658-1793), Bottega d’Erasmo, Torino 1968, p. 667.
(2) Ibid., p. 668.
(3) Ibidem.
(4) Ibidem.
(5) Lettera di confidenza scritta dal re Cattolico al viceré di Napoli intorno al buon governo di quel regno, cit. in Angelantonio Spagnoletti, Prìncipi italiani e Spagna nell’età barocca, Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 130, che dedica un capitolo a L’aristocrazia napoletana e la pratica delle armi tra XVI e XVII secolo (pp. 179-228).
(6) Cfr. Corrado Argegni, Condottieri, capitani e tribuni, Istituto Editoriale Italiano Tosi, Milano 1936-1937, voll. 3.
(7) Enrico Stumpo, La crisi del Seicento in Italia, in Massimo Firpo e Nicola Tranfaglia (a cura di), La storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età Contemporanea, vol. quinto, UTET, Torino 1986, pp. 313-337 (p. 320). Per un primo accostamento al tema, cfr. Piero Del Negro, Guerre e armi, in Giuseppe Galasso (a cura di), Vita civile degli italiani. Società, economia, cultura materiale, vol. III, Mentalità, comportamenti e istituzioni tra Rinascimento e decadenza. 1550-1700, Electa, Milano 1988, pp. 58-73; e Antonella Bilotto, P. Del Negro e Cesare Mozzarelli (a cura di), I Farnese. Corti, guerra e nobiltà in antico regime, Bulzoni, Roma 1997. Fra i saggi ivi contenuti, cfr. Gianvittorio Signorotto, Guerre spagnole, ufficiali lombardi (pp. 367-396), Luciano Pezzolo, Nobiltà militare e potere nello stato veneziano fra Cinque e Seicento (pp. 397-419), e Giampiero Brunelli, “Soldati della vecchia scuola di Fiandra”. Nobiltà ed esercizio delle armi nello stato della Chiesa fra Cinque e Seicento (pp. 421-444).
(8) Vittorio Buti, Gli italiani nelle guerre di Spagna e dell’Impero durante il secolo XVII, in Rassegna italiana politica letteraria e artistica, anno XXIII, serie III, vol. LIII, fasc. CCLXX, Roma novembre 1940, pp. 622-633 (p. 622).
(9) Benedetto Croce, Storia del regno di Napoli, Laterza, Roma-Bari 1980, pp. 103-104.
(10) Raimondo Luraghi, Introduzione a P. Del Negro (a cura di), Guida alla storia militare italiana, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997, pp. 1-6 (p. 3).
(11) Ibidem.
(12) Cfr. Mario Albertini (1919-1997), Idea nazionale e ideali di unità supernazionali in Italia dal 1815 al 1918, in Nuove questioni di storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, Marzorati, Milano 1961, vol. II, pp. 671-728, ora, con il titolo Il Risorgimento e l’unità europea, in Idem, Lo Stato nazionale, il Mulino, Bologna 1997, pp. 147-220, soprattutto il capitolo primo, Idea nazionale e idea supernazionale (pp. 149-161).
(13) Cfr. Aldo Valori, Condottieri e generali del Seicento, Istituto Editoriale Italiano Tosi, Milano 1943.
(14) Cfr. Gregory Hanlon, The twilight of a military tradition. Italian Aristocrats and European Conflicts, 1560-1800, Holmes & Meier, New York 1998. Tutti i riferimenti fra parentesi nel testo rimandano a quest’opera.
(15) Cfr. Idem, Early modern Italy (1550-1880). Three seasons in European history, St. Martin’s Press, New York 2000.
(16) G. Galasso, Storia d’Europa, vol. II. Età moderna, Laterza, Roma-Bari, p. 96.
(17) Cfr. Raffaele Puddu, Il soldato gentiluomo. Anatomia di una società guerriera: la Spagna del Cinquecento, il Mulino, Bologna 1982, p. 10; dello stesso autore, cfr. pure I nemici del re. Il racconto della guerra nella Spagna di Filippo II, Carocci, Roma 2000.
(18) Piero Pieri (1893-1979), La scienza militare italiana del Rinascimento, in Idem, Scritti vari, Giappichelli, Torino 1966, pp. 99-119 (p. 119).
(19) Vittorio Mariani e Varo Varanini, Condottieri Italiani in Germania, Garzanti, Milano 1941, p. 153.
(20) Giuseppe Carignani, Le truppe napoletane durante la guerra de’ trent’anni, in Rassegna Nazionale, vol. XL, anno X, Firenze marzo-aprile 1888, pp. 153-179 (p. 159).
(21) A. Spagnoletti, Prìncipi italiani e Spagna nell’età barocca, cit., p. 208.
(22) V. Mariani e V. Varanini, op. cit., p. 190.
(23) Cfr. Vittorio di Pace, Napoletani in Brasile nella guerra di liberazione dall’invasione Olandese (1625-1640), Fiorentino, Napoli 1991.
(24) Ekkehard Eickhoff, Venezia, Vienna e i turchi. Bufera nel sud-est europeo (1645-1700), Rusconi, Milano 1991, p. 172. Cfr. anche Istituzione dei Cavalieri di S. Stefano-Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, L’Ordine di Santo Stefano e il mare. Atti del convegno (Pisa, 11-12 maggio 2001), Edizioni ETS, Pisa 2001, e una visione d’insieme in Flavio Russo (a cura di), Guerra di corsa. Ragguaglio storico sulle principali incursioni turco-barbaresche in Italia e sulla sorte dei deportati tra il XVI e il XIX secolo, Stato Maggiore dell’Esercito, Roma 1997, 2 voll.
(25) Niccolò Rodolico (1873-1969), Storia degli italiani. Dall’Italia del Mille all’Italia del Piave, Sansoni, Firenze 1964, p. 319.
(26) In generale, cfr. Oscar Halecki (1891-1973), The defense of Europe in the Renaissance period, in Sesto Prete (a cura di), Didascaliae. Studies in honor of Anselm M[aria]. Albareda [O.S.B. (1892-1966)], Prefect of the Vatican Library, presented by a group of american scholars, Rosenthal, New York 1961, pp. 123-146.
(27) Carlo Morandi (1904-1950), Italiani in Ungheria e in Transilvania, 1941, in Idem, Scritti storici, a cura di Armando Saitta (1919-1991), vol. I, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, Roma 1980, pp. 532-537 (p. 535); dello stesso autore cfr. anche Della coscienza militare italiana durante la dominazione spagnola, 1931, ibid., pp. 280-285.
(28) B. Croce, Storia del regno di Napoli, cit., p. 94.
(29) A. Spagnoletti, Stato, aristocrazie e Ordine di Malta nell’Italia moderna, École Française de Rome-Università degli Studi di Bari, Roma 1988, pp. 197 e 199.
(30) Claudio Donati, Il “militare” nella storia dell’Italia moderna dal Rinascimento all’età napoleonica, in Idem (a cura di), Eserciti e carriere militari nell’Italia moderna, Unicopli, Milano 1998, pp. 7-39 (p. 23).
(31) Franco Della Peruta, Esercito e società nell’Italia napoleonica. Dalla Cisalpina al Regno d’Italia, FrancoAngeli, Milano 1988, p. 7.
(32) Sull’Insorgenza, cfr. Francesco Pappalardo-Oscar Sanguinetti, Insorgenti e sanfedisti: dalla parte del popolo, Tekna, Potenza 2000, e più ampiamente O. Sanguinetti (a cura di), Insorgenze antigiacobine in Italia (1796-1799). Saggi per un bicentenario, Istituto per la Storia delle Insorgenze, Milano 2001.