Francesco Pappalardo, Cristianità n. 341-342 (2007)
1. Le “leggi memoriali”
Il 10 maggio 2006 la Repubblica Francese ha celebrato la “Giornata nazionale della memoria della tratta negriera, della schiavitù e della loro abolizione”. La data scelta non è casuale. Il 10 maggio 2001, infatti, il parlamento francese ha approvato una legge — la n. 434, chiamata legge Taubira, dal nome di Christiane Taubira-Delannon, deputata del Partito Radicale di Sinistra eletta nella Guyana —, che definisce come crimini contro l’umanità la tratta negriera e la schiavitù. Da quel momento è reato non solo affermare il contrario, ma anche omettere di menzionare il principio nei libri di storia.
Nonostante le buone intenzioni la legge in questione ha fatto discutere gli storici, molti dei quali hanno denunciato i rischi per la libertà di ricerca rappresentati dalle cosiddette “leggi memoriali” — come la n. 615 del 13 luglio 1990, sul razzismo e sull’antisemitismo, e la n. 70 del 29 gennaio 2001, sul genocidio armeno —, tramite le quali il parlamento “istituisce” una verità storica, come ha ricordato lo storico Pierre Nora, accademico di Francia e direttore per l’editore Gallimard della monumentale opera sui “luoghi della memoria”: “Siamo sottoposti alla dittatura, alla tirannide della memoria che domina il mondo contemporaneo, tanto da provocare, in Francia, l’approvazione continua di norme che ormai costituiscono un gigantesco e opprimente apparato legislativo. Il mio mestiere è imbrigliato dalle leggi sulla memoria. Eppure non spetta al giudice o al legislatore scrivere la storia” (1).
Ha rischiato di farne le spese Olivier Pétré-Grenouilleau, professore di Storia all’Università della Bretagna Sud, con sede a Lorient, all’Institute Universitaire de France di Parigi e, dal 2007, all’Institut d’Études Politiques, pure di Parigi, autore di Les traites négrières. Essai d’histoire globale (2). Il saggio, molto apprezzato in Francia — e premiato sia dal Senato con il Prix du Livre d’Histoire, sia dall’Académie Française —, nel settembre del 2005 è stato denunciato come revisionista, sulla base della legge Taubira, dal Collectif des Antillais, Guyanais et Réunionnais, il cosiddetto Collectifdom, un gruppo di pressione formato da discendenti di schiavi africani e nato nel 2003 per difendere i diritti dei francesi originari d’Oltremare. L’associazione ha rimproverato allo storico, in particolare, le dichiarazioni rese durante un’intervista al settimanale Journal du dimanche (3), nella quale ha sostenuto innanzitutto che la tratta non può essere considerata un genocidio né tanto meno essere assimilata alla Shoah perché non aveva l’obiettivo di sterminare un popolo, quindi che, accanto a quella atlantica praticata dagli europei, sono esistite, e l’hanno preceduta, la tratta musulmana e quella interafricana. L’attacco contro Pétré-Grenouilleau ha suscitato preoccupazioni fra gli storici, anche sulla scia dell’approvazione di un’altra “legge memoriale”, la n. 158 del 23 febbraio 2005 sulla riconoscenza della nazione, “reconnaissance de la Nation”, nei confronti dei francesi d’Algeria.
L’adozione del provvedimento — il cui art. 4, poi modificato dal Consiglio di Stato nel febbraio del 2006, attribuiva ai programmi scolastici il compito di sottolineare il ruolo positivo della presenza coloniale francese, soprattutto nell’Africa del Nord — ha riacceso il dibattito sui rischi di una storia stabilita per legge (4). Il 12 dicembre 2005 diciannove storici, fra cui Marc Ferro, Pierre Milza, Pierre Nora, Mona Ozouf, René Rémond (1918-2007) e Pierre Vidal-Naquet, hanno pubblicato un appello, Liberté pour l’histoire, “Libertà per la storia”, sottoscritto poi da altri seicento studiosi, in cui si chiedeva l’abrogazione di tutte le leggi “della memoria”: “Lo storico non ha come ruolo di esaltare o di condannare, egli offre spiegazioni. La storia non è schiava dell’attualità. Lo storico non applica al passato degli schemi ideologici contemporanei e non introduce negli avvenimenti passati la sensibilità di oggi. La storia non è la memoria. […] La storia tiene conto della memoria, non si riduce ad essa. La storia non è un oggetto giuridico” (5). L’appello ha suscitato altre polemiche, ma ha indotto il Collectifdom a ritirare la denuncia contro Pétré-Grenouilleau.
Preoccupazioni analoghe sono sorte in Italia dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri di un disegno di legge “sull’istigazione e apologia di crimini contro l’umanità” — in verità non ancora presentato in Parlamento —, che ha indotto ventinove storici a sottoscrivere, il 21 gennaio 2007, un appello Contro il negazionismo, per la libertà della ricerca storica (6), cui hanno aderito circa duecento studiosi.
2. La prima opera di sintesi
Nel frattempo Les traites négrières — l’unica opera di sintesi sulle tratte — è arrivato anche nelle librerie italiane, con il titolo La tratta degli schiavi, traduzione impropria dell’originale e in contrasto con le considerazioni di natura filologica dell’autore (7). Questi ritiene che la formula traite négrière, “tratta negriera”, sia più appropriata della classica espressione inglese slave trade, “commercio degli schiavi”: “Essa presenta il vantaggio di mettere l’accento insieme su negro (termine che, fino al XVIII secolo, in genere non aveva alcun connotato peggiorativo) e sui diversi “negrieri” all’origine del processo schiavistico, che comincia in Africa con la cattura dei futuri “schiavi” (cioè nel momento in cui questi esseri umani sono privati della libertà)” (p. 19).
Pétré-Grenouilleau, bretone d’adozione, si è dedicato per anni a un esame minuzioso degli archivi pubblici e, soprattutto, privati della città di Nantes, appunto in Bretagna, il porto da cui partiva il maggior numero di navi negriere francesi, e ha pubblicato numerosi studi su aspetti particolari del fenomeno. Ha cercato quindi di scrivere un Saggio di storia globale, come recita il sottotitolo dell’opera, per andare oltre lo stadio della monografia e dell’analisi tematica e proporre una prima storia comparativa delle tratte negriere. Infatti, sull’argomento “[…] i miti e le leggende persistono e certi aspetti essenziali restano avvolti in una fitta nebbia” (p. 7), cosicché il divario fra la vulgata e la conoscenza erudita è ancora grande, nonostante un trentennio di studi internazionali piuttosto approfonditi. Ciò è dovuto al collegamento abituale fra il commercio dei neri e il colonialismo — improprio perché “la tratta attraverso l’Atlantico terminò qualche decennio prima dell’effettivo processo di colonizzazione dell’Africa nera” (p. 8, nota 4) —, ai dibattiti ideologici sulla condizione dei neri negli Stati Uniti d’America e alla spinta propagandistica del movimento terzomondista, al cui interno peraltro figurano paesi arabi un tempo “negrieri”. “L’analisi degli eventi commemorativi […] permette di valutare la forza dei luoghi comuni, lo scarto fra conoscenza scientifica, opinione pubblica, discorso politico e discorso mediatico, ed evidenzia lo spessore del campo di forze che ancora frenano un approccio obiettivo alla problematica” (p. 10, nota 6).
3. Le tratte negriere
Uno dei pregi maggiori del saggio è l’estensione dei confini cronologici e geografici del fenomeno studiato, le cui tracce risalgono alla prima espansione dell’islam, nel secolo VII — anche se “[…] il problema delle origini più lontane della tratta, in Africa nera, resta misterioso” (p. 17) —, e di cui è messa in evidenza la pluralità delle mete: non solo le Americhe ma anche il Medio Oriente e l’interno dell’Africa. L’obbiettivo dello storico francese è “[…] comprendere senza giudicare” (p. 10); la sua, dunque, non è una ricerca delle responsabilità, ma di quei meccanismi che, a un certo momento e in certe condizioni, hanno prodotto alcuni effetti. Va detto, peraltro, che l’ampliamento delle responsabilità del traffico anche ai commercianti africani e arabi non è mai proposto come un’attenuazione delle colpe degli europei.
Pétré-Grenouilleau illustra preliminarmente “il meccanismo negriero” (p. 15), innescatosi quando certi comportamenti propri dell’Africa nera, del mondo musulmano e dell’Occidente si sono incrociati e hanno favorito l’inizio delle tratte. La sua affermazione era subordinata a cinque requisiti, oltre a quello che lo schiavo fosse nero e africano: l’esistenza di una rete stabile di approvvigionamento di prigionieri; l’incapacità degli schiavi di mantenersi o di accrescersi per eccedenza naturale; la netta separazione, con distanze di migliaia di chilometri, fra luoghi di “produzione” e luoghi di utilizzazione dei prigionieri; il ruolo essenziale della compravendita degli schiavi, di cui “[…] soltanto il 2% circa fu direttamente razziato dai negrieri occidentali […]; il 98% dei prigionieri era dunque acquistato da venditori africani” (pp. 21-22); il consenso delle entità politiche dei luoghi di origine, di transito o di destinazione. Questi ultimi due elementi distinguono la tratta negriera da altre pratiche schiavistiche precedenti, caratterizzate dall’assenza di un commercio vero e proprio.
Un insieme di fattori, a un certo momento e in determinate condizioni, danno luogo al fenomeno come la conosciamo noi. “Storicamente, l’espansione musulmana coincide con il momento in cui si produsse questo scatto. È un dato di fatto” (p. 26), così com’è un fatto che le tratte in direzione del mondo musulmano e il razzismo verso i neri si sono sviluppati contestualmente. La schiavitù dei neri “[…] creò negli abitanti dell’impero l’abitudine di vedere degli uomini di colore asserviti, con la progressiva assimilazione fra la pelle nera e la figura dello schiavo. Questa assimilazione e la necessità di negare la dignità degli uomini che si intendeva schiavizzare costituirono la seconda causa — e senza dubbio la più importante — della comparsa di un pregiudizio razziale nei confronti dei neri. […] Il razzismo dei confronti dei neri fu quindi una delle conseguenze della tratta, non una delle sue motivazioni” (pp. 29-30).
3.1 La tratta atlantica
La tratta atlantica, di gran lunga la più conosciuta e gestita in buona parte da occidentali, nasce alla fine del secolo XV, ma per circa due secoli non rappresenta un fenomeno rilevante e non conosce specializzazione del naviglio e delle reti commerciali; prenderà slancio con lo sviluppo del sistema della piantagione, a partire dalla seconda metà del secolo XVII, anche se “[…] il mondo della piantagione non fa necessariamente rima, almeno all’inizio, con la schiavitù e con la tratta dei neri” (p. 45). Pétré-Grenouilleau nota in proposito che né l’africanizzazione della schiavitù né il suo radicamento nelle Americhe erano inevitabili: “[…] in storia nulla è veramente determinato in anticipo” (p. 49) e le scienze storiche devono prendere in considerazione “[…] la molteplicità delle vie che si offrivano ai nostri predecessori. Il problema, allora, non consiste nel rendere razionali a posteriori i loro comportamenti, bensì nel domandarsi perché tale opzione abbia alla fine prevalso su un’altra” (pp. 49-50). Il sistema delle piantagioni non era il solo capace di garantire la valorizzazione delle Americhe: la regina Isabella di Castiglia (1451-1504) avrebbe preferito l’istituzione di comunità agricole nelle quali potessero vivere in relativa armonia coloni e indiani convertiti, ma la svolta del secolo XVII è dovuta in buona parte a scelte politiche, conseguenti alla rivalità fra le potenze marittime europee e ai conflitti mercantilisti, dovuti a loro volta alla protezione accordata dagli Stati ai commerci coloniali nazionali, anche se non va dimenticato il ruolo delle interconnessioni in seno all’universo atlantico e delle comunità miste. La complessità del problema è resa da Pétré-Grenouilleau con un’osservazione dello storico britannico David Turley (8), secondo il quale “[…] non può esserci dubbi che l’organizzazione della tratta dipendesse da una serie di complesse interazioni fra gli europei, gli africani (musulmani e non musulmani), gli arabi, gli asiatici e i creoli nati dalle più svariate mescolanze etniche e razziali. A partire dall’inizio dell’epoca moderna, la maggior parte di coloro che erano impegnati nel traffico schiavistico, per quanto fossero omogenei etnicamente, erano tuttavia creoli culturalmente, nel senso che, per lavorare, diventavano esperti di relazioni transculturali” (p. 53).
Anche la scelta della manodopera è la conseguenza non di un piano meticoloso o di un destino razziale, ma di scelte pragmatiche. Quando le popolazioni amerindie — che comunque, secondo le leggi iberiche, non potevano essere ridotte in schiavitù — si estinguono, come nei Caraibi, o si rivelano inadatte alle prestazioni richieste, come in Brasile, e dopo che la manodopera europea ha fornito risposte inadeguate ai nuovi bisogni suscitati dalla rivoluzione saccarifera e dallo slancio dell’economia di piantagione, si ricorre agli schiavi africani: “La dimensione del mercato africano permetteva […] un approvvigionamento di schiavi neri più regolare e flessibile di quello degli indiani e la portata delle operazioni rendeva anche più efficace l’instaurazione di un vasto sistema di credito che consentiva ai piantatori di rifornirsi di schiavi” (p. 57). Inoltre, “i coloni consideravano che il tempo di ammortamento del costo di uno schiavo era breve […], che egli rappresentava un capitale sempre disponibile, poteva essere all’origine di profitti non monetari e innalzava il prestigio del suo proprietario. A differenza dei bianchi ingaggiati, i lavoratori neri erano asserviti a vita e le donne trasmettevano la condizione servile alla prole” (p. 66).
3.2 La tratta interafricana e quella orientale
La tratta dei neri è non solo conseguenza dell’irruzione degli europei sugli oceani ma anche estensione del vecchio traffico trans-sahariano. Il “modo di produzione” dei prigionieri, infatti, sarà sempre gestito in prevalenza da africani: gli schiavi provengono da razzie operate in guerra e, secondariamente, dall’applicazione di regole del diritto consuetudinario, perché certe infrazioni erano punite con la riduzione in schiavitù e con la deportazione; inoltre, l’islamizzazione di alcune popolazioni permetteva alle stesse di legittimare la riduzione in schiavitù di quelle limitrofe, considerate infedeli. Sono i poteri radicati sul posto a procurare gli schiavi e, attraverso le élite mercantili locali, a regolamentare e a organizzare le operazioni di vendita: “Senza l’esistenza di un’offerta di prigionieri cospicua ed “elastica”, queste tratte non si sarebbero potute sviluppare” (p. 74). La tratta, collocandosi all’intersezione di fenomeni guerrieri e mercantili, volti rispettivamente alla cattura dei prigionieri, e al loro commercio, “[…] sta proprio al cuore dell’organizzazione funzionale delle società dell’Africa nera” (p. 81), anche se fino agli anni 1930 era ancora diffusa fra le comunità afroamericane l’idea che i loro antenati venivano catturati direttamente dagli europei.
Nel mondo islamico, invece, il commercio dei neri non era monopolio di un gruppo di mercanti, ma vi partecipavano anche i predatori di schiavi, quanti si specializzavano nel loro trasporto e numerosi privati, che acquistavano e vendevano direttamente i prigionieri per finanziare il loro viaggio alla Mecca: “Questa moltitudine di attori rivela la perfetta integrazione della tratta e della schiavitù in seno all’economia, alla società e alla cultura dell’impero ottomano di allora. Tutto era differente in Europa, dove gli armatori negrieri, che non erano certo una folla, si occupavano soltanto della conduzione dei prigionieri in lontane colonie tropicali” (p. 111).
Anche per quanto riguarda le analisi quantitative, lo storico francese invita a non minimizzare la consistenza delle tratte che alimentavano di schiavi il mondo musulmano. Mentre sulle rotte atlantiche sono deportate circa undici milioni di persone fra il 1450 e il 1869, per quattro quinti dopo il 1700, nei circuiti orientali gli uomini ridotti in schiavitù fra il secolo VII e gli anni 1920 sono circa diciassette milioni. Quanto al circuito interafricano, uno storico statunitense, Patrick Manning, ritiene che esso abbia rappresentato almeno la metà del totale degli schiavi portati fuori dal continente: si può stimare, infatti, che 9,3 milioni di schiavi siano stati trattenuti nell’Africa nera prima del 1850 e che il totale delle tratte interne abbia coinvolto circa 14 milioni di persone.
Queste stime, rielaborate e affinate instancabilmente da un quarto di secolo, risentono ancora di un margine di errore superiore a quello delle statistiche sul circuito atlantico per il fatto che una buona parte degli schiavi catturati rimaneva in Africa e solo il sovrappiù veniva esportato. “Sul piano della conoscenza effettiva, la storia delle tratte interne rappresenta un gigantesco buco nero” (p. 187), sia per la mancanza di dati sia per la scelta degli studiosi di concentrarsi su altri circuiti. “Ebbene, la maggior parte degli studi recenti, di qualsiasi scuola, ci dice che gli africani non furono solamente vittime della tratta, ma anche artefici, e che tante domande sono destinate a rimanere senza adeguata risposta a meno di non rivisitare la storia africana” (p. 187).
Poco si sa sul trasporto degli schiavi nelle tratte orientali e interne, le cui vie coincidevano in parte con quelle di altri traffici propri del continente africano, e che richiedeva un’infrastruttura molto articolata nonché costi umani elevati a causa delle condizioni climatiche, delle tempeste di sabbia e dell’inaridimento dei pozzi, degli attacchi dei predoni e delle distanze: “Sulla pista da Kano a Tunisi, a volte cambiando padrone di tappa in tappa, gli schiavi neri potevano fare anche tremila chilometri. All’arrivo, erano spediti verso Levante, oppure nuovamente venduti” (p. 116). La mortalità era molto alta e nel secolo XIX variava da un minimo del 6 a un massimo del 20 per cento, superiore in media alla mortalità della tratta atlantica, che nello stesso periodo di tempo era del 10 per cento circa. Dati attendibili mostrano, fra l’altro, che anche nei secoli precedenti la mortalità degli schiavi nella traversata atlantica è stata minore di quella degli stessi equipaggi delle navi negriere.
Il circuito orientale si sviluppa soprattutto nel corso del secolo XIX in conseguenza sia dell’avanzata dell’Impero russo verso la Crimea e il Caucaso, che rendeva più difficile ai musulmani la cattura di schiavi bianchi, sia del miglioramento dei mezzi di trasporto, sia della crescente desertificazione della fascia sahelo-sudanese, che spingeva i nomadi del Nord a razziare cereali e schiavi presso le tribù dell’interno. Non va trascurato, infine, il ruolo degl’indiani, che finanziavano largamente la tratta, lasciando svolgere la parte materiale agli africani e agli arabi.
Fra i fattori che hanno contribuito ad attenuare considerevolmente la visibilità dei circuiti orientali, Pétré-Grenouilleau annovera il fatto che si siano svolti prevalentemente all’interno di un solo continente, la diluizione delle operazioni e l’inserimento dei prigionieri in carovane adibite al trasporto di altri prodotti, la dispersione degli schiavi su territori molto più vasti di quelli che ospitavano le piantagioni americane, l’assenza d’intellettuali musulmani che ne fossero turbati come i pensatori europei e nordamericani dei secoli XVIII e XIX, e il fatto che la colonizzazione dell’Africa nera sia stata realizzata dagli europei “dopo” la fine della tratta atlantica, favorendo l’assimilazione dei due fenomeni.
4. La tratta nella storia mondiale
Lo storico francese prende in considerazione, infine, gli aspetti sociali, politici e culturali della tratta nella storia dell’Occidente, dell’Africa e del mondo musulmano, pur consapevole di non poter offrire risposte complete: “Riuscire a passare dalle visioni manichee all’idea di un fascio di relazioni complesse che bisogna studiare e comprendere in maniera differente a seconda del luogo e dell’epoca, insomma cercare di passare dai sillogismi alle sinergie, rappresenterebbe già di per sé un vero progresso” (p. 315).
Le sue ricerche negli archivi della Bretagna rivelano che, almeno per la Francia, la redditività del commercio dei neri è stata inferiore a quanto affermato finora su basi congetturali. I profitti, gravati da rischi piuttosto elevati, sono stati spesso ingigantiti e gli studi più recenti mostrano che non si discostano grandemente dai profitti di altre attività commerciali dell’epoca: per la tratta francese tali profitti erano dell’ordine del 6 per cento, per quella britannica del 7-8 per cento. Gli armatori erano attratti più dalla speranza di realizzare una fortuna con un “colpo grosso” che dall’idea di guadagnare, in media, qualcosa in più di un investimento tradizionale. La longevità della tratta, nonostante i suoi inconvenienti, era dovuta piuttosto al suo inserimento in un sistema marittimo e coloniale più ampio, nel quale si trovavano numerose forme di compensazione fra profitti e perdite. “Le testimonianze del tempo mostrano che la tratta era, nella sua preparazione, nella conduzione, nella realizzazione e nello spirito, l’espressione di quello che potrebbe definirsi un “capitalismo avventuroso”. Un capitalismo comunque integrato in un sistema coloniale, la prosperità del quale era più o meno artificialmente sostenuta dalle politiche protezioniste delle nazioni coloniali” (p. 324).
Pétré-Grenouilleau respinge quindi con argomentazioni circostanziate la tesi, non esente da preconcetti ideologici, che il commercio di schiavi sarebbe stato in passato l’origine dello sviluppo industriale europeo e la causa di tutti i problemi del continente africano. Per l’Europa la tratta è stato un fattore fra gli altri, sebbene “più immorale” (p. 355), in un processo di sviluppo dovuto a una moltitudine di fattori, economici, sociali, culturali e politici. Per il continente africano, invece, gli effetti demografici di un flusso di schiavi complessivamente imponente, ma assai diluito nel tempo, non sono stati rilevanti, grazie all’intervento regolatore delle aristocrazie locali che hanno saputo imporre a lungo ai partner commerciali occidentali i propri ritmi di cessione dei prigionieri: “Che l’Africa abbia orribilmente sofferto a causa della tratta è evidente, ma che la sua popolazione sia declinata per questo è […] del tutto improbabile, e inoltre è oggettivamente impossibile dire cosa sarebbe diventata senza la tratta” (p. 389). Il fenomeno ha avuto ricadute contraddittorie sulle logiche di produzione e di scambio dell’Africa nera precoloniale, “[…] la cui cinetica rinviava comunque a condizioni di fondo interne” (p. 412), e la tratta ha influito poco sullo schiavismo africano, già fondamentale per l’ordine sociale, economico e politico di molte aree del continente, e conseguenza di fenomeni propri dell’Africa nera e dei legami che da tempo intratteneva con il mondo musulmano. “Nel 1900 c’erano quindi in Africa occidentale più schiavi di quanti avessero mai avuto le Americhe, in qualsiasi momento della loro storia. In numerose regioni dell’Africa nera stava diventando dominante un “modo di produzione schiavistico”. Questa evoluzione fu bloccata solo dalla colonizzazione europea” (pp. 419-420).
5. L’abolizione della tratta e della schiavitù
I modi di produzione, trasporto, acquisto e vendita dei prigionieri mutano molto poco nel tempo, mentre i ritmi della tratta cambiano in continuazione, così come è variabile la geografia delle regioni africane di esportazione. Si è in presenza, infatti, di un sistema che ha dato nel corso del tempo ottime prove di capacità di adattamento e che perciò sarebbe durato a lungo se non fossero intervenuti forti mutamenti esterni, legati all’affermazione di un movimento abolizionistico internazionale, la cui logica rinvia a dati culturali propri di buona parte del mondo occidentale.
Il processo abolizionista, che persegue la soppressione prima della tratta e poi della schiavitù, è un fenomeno lento e complesso, segnato da regressioni e da brusche accelerazioni, in cui il ruolo preminente svolto dalla Gran Bretagna non deve oscurare altri aspetti e altri attori della vicenda, come emerge dallo studio comparato dei movimenti abolizionisti francese e britannico. “In un mondo in cui cristianità fa praticamente rima con Europa, il fatto che un cristiano non possa ridurre in schiavitù un altro cristiano, in partenza, ha potuto avere in effetti il suo peso nella scelta di ricorrere alla manodopera servile nera. In seguito, poco alla volta, un altro principio cristiano — l’idea secondo la quale tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio — ha potuto aiutare a minare le fondamenta del sistema schiavistico” (pp. 212-213). Pétré-Grenouilleau individua le origini dell’abolizionismo nella tradizione cristiana — nel 1462 Papa Pio II (1458-1464) condanna la schiavitù dei neri con la lettera Rubicensem, del 7-10-1462 (9) —, nei cambiamenti economici e sociali delle società europee e nell’intervento di movimenti a forte componente morale e idealista, legati anche a interessi economici e politici. Frutto di un lungo processo cristallizzatosi anzitutto in Inghilterra a metà del secolo XVIII, la tratta viene soppressa del tutto un secolo dopo nell’Atlantico coloniale, quindi nelle regioni dell’Oceano Indiano, nell’Impero Ottomano e infine nell’Africa, man mano che procedeva la colonizzazione europea. Per abolire il traffico degli schiavi saranno necessari di volta in volta pragmatismo — come nel caso del Regno di Danimarca, che primo al mondo proibisce la tratta nel 1792 a causa della scarsa redditività della stessa —, mobilitazione sociale e fierezza nazionale — per gl’inglesi l’opposizione alla schiavitù divenne simbolo delle libertà del paese —, nonché l’impiego della forza militare, dal momento che la Royal Navy britannica sarebbe stata impiegata nel secolo XIX per contrastare il commercio di schiavi attraverso gli oceani Atlantico e Indiano. In questo senso l’abolizionismo costituisce anche la prima manifestazione dell’attuale ideologia dell’intervento umanitario e della sua propensione all’ingerenza negli affari interni degli Stati.
La fine della tratta e poi quella della schiavitù sono state decretate in Occidente e applicate nel mondo coloniale sotto dominio o influenza occidentale prima di essere imposte all’Africa nera e all’Oriente, dove non esisteva un’opposizione di principio alla schiavitù. Se la tratta ha continuato a esistere nonostante la sua proibizione, ciò è dovuto al permanere sia della domanda, a causa dello scarto temporale rispetto all’abolizione della schiavitù nelle colonie europee, sia di un’offerta sempre elevata.
Francesco Pappalardo
Note:
(1) Cit. in Stefano Montefiori, Pierre Nora: non spetta al giudice scrivere la storia, in Corriere della Sera, Milano 8-5-2006; il riferimento è a P. Nora (a cura di), Les lieux de mémoire, 3 voll., Gallimard, Parigi 1997.
(2) Cfr. Olivier Pétré-Grenouilleau, Les traites négrières. Essai d’histoire globale, Gallimard, Parigi 2004.
(3) Cfr. Idem, Un prix pour “Les traites négrières”, intervista a cura di Christian Sauvage, in Journal du dimanche, Parigi 12-6-2005.
(4) Cfr. Massimo Introvigne, Francia divisa sull’eredità del colonialismo, in il Giornale, Milano 12-12-2005.
(5) Cfr. il testo dell’appello in Libération, Parigi 13-12-2005.
(6) Cfr. il testo dell’appello in la Repubblica, Roma 23-1-2007, nonché l’editoriale Le tesi storiche vanno fissate per legge?, in La Civiltà Cattolica, anno 158, quaderno 3769, Roma 7 luglio 2007, pp. 3-11.
(7) O. Pétré-Grenouilleau, La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale, il Mulino, Bologna 2006, p. 19. Tutti i riferimenti fra parentesi nel testo rimandano a quest’opera.
(8) Il riferimento è a David Turley, Slavery, Blackwell, Oxford 2000, p. 49.
(9) Cfr. del teologo del Benin e segretario regionale della CERAO, la Conferenza Episcopale Regionale dell’Africa Occidentale Francese, don Barthélémy Adoukonou, Storia della razza nera e Chiesa africana, relazione tenuta il 4-10-2003 nel corso della XIII Assemblea Generale del SCEAM, il Simposio delle Conferenze Episcopali dell’Africa e del Madagascar, svoltasi a Dakar, in Senegal, dal 1° al 12 ottobre, trad. it., in Il Regno. Quindicinale di documenti e attualità, anno XLVIII, n. 936, Bologna 1°-12-2003, pp. 693-701.