Maurizio Parenti e Marco Tangheroni, Cristianità n. 203 (1992)
Le ricorrenze di date più o meno memorabili sono diventate spesso, ai nostri giorni, occasione per celebrazioni di vario tipo, pretesti per operazioni di carattere commerciale o di convenienza accademica; pertanto è giustificabile una possibile avversione per tali celebrazioni.
Tuttavia, mentre non si può negare che queste ricorrenze possano anche portare a utili ripensamenti e a effettivi approfondimenti dei vari temi, è pure innegabile che — per dire il meno — certi “giochi” dei numeri abbiano una forte suggestione, in specie per chi, senza pretendere di decifrare i dettagli della Provvidenza storica, a essa crede. Basti ricordare l’impressionante rispondenza fra il 1789, data d’inizio della Rivoluzione francese, e il 1989, data d’inizio della fine della Rivoluzione comunista come mito e, entro certi limiti, anche come potere (1).
Nel caso, poi, del quinto centenario della scoperta dell’America, alla oggettiva importanza dell’argomento si aggiungono motivi d’intervento di fronte a una polemica crescente e artificiosa, priva di seri contenuti storici e che ha invece bersagli ben precisi, il principale dei quali è senz’altro da identificare nella Chiesa cattolica e nella sua opera di evangelizzazione. Ne sono protagonisti ambienti protestanti, movimenti indianisti, terzomondismi marxisteggianti, nostalgici inguaribili del catto-comunismo alla disperata ricerca di nuove cause e di nuovi complessi di colpa.
E poco sembrano valere gli sforzi e i risultati dell’autentica ricerca storica. Come ricorda Franco Cardini, contro questa “tradizione pseudostoriografica […] la voce ferma e autorevole di studiosi seri sembra impotente” (2); il che, aggiungiamo, conferma l’importanza della posta culturale in palio.
Già chiara, peraltro, si è levata la voce del Magistero pontificio. Nel suo secondo pellegrinaggio apostolico in Argentina, Papa Giovanni Paolo II si è espresso sul significato storico della scoperta e della conseguente opera di evangelizzazione: “Negli uomini e nelle donne di questa terra, nei suoi costumi e nel suo stile di vita perfino nella sua architettura, si scoprono i frutti di quell’incontro di due mondi che ebbe luogo quando giunsero i primi spagnoli ed entrarono in contatto con i popoli indigeni che vivevano in questa regione, e in modo particolare con la cultura quechua-aymarà.
“Da questo incontro fruttuoso è nata la vostra cultura, vivificata dalla fede cattolica che, fin dall’inizio, si è radicata molto profondamente in queste terre” (3).
Appare perciò utile un’opera chiarificatrice, che deve cominciare proprio dalla personalità di Cristoforo Colombo, il primo artefice della scoperta. Infatti, anche sulla sua figura si accaniscono nuovi detrattori, che riprendono vecchi tentativi di ridimensionamento, ipotesi prive di fondamento, interpretazioni non rispondenti a quanto la ricerca storica ha ormai acquisito pur nella difficoltà oggettiva delle fonti (4).
Né giovano a una buona comprensione della personalità dell’Ammiraglio certe prospettive insistenti su una sua presunta “modernità”, che lo avrebbe portato a superare e a vincere i pregiudizi medievali (5). Queste prospettive riprendono la posizione largamente dominante nella cultura illuminista, che esaltò il personaggio Cristoforo Colombo e la sua scoperta, “triomphe de la raison”, infamando, al tempo stesso, la Spagna e la civiltà cattolica (6).
Anche la formula adottata da Paolo Emilio Taviani, “una psicologia moderna su base medievale”, secondo cui Cristoforo Colombo si collocherebbe “in mezzo tra due età”, perché medievali sarebbero “l’impostazione teorica […], la visione filosofica e teologica e gli stessi presupposti delle sue concezioni scientifiche”, mentre rinascimentali “il suo ardore investigativo, il vivissimo sentimento della natura, la capacità di affrontare le spiegazioni dei fatti fino ad allora non ancora osservati o spiegati”, paga un tributo non accettabile a una visione convenzionale della curiosità “scientifica” e dell’atteggiamento medievale verso le realtà della natura (7).
In verità, è impossibile comprendere l’uomo Cristoforo Colombo senza intenderne le profonde radici cattoliche e medievali, senza inquadrarlo nel suo tempo e senza porlo al punto cruciale di una generale espansione europea (8): piuttosto che tentare una biografia (9), ci sembra opportuno insistere proprio su questa chiave di lettura e su alcune questioni a essa connesse.
La patria di Cristoforo Colombo
Approfittando dell’assenza di un certificato di nascita e della non rarità, in tutto il Mediterraneo, del cognome nelle diverse varianti linguistiche, la fantasia degli autori si è scatenata nell’attribuire a Cristoforo Colombo i luoghi di nascita più diversi: lo si è voluto francese, corso, catalano, galiziano, portoghese, greco, inglese, tedesco…
Ma l’alternativa più insistente, e nuovamente ripresentata anche in occasione del quinto centenario della scoperta dell’America, è la sua origine ebraica; essa merita di essere brevemente esaminata perché, anche nella versione che lo vorrebbe di famiglia ebraica convertita, un converso, questa tesi lo riporterebbe, in parte, a una tradizione culturale diversa da quella da noi indicata come decisiva per la comprensione della sua figura.
Già formulata, agli inizi del nostro secolo, da Henry Vignaud — in un’opera peraltro tesa alla demolizione della grandezza di Cristoforo Colombo (10) —, è stata ripresa nel 1939 da uno scrittore particolarmente sottile ed elegante, Salvador de Madariaga, all’interno di una concezione mirante a esaltare il ruolo dei conversos nella Spagna del tempo, decisivi nella guida del regno, dell’Inquisizione e dell’economia (11). Dunque, Cristoforo Colombo sarebbe stato un ebreo catalano convertito, appartenente a una famiglia fuggita in Liguria, dopo i moti antiebraici avvenuti in Catalogna alla fine del secolo XIV.
Gli argomenti di Salvador de Madariaga sono di singolare debolezza e soltanto l’accumulo delle ipotesi e l’ingegnosità dello stile possono disorientare e stordire un lettore troppo passivo. Basti dire che i motivi principali sono i seguenti:
— un’interpretazione ebraica del criptogramma con cui Cristoforo Colombo firmava le sue lettere;
— il fatto che la madre si chiamasse Susanna, personaggio dell’Antico Testamento;
— il mestiere di tessitore del padre, Domenico, considerato “mestiere di elezione degli ebrei”.
Ma del criptogramma lo stesso Ammiraglio ci invita a una lettura cristiana e strettamente collegata alla sua convinzione di avere avuto una precisa missione da Dio. Quanto ai nomi, dopo aver osservato che, pur raro, quello di Susanna era presente in tutte le principali casate nobili genovesi, Jacques Heers fa notare che Domenico Colombo dette a tutti i suoi figli nomi “perfettamente e inequivocabilmente cristiani: Cristoforo, Bartolomeo, Giacomo e Giovanni Pellegrino” (12).
Quanto all’argomentazione relativa al mestiere del padre, citiamo ancora Jacques Heers: “L’affermazione lascia alquanto sbalorditi se si pensa alle migliaia e migliaia di telai che a quel tempo tessevano la lana nelle città e nelle campagne d’Italia”; a Genova, poi, non vi è nessuna traccia di una presenza ebraica in questo settore, anzi, a differenza di altre città, come Venezia, la presenza ebraica in generale era, attorno al 1450, praticamente inesistente (13).
Ancor meno serio — per riprendere il severo ma giusto giudizio di Bartolomé e di Lucile Bennassar (14) — è pretendere, come fa Simon Wiesenthal, che Cristoforo Colombo cercasse nelle Indie una patria per stabilirvi gli ebrei iberici minacciati di espulsione (15): basti osservare che il progetto del navigatore genovese era stato formulato compiutamente almeno un decennio prima, mentre il provvedimento dei Re Cattolici fu una decisione quasi improvvisa.
In realtà, oggi non si può seriamente dubitare che Cristoforo Colombo fosse genovese, di famiglia originaria della montagna ligure. Sappiamo che suo padre, di nome Domenico, esercitava il mestiere di tessitore e, legato al clan familiare dei Fregoso, fu guardiano della porta dell’Olivella. Conosciamo anche il nonno, Giovanni, anch’egli tessitore. La ricerca d’archivio ha aggiunto vari documenti alla generale attestazione dei suoi contemporanei che lo indicano come genovese.
E poiché allora i genovesi erano quelli che si muovevano su più ampi spazi marittimi, assicurando i trasporti per mare dal Mar Nero alle Fiandre e all’Inghilterra, si possono ben comprendere le sue esperienze giovanili a Chio, il lungo soggiorno in Portogallo, con le prime esperienze oceaniche e il concepimento del suo progetto, perfino certi aspetti del suo soggiorno in Andalusia, ove la presenza di uomini d’affari genovesi e fiorentini era, come in Portogallo, notevole.
Il progetto. Rifiuti e approvazioni
Come l’esperienza marinara di Cristoforo Colombo si inquadra perfettamente nella storia della sua patria e del suo tempo, così il progetto di raggiungere l’Oriente passando, attraverso l’Oceano, per l’Occidente, si stava imponendo, sia pure in maniera sfocata e imprecisa, in diversi ambienti scientifici ed eruditi dell’epoca: basti ricordare l’influenza di Paolo dal Pozzo Toscanelli.
Il navigatore genovese ha il merito di concepire con maggior precisione il disegno, rafforzando le tesi di alcuni dotti con la personale esperienza di uomo di mare, che aveva osservato indizi significativi e raccolto anche alcune voci degli ambienti marinari; e quindi di perseguire con ostinazione la realizzazione dell’impresa condotta, poi, con le sue straordinarie doti nella guida delle navi e degli uomini (16).
Tuttavia è bene ricordare che il suo progetto si basava su un duplice errore geografico, pur condiviso da sapienti di grande autorità, e verrebbe voglia di esclamare con la liturgia del Sabato Santo: felix culpa! : infatti egli riteneva la Terra molto più piccola e l’Asia molto più estesa verso l’Europa. Così gli poté apparire realizzabile un viaggio che, senza l’inattesa presenza di un altro continente, si sarebbe rivelato, evidentemente, impossibile.
È importante ricordare questo fatto perché ci permette di comprendere il parere negativo sia degli studiosi consultati dal re del Portogallo, Giovanni II, sia di quelli spagnoli, in buona parte dell’università di Salamanca, interpellati dai Re Cattolici. Essi avevano, da un punto di vista matematico e geografico, ragione. E su questo piano avvennero, com’è documentato, le discussioni. Naturalmente non era in questione la sfericità della Terra, dato pienamente acquisito dalla cultura geografica medievale, ma la sua dimensione; e non sarebbe stato necessario ricordarlo se non fosse ancora largamente diffuso questo luogo comune tipico della “leggenda nera” sul Medioevo.
Dunque tali studiosi non erano, come spesso li si immagina, i rappresentanti di una cultura vecchia, superata, “medioevale”, contrapposta a quella nuova e “moderna” di Cristoforo Colombo. Ancor meno essi erano fanatici religiosi nemici della umanistica laicità del genovese, come, per esempio, ce li raffigurava uno sceneggiato televisivo realizzato alcuni anni or sono, senza risparmiarci nessuno dei topoi che era, ahimé, prevedibile attendersi: facce incavate, occhi ardenti, voci stridule. Semmai era proprio Cristoforo Colombo a superare, di fronte agli altri e a sé stesso, le obbiezioni oltre che con argomenti razionali anche con una convinzione progressivamente crescente di una missione affidatagli dalla Provvidenza.
Un’ultima considerazione: perché il progetto di Cristoforo Colombo, che era stato giudicato negativamente da ripetuti autorevoli pareri, trovò quasi improvvisamente accoglienza da parte dei Re Cattolici nei primi mesi del 1492?
Indubbiamente pesarono i sostenitori e i finanziatori che il navigatore genovese era riuscito a procurarsi, ma la spiegazione essenziale è da ricercarsi nell’euforia dei sovrani, della Corte e del popolo spagnoli per l’avvenuto compimento del processo di Reconquista, avviato dalla metà del secolo VIII e terminato il 2 gennaio 1492 con la conquista di Granada: un quinto centenario, questo, che il governo socialista spagnolo non ha avuto il coraggio di celebrare o di commemorare.
La religiosità di Cristoforo Colombo
Certamente in Cristoforo Colombo e in coloro che lo seguirono, come in generale nell’espansione europea della fine del Medioevo, non sono da trascurare le motivazioni di tipo economico e, in particolare, la ricerca dell’oro, senza dimenticare che, a partire dagli anni Quaranta del secolo XV, per i portoghesi acquista crescente importanza anche la cattura di schiavi lungo le coste africane: ma questa motivazione economica è assente dal progetto del navigatore genovese; più in generale, in tale espansione si manifesta “l’incoercibile bisogno, più o meno cosciente, di spazio” (17), non per eccesso di popolazione — le grandi epidemie di peste del secolo precedente avevano abbattuto di circa il 40% la popolazione europea —, ma per la ricerca di orizzonti più ampi, anche in relazione al serrarsi del Mediterraneo Orientale per l’avanzata dei turchi ottomani e al completamento della Reconquista.
Inoltre, per Cristoforo Colombo le motivazioni di ordine religioso avevano un peso notevole, che sarebbe estremamente ingiusto e arbitrario ridurre a giustificazioni strumentali o a residui poco significativi di riti o di pratiche a carattere magico e superstizioso.
E ciò va ribadito contro gli storici moderni poco propensi a prendere in considerazione il richiamo religioso; essi, come ha osservato Jacques Heers, “se ne parlano, vi vedono un elemento troppo trascurabile per evocarlo in maniera attenta, oppure un semplice pretesto. Molti pensano volentieri che il Genovese parlasse di dovere religioso, di servizio di Cristo e di prospettive di evangelizzazione solo per conciliarsi meglio le buone grazie della regina attraverso una manovra interessata” (18).
Già la lettura del Diario di bordo ci offre un’ampia esemplificazione di questi aspetti decisivi per comprendere la personalità dell’Ammiraglio (19): ci limitiamo a qualche esempio, per altro assai eloquente, circa la profonda religiosità di Cristoforo Colombo e la sua convinzione di svolgere una missione accompagnata dal favore divino.
In data 23 settembre 1492 egli istituisce un parallelo fra sé e Mosé: come allora a Mosé, che conduceva gli ebrei fuori dalla schiavitù egiziana, risultò utile il mare grosso in assenza di vento, così lo stesso straordinario fenomeno si è ripetuto a suo vantaggio per tranquillizzare i marinai timorosi circa la possibilità di fare ritorno.
Il problema della conversione degli indigeni è, fin dallo stesso primo contatto del 12 ottobre, al centro dell’attenzione dello scopritore: “Conobbi che era gente che meglio si salverebbe e si convertirebbe alla nostra santa fede con l’amore che con la forza” (20). E in data 27 novembre, rivolgendosi ai sovrani spagnoli, dopo aver esposto la necessità di superare la barriera linguistica, scrive: “E poi si raccoglieranno i benefici e si lavorerà per fare cristiani tutti questi popoli, il che agevolmente si farà perché essi non hanno setta alcuna, né sono idolatri” (21).
Sempre il Diario di bordo ci informa sul comportamento e sui pensieri di Cristoforo Colombo durante la spaventosa tempesta che coglie le due caravelle superstiti a metà febbraio, durante il viaggio di ritorno.
In tali drammatici frangenti egli ha il timore che Dio gli impedisca il ritorno e “attribuì questo alla sua poca fede e alla mancanza di fiducia nella Provvidenza divina. D’altra parte lo confortavano le grazie che Dio gli aveva fatto, dandogli tanto grande vittoria, permettendogli di scoprire quello che aveva scoperto. […] E che, come nel passato aveva posto il suo fine e indirizzato tutta la sua impresa a Dio e lo aveva ascoltato […] doveva credere che gli darebbe compimento di quanto cominciato e lo porterebbe a salvamento” (22).
Da buon capitano medievale Cristoforo Colombo si preoccupa “che si estraesse a sorte un pellegrino che andasse a Santa Maria di Guadalupe e portasse un cero di 5 libbre di cera”, e la sorte designa proprio lui: a questo santuario dell’Estremadura condurrà di persona i primi indiani portati in Spagna a ricevere il battesimo.
Poi viene deciso anche “di mandare un pellegrino a Santa Maria di Loreto, che è nella marca di Ancona, terra del Papa, che è una casa dove Nostra Signora ha fatto e fa molti e grandi miracoli”; “dopo di ciò l’Ammiraglio e tutto l’equipaggio fecero voto di andare, arrivando alla prima terra, tutti in camicia in processione a far preghiera in una chiesa che fosse dedicata a Nostra Signora” (23).
Va inoltre ricordato che l’Ammiraglio tiene sempre presenti, anche nel corso delle sue esplorazioni, il calendario liturgico, le solennità ecclesiastiche e i misteri della Fede (24). Il 6 dicembre 1492, giorno della festività di san Nicola, chiama con quel nome il porto dell’isola Hispaniola — poi Haiti — in cui si trovava, come nel secondo viaggio un promontorio riceve il nome di Cabo Cruz il 3 maggio, giorno del rinvenimento della Croce.
Cristoforo Colombo, il Santo Sepolcro e la Crociata
Un motivo ricorrente nei testi di Cristoforo Colombo è quello della finalizzazione dei risultati della sua impresa alla liberazione del Santo Sepolcro.
Nel Diario di bordo, dopo aver narrato la costruzione del primo insediamento, quello di Navidad — fondato il 25 dicembre del 1492, subito dopo il naufragio della Santa Maria. —, afferma che intende ritornare in un secondo viaggio dalla Castiglia e trovare oro e spezie “in tanta quantità che i re, prima di 3 anni, intraprendessero e preparassero [l’azione] per andare a conquistare la Casa Santa” confermando così l’impegno preso “con fermezza” con i sovrani prima della sua partenza, e cioè “che tutto il guadagno di questa mia impresa si spendesse nella riconquista di Gerusalemme”. In quell’occasione — ricorda — i sovrani “sorrisero e dissero che piaceva loro e che [anche] senza questo avevano quel desiderio” (25).
Nell’atto con cui istituisce il maggiorascato a favore di don Diego, il suo primogenito, Cristoforo Colombo ricorda nuovamente l’intenzione di spendere la rendita delle Indie “per la conquista di Gerusalemme” e impegna il figlio, o il suo erede, “ad andare con il Re Nostro Signore, se andrà a Gerusalemme a conquistarla, o anche solo, con la maggior forza possibile” (26).
Dopo il terzo viaggio, fra il 1501 e il 1502, l’Ammiraglio, temporaneamente caduto in disgrazia presso i sovrani, pone mano al Libro de las Profecias, una raccolta di passi biblici, di Padri della Chiesa e di Seneca “circa materiam recuperande sancte civitatis et montis Dei Syon ac inventionis et conversionis insularum Indie et omnium gentium atque nationum ad reges nostros Hispanos”, come suona il titolo del manoscritto conservato nella Biblioteca Colombina di Siviglia (27).
Del resto, come orgogliosamente affermava, sempre nel 1501, in una lunga lettera ai Re Cattolici, non aveva forse scritto l’abate Gioacchino che “doveva uscire di Spagna chi avrebbe riedificato la casa del monte Sion” (28)?
Nella stessa lettera, pur amareggiato, umiliato, deluso, afferma chiaramente di considerarsi il missionario predestinato a portare a Cristo gli abitanti delle terre da lui scoperte, in “pieno compimento di ciò che disse Isaia” e grazie a “un miracolo evidentissimo che volle fare Nostro Signore in questo affare del viaggio alle Indie” (29).
E se indubbiamente il progetto crociato non fu realizzato, come dimenticare, comunque, che “l’oro del Nuovo Mondo servirà a finanziare eserciti e armadas contro i Turchi” (30)?
Negli anni Ottanta è stato scoperto un libro copiador, cioè un quaderno copialettere, contenente nove lettere di Cristoforo Colombo, sette delle quali inedite (31).
Alcune di esse, tutte indirizzate ai Re Cattolici e ricche di diverse informazioni nuove, confermano ulteriormente le profonde radici medievali e cristiane della personalità del navigatore e l’alta consapevolezza del significato storico dell’impresa compiuta. E ritorna, in una di esse, il tema del ricupero della “Casa Santa” di Gerusalemme.
Cristoforo Colombo, il criptogramma e la devozione alla Santissima Trinità
Geo Pistarino ha avanzato un’ipotesi interpretativa del famoso criptogramma o acronimo che Cristoforo Colombo crea probabilmente in occasione del secondo viaggio, di cui impone l’adozione ai suoi eredi nel testamento del 1498 e che adotta poi sistematicamente come firma, dopo aver pazientemente esaminato tutte le ipotesi, anche le più arbitrarie e strampalate, formulate nei secoli, con trascrizioni in ebraico o, addirittura, in linguaggio esoterico-massonico o pseudo-templare (32).
Sulla base delle indicazioni date dall’Ammiraglio, bisogna ricercare la corretta interpretazione nell’ambito preciso della sua religiosità cattolica. Non a caso, a partire dal 1502, alla base del criptogramma egli pone, in sostituzione del precedente El Almirante, la spiegazione del significato del suo nome: Christo ferens, che porta a Cristo.
Secondo l’ipotesi di lettura prospettata da Geo Pistarino le tre “S” del triangolo superiore andrebbero lette come una ripetuta e circolare invocazione allo Spirito Santo, al Sanctus Spiritus mentre le lettere inferiori rimanderebbero ai nomi Christus, Maria, Yesus, ricordando che nella scrittura spagnola dell’epoca “Y” e “J” si identificavano. La “A” starebbe per Altissimus. La forma generale, poi, richiamerebbe il triangolo trinitario.
Senza esaminare questa ipotesi in tutti i suoi aspetti, compreso il problema dei rapporti fra Cristoforo Colombo ed eredità gioachimite, più o meno dirette, importa riprendere alcune osservazioni dell’autore su due cardini della spiritualità del genovese: la devozione mariana — si pensi ai toponimi da lui dati di Asunción, Concepción, Anunciación — e quella verso la Santissima Trinità.
A questa, secondo quanto affermava in una lettera scritta dalla Niña il 15 febbraio 1493, tutta la Cristianità doveva dare “solenni grazie” con molte orazioni “per la grande esaltazione che avranno dall’accesso di tanti popoli alla nostra santa fede” (33). E “in nome della Santa Trinità” muove, in occasione del secondo viaggio, all’esplorazione di Cuba.
Di più: all’inizio dell’atto del maggiorascato del 1498, Cristoforo Colombo attribuisce alla Santissima Trinità l’idea prima — “ci ha messo in mente” — e poi la precisa concezione — “perfetta comprensione” — della possibilità di andare dalla Spagna alle Indie “passando il Mare Oceano a Ponente” (34). Nello stesso anno, nella lettera scritta dall’isola di Hispaniola ai Re Cattolici con la relazione del terzo viaggio, il richiamo alla Santa Trinità è continuo: Essa ha mosso i sovrani ad appoggiare l’impresa di cui era il messaggero; in Suo nome è partito ogni volta; con il Suo aiuto compirà gli ordini che gli verranno dati (35).
Non santo ma defensor fidei
Con quanto siamo venuti dicendo non intendiamo, certamente, proporre la causa di beatificazione di Cristoforo Colombo. Non mancano, del resto, nella sua vita aspetti sconcertanti, come la lunga convivenza more uxorio con Beatrice de Harana, o, pur comprensibili per gli usi della sua epoca, ma condannabili — e non approvati dalla regina Isabella —, come la riduzione in schiavitù di alcuni indigeni.
Ma intendiamo, questo sì, ricondurne la figura e la personalità alle dimensioni cattoliche e medievali che, a nostro parere e seguendo rispettosamente le fonti, le caratterizzano.
In questo senso ci pare efficace la formula di Paolo Emilio Taviani: “non santo, ma defensor fidei“ (36).
Ci sembra dunque giusto concludere riportando alcuni giudizi che sostanzialmente condividiamo.
Secondo Samuel Eliot Morrison, se è vero che Cristoforo Colombo sembra spegnersi sotto il segno della sconfitta, senza aver trovato il Gran Khan, senza aver convertito moltitudini di pagani, senza aver riconquistato Gerusalemme, senza aver saputo assicurare un futuro ai propri familiari, senza la partecipazione di nessun membro della Corte ai suoi funerali a Valladolid, è anche vero che “la profonda convinzione che era in lui dell’immanenza, dell’onnipotenza e dell’infinita sapienza di Dio alleviò le sue pene ed esaltò i suoi trionfi. Non è quindi la pietà il sentimento che dobbiamo nutrire per l’Ammiraglio del Mare Oceano” (37).
Secondo Jacques Heers, “[…] lo scopritore del Nuovo Mondo si presenta a noi come un uomo di grande fede, profondamente attaccato alle proprie convinzioni, compenetrato di religiosità, accanito nel difendere e nell’esaltare il cristianesimo ovunque, nel promuovere una riconquista o una conquista contro i nemici di Dio, gli infedeli o i pagani. È perfino il solo tratto della sua personalità che non ammette discussioni, che ci appaia chiaramente, mentre altri, sui quali si è tanto e gratuitamente ricamato, ci sfuggono quasi completamente” (38).
E ancora: “Per Colombo ed altri, il viaggio, la peregrinazione, rimaneva, come ai tempi eroici dell’evangelizzazione dell’Europa, la virtù dei campioni di Dio, di coloro che abbandonano tutto per il suo servizio. Nuovi propagatori della fede, nuovi Crociati, questi capitani di mare e cavalieri di Cristo issano sempre il segno della croce sugli alberi delle loro caravelle” (39), e già durante il primo viaggio, come annota nel Diario di bordo, Cristoforo Colombo “in ogni posto dove sbarcava faceva innalzare una croce e ve la lasciava” (40).
Insomma, alla domanda che oggi, con intenti spesso polemici, viene insistentemente ripetuta: “Fu vera gloria?” (41), riteniamo di dover rispondere affermativamente che sì, fu vera gloria.
Marco Tangheroni e Maurizio Parenti
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(1) Cfr. Giovanni Cantoni, URSS, agosto 1991: una tappa sulla strada del postcomunismo, in Cristianità, anno XIX, n. 197-198, settembre-ottobre 1991.
(2) Franco Cardini, Dio salvi la regina Isabella, in il Giornale, 20-1-1992.
(3) Giovanni Paolo II, Omelia a Salta, in Argentina, dell’8-4-1987, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. X, 1, p. 1178.
(4) Esponenti del Movimiento Indianista sono giunti a dire che “al confronto di Colombo Hitler sembra un delinquente alle prime armi” (Felipe Fernandez-Armesto, In defence of Columbus. The trouble with Eden, in The Economist, 21-12-1991, p. 47).
(5) Dalle Capitulaciones de Santa Fé, cioè dagli accordi con i Re Cattolici, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, il 17 aprile 1492, nel quartier generale dell’assedio di Granada, Cristoforo Colombo ha il titolo di Ammiraglio, trasmissibile per via ereditaria.
(6) Cfr. Bartolomé Bennassar e Lucile Bennassar, 1492. Un monde nouveau?, Perrin, Parigi 1991, pp. 50-55.
(7) Paolo Emilio Taviani, I viaggi di Colombo. La grande scoperta, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1984, 2° vol., p. 323.
(8) Cfr. Pierre Chaunu, L’espansione europea dal XIII al XV secolo, trad. it., Mursia, Milano 1979.
(9) A nostro parere la migliore, anche per l’inquadramento generale del periodo, resta quella di Jacques Heers, Cristoforo Colombo, trad. it., Rusconi, Milano 1983; per una lettura più rapida si raccomanda l’agile volumetto di Charles Verlinden, Cristoforo Colombo. Visione e perseveranza, trad. it., Edizioni Paoline, Roma 1985. Per la ricchezza di dati, e anche per le splendide illustrazioni, ricordiamo pure P. E. Taviani, Cristoforo Colombo. La genesi della grande scoperta, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1974, 2 voll.; Idem, I viaggi di Colombo. La grande scoperta, cit. A livello giornalistico, ci sono apparsi sostanzialmente buoni gli articoli pubblicati da Cesco Vian sul quotidiano Avvenire, del 5, 12, 19, 30-10 e 6 e 11-11-1991. La bibliografia su Cristoforo Colombo è sterminata: cfr. Simonetta Conti, Bibliografia colombiana, 1793-1990, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, Genova 1990, che elenca 8.409 titoli.
(10) Cfr. Henry Vignaud, Le vrai Cristophe Colomb et la legende, Picard, Parigi 1921; Idem, Histoire critique de la grande entreprise de Cristophe Colomb, Welter, Parigi 1911, 2 voll.
(11) Cfr. Salvador de Madariaga, Cristoforo Colombo, trad. it., Dall’Oglio, Milano 1985.
(12) J. Heers, op. cit., p. 26; l’autore, ordinario di storia medievale alla Sorbona, è il maggior studioso contemporaneo della storia di Genova nel Quattrocento.
(13) Ibid., pp. 27-28.
(14) Cfr. B. Bennassar e L. Bennassar, op. cit., pp. 184-185.
(15) Cfr. Simon Wiesenthal, Operazione Nuovo Mondo, trad. it., Garzanti, Milano 1991.
(16) Relativamente alle grandi qualità marinare di Cristoforo Colombo, considerato dalla maggior parte degli storici uno dei più grandi navigatori di tutti i tempi, cfr. Samuel Eliot Morison, Cristoforo Colombo ammiraglio del Mare Oceano, trad. it., il Mulino, Bologna 1985; l’autore, un ammiraglio americano, all’inizio degli anni Quaranta condusse una serie di ricognizioni sulla scorta delle rotte colombiane.
(17) P. Chaunu, op. cit., p. 292.
(18) J. Heers, op. cit., p. 641.
(19) Esso ci è giunto soltanto attraverso una riduzione fatta da Bartolomé de Las Casas. La migliore traduzione italiana è Cristoforo Colombo, Diario di bordo. Libro della prima navigazione e scoperta delle Indie, a cura di Gaetano Ferro, Mursia, Milano 1985.
(20) Ibid., p. 46: Bartolomé de Las Casas trascrive testualmente il Diario, donde l’uso della prima persona; quando riassume utilizza la terza persona.
(21) Ibid., p. 108.
(22) Ibid., pp. 206-208.
(23) Ibid., pp. 205-206.
(24) Cfr. Geo Pistarino, Cristoforo Colombo: l’enigma del criptogramma, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Genova 1990, p. 88.
(25) C. Colombo, Diario di bordo. Libro della prima navigazione e scoperta delle Indie, cit., p. 164. Su questa “idea fissa” dell’Ammiraglio, cfr. Juan Gil, Colón y la Casa Santa, in Historiografía y Bibliografía americanistas, XXI (1977), pp. 125-135.
(26) Cristóbal Colón, Textos y documentos completos, a cura di Consuelo Varela, Alianza, Madrid 1982, p. 199.
(27) Ibid., doc. L, p. 261.
(28) Ibid., doc. XLIII, p. 256.
(29) Ibidem.
(30) J. Heers, op. cit., p. 684.
(31) Cfr. C. Colón, Manuscripto del Libro Copiador de Cristóbal Colón, transcripción por Romeu de Armas, Collección Tabulae Americae, Ministerio de Cultura, Madrid 1989, 2 voll.
(32) Cfr. G. Pistarino, Cristoforo Colombo: l’enigma del criptogramma, cit.
(33) C. Colón, Textos y documentos completos, cit., p. 146, doc. V.
(34) Ibid., doc. XX, p. 192.
(35) Cfr. ibid., doc. XXV, pp. 204-223.
(36) P. E. Taviani, I viaggi di Colombo. La grande scoperta, cit., p. 323; e ciò al di là delle riserve già espresse e di quelle relative a frasi che accompagnano la formula, come questa: “Fu fanatico, come oggi si direbbe integralista”.
(37) S. E. Morison, op. cit., p. 682.
(38) J. Heers, op. cit., p. 641.
(39) Ibid., p. 669.
(40) Ibid., p. 672.
(41) Cfr. il dibattito fra sei scrittori Disputa su Cristoforo Colombo. Fu vera gloria?, in Euros, I, 5/6, novembre-dicembre 1991.