Dalmacio Negro Pavón, Cristianità n. 336 (2006)
A Bolzano, dal 12 al 14 ottobre 2005, nella sala conferenze della Cassa di Risparmio di Bolzano, organizzato dall’Institut International d’Études Européennes Antonio Rosmini sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica e con il patrocinio della Rappresentanza a Milano della Commissione Europea e della Città di Bolzano, si è tenuto un convegno internazionale sul tema Chiesa e Stato nell’Europa di Oggi. Il 12 i lavori sono stati aperti dal professor Dalmacio Negro Pavón, cattedratico dell’Universidad de San Pablo CEU di Madrid e accademico della Real Academia de Ciencias Morales y Políticas, con un intervento dal titolo Chiesa, Stato, secolarizzazione: genesi dell’Europa contemporanea. Ne pubblichiamo il testo con l’autorizzazione dell’autore e dell’organismo promotore del convegno, che prevede la raccolta degli atti presso le Edizioni Scientifiche Italiane di Napoli. La traduzione dall’originale in spagnolo, le note e le inserzioni fra parentesi quadre sono redazionali.
1. Da tempo lo Stato europeo manca del contrappunto da sempre costituito dalla Chiesa. In un modo o nell’altro la Chiesa è venuta cedendo posizioni legittime in conformità con la sua natura. Soprattutto le Chiese particolari o nazionali si sono venute piegando, per cause e ragioni diverse, alla ratio status.
Centrando la prospettiva storica nella dimenticata dialettica fondamentale nella storia d’Europa fra lo spirituale e il temporale, non bisogna trascurare che, oltre all’offensiva laicista, che si presenta come un’ideologia pseudoliberale della libertà, si sta realizzando, e forse esaurendo, la tendenza principale della storia europea dal tempo della Riforma. Mussolini [Benito (1883-1945)], un socialista diventato nazionalista, diceva: “[…] nello Stato, la Chiesa non è sovrana e non è nemmeno libera”. Adesso all’inimicizia socialista verso le religioni si aggiunge l’attacco laicista, che vuole sradicare il cristianesimo e la Chiesa. Paradossalmente, infatti, il cristianesimo è chiaramente l’unica religione che libera lo spazio profano, istituendo lo spazio di quanto è laico. Senza il cristianesimo non sarebbe nata la laicità. Lo Stato, la forma moderna artificiale del Politico, è cresciuto in questo spazio e, impadronendosene, dopo averlo adeguatamente monopolizzato, spinto dalla laicità come ideologia, si erige a suo campione e si rivolta contro il cristianesimo e contro la Chiesa.
2. Fino al Rinascimento, la storia d’Europa è solamente una serie di capitoli nella storia della Chiesa e, di conseguenza, della religione cristiana. La religione era il pubblico nel suo significato semantico di populus, il popolare, il comune, la res publica. Da qui la frequente caratterizzazione della civitas christiana, la forma storico-politica medioevale che si accorda idealmente con l’ordine naturale di creazione divina, come una res publica christiana.
Il Rinascimento è l’epoca della comparsa dello Stato, al cui consolidamento ha contribuito in modo decisivo la Riforma protestante. E non sarebbe esagerato affermare, con finalità ermeneutiche, che, a partire dal secolo XVI, la storia d’Europa si può intendere, interpretare e sintetizzare come una serie di capitoli della storia dello Stato, dell’ordine statale. Lo Stato, che concentra e centralizza ogni genere di potere, il Potere, è cresciuto a spese della diminuzione della Chiesa, che difendeva la società naturale, l’ordine naturale. Invertendo lo stato delle cose, il particolarismo statale ha sostituito l’universalismo ecclesiale.
3. Con il decadere delle grandi entità universali medioevali, l’Impero e la Chiesa, complementari dal punto di vista temporale, verso il 1494 cominciò a configurarsi, secondo Ranke [Leopold von (1795-1886)], il sistema degli Stati in sostituzione dell’universitas christiana. La Riforma originò poi una crisi teologica ed ecclesiale, ma non radicalmente religiosa com’è la nostra, anche se la riunificazione delle Chiese sarebbe un passo importante per il superamento della crisi che attraversa l’Europa, immersa in un processo di decivilizzazione. Comunque, storicamente, la divisione religiosa fu una prima causa dell’indebolimento della Chiesa e del rafforzamento dello Stato. La pace di Vestfalia, del 1648, liquidò la Cristianità — Christentum, Christenheit — come categoria storica politico-culturale, come la universitas o res publica christiana, riconoscendo il principio protestante cuius regio eius et religio stabilito nel 1554 con la pace di Augusta. Vestfalia consacrò la sovranità politico-giuridica, una concezione teologica secolarizzata, la superiorità o supremazia divina come essenza dello Stato e formula centrale della politica. Con la sovranità, si consacrò anche, implicitamente, il particolarismo inerente alla statualità come concetto di base dello jus publicum europaeum, impregnato, ciononostante, di cristianesimo.
Bisogna pensare che, nel caso di decomposizione definitiva dello Stato, del che si danno abbastanza sintomi — ormai è soltanto Stato Fiscale, il suo scheletro —, di nuovo rimarrebbe solamente la Chiesa. Il fatto contribuirebbe certamente a superare la crisi religiosa e dell’Europa, se prima la Chiesa fosse capace di superare le sindromi che il teologo [don Olegario] González de Cardenal chiama di “alienazione” per ingenuità e per incantamento e di “eteroidentità”, quando si lascia invadere da una cultura estranea alla fede.
Quindi, a partire da Vestfalia, la storia d’Europa è stata retrospettivamente storia dello Stato in quanto storia della statualità che si arroga il monopolio della politica attraverso la sovranità e, in ultima analisi, a detrimento della religione. La stessa religione si è venuta politicizzando o secolarizzando nella misura in cui prosperava la politica. In questa prospettiva, la secolarizzazione è la sostituzione del primato della religione con quello della politica. La sostituzione della religione con la politicizzazione. La conversione della politica in una religione, la religione della politica.
Con la secolarizzazione, per usare questo termine ambiguo, Rémi Brague dice che non si spiega nulla, dal momento che lo Stato monopolizza l’attività politica, quindi la politica statale è passata in primo piano come grande realtà che avvolge o abbraccia, nel senso di Jaspers [Karl (1883-1969)], come la realtà comune, invertendo la naturale gerarchia degli ordini. Oggi ci troviamo in una situazione nella quale la politica impera a tal punto da respingere in modo deciso la religione e la Chiesa nella sfera del privato. Di più: l’offensiva laicista aspira a liquidare, servendosi dello Stato, tutto quanto resta del vecchio ethos europeo imponendo il proprio, un ethos immanentista, puramente temporale, statale, nichilista o con una logica nichilista.
4. Per capire la situazione bisogna tener conto del fatto che, d’altra parte, lo Stato, poiché omogeneizza, è ormai costitutivamente, intrinsecamente democratico, nazionale. Si è affermato grazie all’appoggiarsi delle monarchie alle classi medie, che in cambio le hanno aiutate a emanciparsi dall’aristocrazia feudale per formare le nazioni. L’idea democratica, coerente con la società delle classi medie, si è impadronita dell’area pubblica e, legata allo Stato, del dominio del pubblico politico sul pubblico o comune religioso. A quest’ultimo alludeva già la celebrata formula, inaugurale dell’epoca della statualità, di Alberico Gentile [1551-1638]: “Silete theologi in munere alieno!”, “Tacete teologi nell’ambito altrui!”. Il silenzio si convertì in concessioni continue, con le quali la Chiesa perse il linguaggio religioso ed ecclesiastico, sostituito da quello politico e statale. Talora cerca di sostituire la propria terminologia, specifica dell’ordine ecclesiastico, con quella del mondo, forse per ragioni pastorali, dimenticando il carattere intellettuale proprio della Chiesa docente, del clero, e l’importanza del culto e della parola, ora rivendicata energicamente dalla Radical Orthodoxy cattolico-anglicana (1). Catherine Pickstock, uno dei suoi membri più significativi, rivendica anche la restaurazione del primato della teologia nella gerarchia dei saperi.
Un esempio scontato della decadenza del modo di pensare ecclesiastico e di come è stato contagiato dal modo di pensare statale: invece della parola strettamente cristiana “carità”, christliche Liebe, si parla correntemente di solidarietà. Donoso Cortés [Juan (1809-1853)], in altri tempi, ha tessuto le lodi di questo vocabolo con argomenti convincenti. Poi però si è riempito di connotazioni positiviste e collettiviste derivanti dal solidarismo dei pensatori laicisti della Terza Repubblica francese: solidarietà als die säkularisierte christliche Caritas, come carità cristiana secolarizzata, notava Eric Voegelin [1901-1985] nel 1938. La carità come virtù è un abito, individuale, personale, che riposa sulla trascendenza; la solidarietà come “virtù” è collettiva: riposa sulla compassione umanitarista per l’Altro immaginario. Pur essendo lodevole, non coincide con la carità.
5. In Europa le nazioni si erano formate nel seno della Chiesa come varietà del comune, del popolare, grazie alla geografia, alla razza, alla lingua, e così via, unificate dalla storia intorno alle rispettive classi medie. Con l’apogeo delle classi medie e la comparsa dello Stato, che le appoggiava appoggiandosi su di esse, la politica cominciò a essere d’interesse corrente nel Rinascimento, interesse che aumentò con l’illuminismo e s’intensificò dopo la Rivoluzione Francese, nella misura in cui aumentava il desiderio di organizzare democraticamente il potere. Nella lotta delle classi per l’ascesa o liberazione sociale, la politica, una questione di opinioni sugl’interessi comuni, sulla res publica, acquisì lentamente e inconsapevolmente in quelle classi, dalle quali si estese alle altre, l’importanza che aveva precedentemente la religione. Il pubblico statale lottò con la Chiesa per la supremazia, e per molti uomini l’interesse per la religione si trasferì alla politica nazionale che, non va dimenticato, era monopolizzata dallo Stato. In questo modo finì per formarsi, nei territori chiusi dalla statualità, una coscienza politica nazionale, che nella Rivoluzione Francese divenne nazionalista. Il grande rovesciamento contemporaneo consistette nel primato del politico, del temporale, sulla religione, sull’eterno. La causa principale è l’esistenza dello Stato e gli ostacoli contro cui urtarono in Europa le classi medie nel tentativo d’istituire autentici regimi repubblicani, talora democratici, seguendo la tendenza naturale del regimen medioevale. Qualcosa di simile accadde in Inghilterra, benché formalmente sia una monarchia, e, più tardi, negli Stati Uniti.
6. Il territorio è quanto dà il suo carattere di totalità allo Stato. Lo Stato è una totalità in quanto ordine chiuso istituito su un territorio, nel quale racchiude anche la Chiesa, la cui universalità si vede così seriamente compromessa. Legati con forza gli uomini dallo Stato a un territorio e a una totalità politica, nella misura in cui s’imponeva, l’interesse per il temporale cominciò a prevalere sull’interesse per l’eternità. Questa è la causa principale della secolarizzazione in genere. Puntellata la monarchia con la religion royale di origine pagana, parallela a quella cattolica, dalla cui mescolanza derivò il diritto divino dei re — un’invenzione di Giacomo V di Scozia e I d’Inghilterra [Stuart (1512-1542)] —, con la secolarizzazione la concezione tradizionale dell’ordine come ordine creato da Dio fu sostituita a poco a poco nella coscienza da quella di un ordine statale attorno al Monarca: simbolicamente, in Francia, “il re Sole”. Il monarca mediava fra il Trono e l’Altare, mentre ora il primato toccava al Trono, come si vede nella figura del Leviatano di Hobbes [Thomas (1588-1679)], che impugna la spada con la mano destra e lo scettro con la sinistra. Insomma, il particolarismo statale s’impose all’universalismo ecclesiastico, che implica apertura e dinamicità nel tempo in contrapposizione all’idea di totalità, che riposa sullo spazio. È significativo il fatto che intorno alla data del 1648 cadesse in disuso il termine di senso universalistico Cristianità, con il quale s’indicava il mondo europeo in senso aperto, teologico, mentre prendeva il suo posto il termine Europa, più neutrale, particolaristico e chiuso, geopolitico, come l’insieme degli Stati.
Il particolarismo statale si configurò e si acuì infine come nazionalismo in conseguenza della politicizzazione, un prodotto dell’azione dello Stato sulla società, che nello stesso tempo depoliticizza internamente facendo perdere a essa il senso naturale, spontaneo, della politica. Come osservò Jouvenel [Bertrand de (1903-1987)], la “depoliticizzazione” è la conseguenza naturale della “statalizzazione”. Ranke pensava ancora che l’Europa era formata da cinque grandi nazioni nel senso puramente storico, descrittivo, non politico: la spagnola, la francese, l’italiana, l’inglese e la germanica. Delle nazioni centrali si diceva nel Medioevo che all’Italia corrispondeva il sacerdotium, alla Germania l’imperium e alla Francia il magisterium. Inghilterra e Spagna erano, e sono, periferiche. Christopher Dawson [1889-1970], Ortega [y Gasset, José (1883-1955)] e molti altri vedevano il carattere unico dell’Europa nel fatto che “è sempre stata una comunità di nazioni”. Ma proprio la hybris politica dell’idea di Nazione politicizzata, il nazionalismo, era per Dawson la causa della crisi europea.
7. Le nazioni storiche esistenti nel seno della Cristianità erano unità aperte; da ciò la riduzione per Ranke a cinque nazioni — a rigore bisognerebbe aggiungere quella slava — che, nella misura in cui si affermarono lo Stato e il nazionalismo, non solo si vennero chiudendo ma, in molti casi, si scissero in altre: Ortega diceva che le nazioni non nascono, ma si fanno. “Datemi uno Stato e costruirò una nazione”, diceva il polacco Pilsudski [Józef (1867-1935)]. Ma con lo stesso procedimento le nazioni storiche possono diventare nazioni politiche. Tuttavia, non esiste un’anima del popolo, un carattere nazionale, ma un repertorio di tratti comuni, di costumi, di tradizioni, di usi, di forme di vita che configurano un ethos, lo “spirito della nazione” di Montesquieu [Charles-Louis de Secondat barone de La Brède e de (1754-1813)]. Secondo Pirenne [Henri (1862-1935)] l’essere fisico dei popoli è completamente subordinato al loro essere morale, al loro ethos, direbbe Ratzinger. In questo senso Elías de Tejada [Francisco (1917-1978)] affermava che i popoli sono tradizione. La tradizione è l’ethos dei popoli nella sua dinamicità. Sotto il particolarismo statale si venne alterando e separando l’ethos comune delle diverse nazioni europee.
Quindi, bisogna precisare che le concrete nazioni storiche le vennero facendo le monarchie a partire da queste cinque nazioni originarie, sei se si conta quella slava. Sotto il loro potere e la loro direzione, il destino dei popoli fu quello di configurarsi come nazioni politiche, politicizzate con il politicizzarsi del loro ethos. Il Monarca, il Principe machiavellico aveva sostituito il Re, come osservò Leo Strauss [1899-1973], e le Monarchie, servendosi dello Stato, moltiplicarono e politicizzarono le nazioni.
Infatti, nella misura in cui si affermò lo Stato Monarchico, la statualità non solo unificò politicamente i popoli sui quali esercitava il proprio potere sostituendo il limes, territorio imprecisato, con le frontiere, ma in certi casi divise anche le nazioni storiche in nazioni politiche diverse, facendo di ciascuna di esse unità chiuse, dopo la Rivoluzione Francese Stati-Nazione. Gli Stati politicizzano le nazioni chiudendo il territorio con il diritto pubblico. Precisamente con il territorio politicamente nazionale-statale nacque la geopolitica, che regge dal punto di vista intellettuale le relazioni fra le nazioni-Stato. Quindi la geopolitica fa riferimento alle relazioni interstatali: è “scienza della strategia statale”, fondata sulla relazione fra la geografia e l’espansione del potere. Secondo Álvaro d’Ors [Pérez-Peix (1915-2004)] la geopolitica è concepibile soltanto presupponendo lo Stato in contrapposizione a quanto chiamava geodieretica o semplice ripartizione della terra.
Dal punto di vista logico, per il nazionalismo statale il principale nemico da abbattere era la Chiesa romana, con il cui universalismo si scontrava, e poi, vinta o sottomessa quest’ultima, il cristianesimo. Novalis [Friedrich von Hardenberg (1772-1801)] attribuiva il nazionalismo alla Riforma. Ma il contrattualismo politico hobbesiano fu già un gran colpo intellettuale a suo favore. Ne seguirono altri più concreti come il gallicanesimo, il regalismo, il giuseppinismo…, forme di erastianismo [Thomas Erastus (o Lüber o Lieber o Liebler) (1524-1588)] nelle nazioni cattoliche, non anticristiane in sé stesse, come non lo erano gli Stati protestanti nei quali la Chiesa era unita quasi per definizione allo Stato. Lo Stato-Nazione nazionalista uscito dalla Rivoluzione Francese con la pretesa di monopolizzare in modo assoluto il comune nazionale, il pubblico, che era stato fino ad allora diviso fra il Trono — ora sostituito dalla Nazione — e la Chiesa, l’Altare, fu dunque il punto di svolta definitivo nella tendenza, che giunge fino ai nostri giorni, a sostituire il predominio popolare, pubblico, della religione, con quello della politica delle oligarchie in ogni Stato particolare e nelle relazioni interstatali.
8. Infine, nel secolo XX, la statualità si configura nella forma di Stato Totale — sarebbe meglio dire, con Jouvenel, Stato Minotauro —, che, nello stesso tempo, chiude ermeticamente il territorio e lo controlla nel modo più minuzioso. Grazie alle maggiori possibilità tecniche dissolve i popoli facendo di essi società di massa, combinando tutta la tendenza moderna alla neutralità, un principio dello Stato, con la peculiare neutralità della tecnica, che avvicina quanto è distante e allontana da quanto è prossimo. Dichiarando sé stesso agnostico, radicalmente laico rispetto a ogni religione, lo Stato prescinde dal minimo di religioso, espelle praticamente il cristianesimo dallo spazio pubblico e aspira a sradicarlo da quello privato per dominare totalmente. È naturale che, secondo la logica statale, in ultima analisi quella della ratio status, un’imitazione utilitaristica della ratio ecclesiae, si releghi l’elemento religioso nella condizione, al massimo, di un ricordo storico nella configurazione della futura Europa. Lo stesso si può dire, per certo, delle nazioni.
Da tempo lo Stato lotta con la Nazione storica originaria. L’ethos che configura le nazioni storiche si è diviso internamente in ethos nazionale tradizionale — lo “spirito della nazione” — e l’ethos se così si può chiamare, romantico, immanentista, nichilista e distruttore delle ideologie, che Raymond Aron [1905-1983] chiamava religioni secolari. Il secolarismo, che ha ricevuto impulso dalle ideologie, ha sostituito la secolarizzazione. E, d’altra parte, l’astratto Stato tecnocratico ha depoliticizzato le nazioni. Ma sta andando ancora più avanti. Siccome lo Stato si radica nella terra attraverso la Nazione, sradicato e diretto dalle sradicate oligarchie postmoderne, imbevute di un ethos nichilista, distrugge le nazioni storiche, lo “spirito della nazione”.
Va sottolineato che le Chiese hanno contribuito a questo stato di cose lasciandosi conquistare dal modo di pensare statale, che ha sostituito il modo di pensare ecclesiastico nella misura in cui aveva la meglio l’ordine politico. Nel corso del secolo XX le Chiese hanno anteposto in modo esagerato la giustizia, causa e fine del potere temporale — per di più, la giustizia detta sociale è la virtù della giustizia politicizzata —, alla fede e alla carità, favorendo che il cristianesimo come religione — non come parte della cultura — si facesse “mondo” più del dovuto, impegnandosi a conseguire che fossero cristiane le “strutture” e “trascurando che lo fossero le persone”. Come diceva Nicolás Gómez Dávila [1913-1994] la religione non è socialmente efficace quando patrocina soluzioni sociopolitiche, ma quando ottiene che influiscano spontaneamente sulla società atteggiamenti puramente religiosi. Così la Chiesa ha perso l’auctoritas, che è il suo specifico. Potrebbe tentare di ricuperarla appoggiando le nazioni, rianimando la loro cultura e il loro ethos di fronte alla sottocultura o acultura, con campagne d’immagine e di propaganda che isolino la tecnocrazia statale. D’altro canto, in parte per necessità, forse solo la Chiesa potrebbe farlo. Dopo tutto “la religione — diceva Julián Marías [Aguilera (1914-2005)] — ha nella cultura il suo alleato naturale, mentre ha nel potere il suo naturale nemico”.
9. Si può riassumere la situazione citando l’opinione del ceco Václav Havel secondo cui gli europei — in realtà, lo statalismo europeo — stanno creando “la prima civiltà atea nella storia dell’umanità”; o l’opera di André Glucksmann, La troisième mort de Dieu (2). L’autore francese si chiede se, di fronte allo stato delle cose, il destino dell’Europa non consista nell’essere il primo continente ateo della storia. Anche in questo caso bisognerebbe chiedersi se l’Europa, dal punto di vista geografico una penisola dell’Asia, potrebbe conservare il rango di continente senza la potenza che a essa dà il cristianesimo.
L’ateismo e, soprattutto, la non credenza sono a tal punto generalizzati che è un errore pensare che l’avversione al cristianesimo distingua oggi la sinistra politica dalla destra. È potuto succedere in un dato momento o in casi concreti. Ma, posto il primato gerarchico concesso all’ordine politico su quello religioso, infine prevarranno sempre le opinioni e gl’interessi politici. A partire dal secolo XIX la politicizzazione ostile al cristianesimo è comune alla destra e alla sinistra, benché si dissimuli o si manifesti in modo equivoco come anticlericalismo, dal momento che la politica primeggia sulla religione. Politica senza Dio, titolo di un’opera recente (3), è oggi la consegna generale. In Francia, l’aborto è stato introdotto quando era capo del governo [Valéry] Giscard d’Estaing. In Italia l’introdusse la democrazia cristiana: adesso Giulio Andreotti va dicendo che una delle cose di cui più si rammarica della sua vita è aver firmato la legge sull’aborto. E si deve alla democrazia cristiana, teoricamente a destra, l’introduzione di un’abbondante legislazione iniqua, senza parlare di quella puramente statalistica. In realtà, la destra ha creato, mediante lo Stato, la società del benessere, che Augusto Del Noce [1910-1989] considerava la prima nella storia radicalmente irreligiosa, e così via. Di contro, proseguendo con l’esemplificazione, come prova sensu contrario, l’importante capo del socialismo francese, il prudoniano [Pierre- Joseph Proudhon (1809-1865)] Jean Jaurès [1859-1914], che aveva appoggiato la campagna ben più che anticlericale per espellere la religione dalla scuola, scriveva al figlio: “Devo confessarlo, la religione è intimamente unita a tutte le manifestazioni dell’intelligenza umana. È la base della nostra civiltà”. Fra i marxisti, Ernst Bloch [1885-1977] scriveva negli anni 1950 e 1960 sulla possibilità di un ateismo cristiano fondato sulla deificazione dell’esperienza e [Leszek] Kolakowski, che rifiuta le prove dell’esistenza di Dio, cerca di dimostrare che non esiste neppure nessuna prova contraria. La decivilizzazione dell’Occidente è giunta a tal punto che cominciano ad abbondare coloro che, come la nota giornalista italiana Oriana Fallaci [1929-2006], proveniente dal mondo del Partito d’Azione, si dichiarano atei cristiani, oppure, come il filosofo spagnolo Gustavo Bueno, ateo cattolico, per reazione alla situazione della civiltà occidentale nelle mani dello statalismo.
Si può parlare di un ateismo comune alla destra e alla sinistra nella linea del “nuovo cristianesimo” di Saint Simon [Claude-Henri de Rouvroy, conte di (1760-1825)] e della “religione dell’umanità” di Comte [Auguste (1798-1857)], e di un indifferentismo che accetta selettivamente la morale cristiana nella destra e nella sinistra, e quello della destra è più pericoloso perché più ingannevole. Si tratta di un atteggiamento relativamente diffuso, vicino all’agnosticismo, di un atteggiamento comodo che elude l’impegno. In pratica, destra e sinistra, la cui esistenza dipende dal fatto che lo Stato è al centro di tutto, si piegano alla ragion di Stato. Le differenze fra l’una e l’altra sono solo di sfumatura, in funzione della ricerca di voti.
10. Sotto l’ispirazione della cultura greco-latina degli umanisti nacque, prima delle dispute religiose, l’idea di una religione civile come religione neutrale dello Stato, concepita generalmente a imitazione delle religioni pagane, benché il suo contenuto morale fosse cristiano. Poi fece la sua comparsa l’idea di una religione naturale. Da qui si passò all’ateismo, anche se l’ateismo politico è un fenomeno contemporaneo. Le religioni pagane non sono propriamente atee e l’ateismo moderno, che trae beneficio dalla liberazione dal terrore dei demoni grazie al cristianesimo, apre la strada alla miscredenza.
Infatti, Glucksmann parla di ateismo con riferimento alla situazione presente. Tuttavia, sulla base della descrizione che ne dà questo autore, sarebbe più esatto parlare di miscredenza. La miscredenza, quella che Del Noce chiamava l’“irreligione naturale”, va oltre l’ateismo dal momento che presenta apertamente la possibilità dell’estinzione della fede trascendente e, pertanto, della Chiesa, con previsioni identiche a quelle di Auguste Comte. Però Glucksmann suggerisce anche che la futura missione storica dell’Europa, se ne ha una, consisterà nel diffondere universalmente l’ateismo. Ma, come avvertiva René Guénon [1886-1951], “una civiltà che non riconosce nessun principio superiore, che in realtà si fonda su una negazione dei princìpi, manca di ogni mezzo per intendersi con le altre”. Pertanto, si tratterebbe di qualcosa di più grave del differenziarsi e del prendere le distanze da altre culture e civiltà, come, per esempio, quella nordamericana. Un’Europa così, l’Europa diretta dallo Stato agnostico e nichilista, rimarrebbe isolata dal mondo e alla mercé delle grandi potenze, dei Grandi Spazi che si vanno abbozzando all’orizzonte.
Il fatto certo è che in Europa, nella cosiddetta opinione pubblica, vi è sufficiente ostilità e un notorio disprezzo pubblico per la religione e le Chiese, che gli Stati fanno propri con maggiore o minore intensità. I consiglieri del capo del governo inglese, che si dichiara credente, lo dissuasero dal concludere i suoi interventi televisivi durante la guerra in Iraq con le parole God Bless You. Nell’Europa attuale non è immaginabile un uomo di governo cristiano che invochi pubblicamente Dio o la religione. Sarebbe politicamente scorrettissimo, rivoluzionario. Comincia a essere normale qualificare come fanatico, integrista o fondamentalista, certamente fascista, qualunque atteggiamento che postuli il riconoscimento pubblico della religione, l’invochi o la tenga pubblicamente in considerazione; e ormai non è straordinario che questo accada sul piano privato. La mentalità “progressista” nichilista, che deriva dai sistemi educativi dipendenti dallo Stato, anzitutto le università, è penetrata nei rapporti privati.
In questo contesto, ormai, di fatto, la Nazione non è sovrana. L’autentico sovrano è l’opinione pubblica. I politici dipendono da essa a tal punto che la parte più difficile del loro lavoro consiste nel manipolarla. Questa opinione pubblica, molto disorientata e ideologizzata, rifiuta la religione, mentre lo Stato, che con la sua legislazione comincia a essere marcatamente nichilista, si sottomette ai gruppi di pressione dell’opinione: d’intellettuali, come quelli denunciati da Marco Tarchi, dei mezzi di comunicazione e di una varietà di gruppi di pressione, femministi, omosessuali, abortisti, sostenitori dell’eutanasia e degli esperimenti genetici, del divorzio à la carte, e così via. Le bioideologie, che hanno sostituito le grandi ideologie meccaniciste del secolo XIX, soprattutto l’ideologia della salute, che ne è come la sintesi, dominano la politica. Nell’opinione pubblica prevalgono le tendenze anticristiane e antiecclesiastiche, che lo Stato fa proprie. Se si vuol far fronte seriamente al processo di decivilizzazione, risulta molto pertinente l’osservazione di Karl Rahner [S.J. (1904-1984)] secondo cui “la teologia oggi dev’essere in un certo senso una teologia politica”.
11. La necessità della reazione intellettuale rende indispensabile una teologia politica che rinnovi il rapporto fra la Chiesa e i poteri pubblici ponendo fine alla mescolanza esistente fra la religione e la politica dovuta alla politicizzazione, che non è altro che la secolarizzazione di cui lo Stato è stato il principale promotore. Da ciò è derivata l’enorme confusione fra i fedeli, che ha svalutato la capacità del cristianesimo di in-formare, di dare forma alla cultura, di orientarla. Il Papato vi sta provando, ma il modo di pensare ecclesiastico non è più comprensibile neppure per una gran parte del clero, imbevuto dal modo di pensare statale. Il clero è, per definizione, una categoria intellettuale e, così come esistono una teologia morale e altre teologie settoriali, una solida teologia politica potrebbe contribuire potentemente a orientarlo in queste questioni. L’atteggiamento del clero è fondamentale per frenare la decivilizzazione dell’Europa alla quale — va detto — tanto ha contribuito in anni passati.
Un’interessante reazione, nel caso di fronte alla privatizzazione della religione, è già stata — com’è noto — la teologia politica fatta rinascere negli anni 1960 nell’Europa Centrale a partire dalla teologia della speranza del teologo protestante Jürgen Moltmann. Aveva come scopo di rivendicare uno spazio pubblico per la fede cristiana. Contribuirono al suo fallimento finale le sue complessate concessioni al marxismo, non necessarie e incongruenti, e le sue derive puramente politiche in altre aree, che hanno dato luogo a quanto è stato chiamato “il giacobinismo della croce”. Questa esperienza non dovrebbe essere causa di scoraggiamento.
La teologia politica, praticamente proscritta a partire dalla condanna, da parte di sant’Agostino [354-430], della teologia politica pagana, veto che sembra essere stato tolto dal Concilio Vaticano II, costituisce una necessità intellettuale delle Chiese. Le Chiese sono solite limitarsi a esporre una dottrina sociale scollegata, più o meno organizzata attorno al concetto più che discutibile di “giustizia sociale”. Nonostante sforzi meritori come quelli di Michael Novak, che certamente non ha avuto molto successo in Europa, questo mito ne alimenta altri come quello della rivoluzione permanente, del cambiamento per il cambiamento, coprendo e legittimando l’espansione e la crescita del potere dello Stato.
12. La teologia politica si dovrebbe incentrare certamente sulla teologia del potere in quanto proveniente da Dio. Da qui deriva tutto il resto. Per esempio la rappresentanza, altro tema fondamentale della politica. La realtà della politicizzazione, che ha sostituito la religione, comincia a suscitare reazioni a favore della teologia politica. Il teologo anglicano John Milbank, membro del gruppo della vivace Radical Orthodoxy di Cambridge, la giustifica a partire dallo “straordinario contrasto” che crede di osservare fra la teologia politica moderna — Grozio [Huig van Groot (1583-1645)], Hobbes, Spinoza [Baruch (1632-1877)], Filmer [sir Robert (1588-1653)] … — e la teoria sociale postmoderna e postniciana [Friedrich Nietzsche (1844-1900)]. Secondo Milbank, la teologia accetta la secolarizzazione e l’autonomia della ragione laica, mentre la teoria sociale scopre con crescente chiarezza che, paradossalmente, la secolarizzazione fa capire che non si potrà mai prescindere dal mitico-religioso. Ossia che l’influente teologia politica storica, frutto della secolarizzazione, è intellettualmente atea, mentre la teoria sociale postniciana suggerisce che la religiosità è inevitabile e, quindi, anche la relazione dialettica fra religione e politica.
Secondo Álvaro d’Ors il nucleo della teologia politica cristiana dovrebbe partire dal principio enunciato nell’enciclica Quas primas, cioè dal fatto che, essendo Gesù Cristo il “Re”, “non vi è nella storia altro potere originario, altra sovranità sugli uomini viatores sulla terra che quella di Cristo”. Dal punto di vista della teologia politica, i cosiddetti sovrani, ricordava d’Ors, sono soltanto delegati. Questo fatto ha conseguenze dirette in relazione alla politica pratica che non comportano l’intromettersi in essa. Ma le intimidite Chiese europee evitano accuratamente di comparire in pubblico, non tanto come istanze di potere — potere sociale — ma come gruppi di pressione, mentre raggruppamenti minori e partitici fanno pressioni contro di esse e contro il cristianesimo — anche adesso, per esempio le minoranze islamiste, quelle di omosessuali, forse la massoneria, e così via — attraverso lo Stato. Ebbene, la teologia politica è antistatale. Per lo meno nel senso che il potere viene esercitato personalmente, che vi è sempre un responsabile concreto, in contrasto con la presunzione e l’ideale della teoria statale secondo cui l’esercizio del potere è meccanico, burocratico, impersonale.
13. Il problema della dialettica fra la Chiesa e lo Stato, della dialettica fra i due poteri, consiste nel fatto che, per la maggioranza degli europei, anzitutto fra l’intelligentzia dominante e i politici, la Chiesa ha perso l’auctoritas. Se un popolo è una tradizione, gravemente spezzate le tradizioni, in primo luogo quelle religiose, le Chiese particolari, custodi della tradizione religiosa, hanno perso la fiducia e la stima del popolo. I politici di destra e di sinistra le rispettano soltanto per i voti, nella misura in cui conservano qualche influenza. La Chiesa deve ricuperare il senso dell’autorità che, nel suo caso, va unita all’idea di servizio.
Sotto la pressione dello Stato, la Chiesa ha cominciato ad abdicare alla sua condizione di potere spirituale nell’Età Moderna. Di questo costituisce un buon esempio la concezione della potestas indirecta sullo Stato, dottrina nella quale si è distinto il cardinal Bellarmino [san Roberto (1542-1621)], abbandonando il mondo laico al suo destino. Tuttavia la Chiesa ha la piena auctoritas per delega di Cristo — “pasci le mie pecorelle” [Gv. 21, 16] — e non può rinunciare a essa senza cessare di essere Chiesa. La potestas indirecta, diceva Carl Schmitt [1888-1985], “è una sortita dall’autentico problema dell’auctoritas e una cattiva sortita”. È una rinuncia all’autorità spirituale.
Se la Chiesa si conforma con l’immaginaria potestas indirecta, può giungere ad accordi e a compromessi con lo Stato, che in questo modo legittima. Se tutto è questione di prudenza, finirà per essere importante solo l’atteggiamento formale dello Stato. La ratio status opera allora per conto proprio, curandosi di non far insorgere o turbare la Chiesa. Suggerisce anche che la Chiesa opera attraverso lo Stato, finendo per essere quest’ultimo più importante per gli uomini della Chiesa stessa. La Chiesa perde l’autorità, perdono rilievo l’uomo buono e l’uomo libero sostituiti dal cittadino, e lo Stato resta senza orientamento. E se i cittadini — come diceva Kant [Immanuel (1724-1804)] — sono cattivi in quanto uomini, lo Stato, nonostante tutta la forza e il diritto che il filosofo attribuì al suo meccanismo, il Rechtsstaat, finirà per funzionare male. Infine, sarà uno Stato Nichilista, come comincia a esserlo quello attuale.
Dalmacio Negro Pavón
Note:
(1) Si tratta di un movimento teologico anglo-americano di cui fanno parte cattolici e anglicani: cfr. John Milbank, Catherine Pickstock e Graham Ward (a cura di), Radical Orthodoxy, Routledge, Londra 1999.
(2) Cfr. André Glucksmann, La troisième mort de Dieu, NiL, Parigi 2000; trad. it., La terza morte di Dio, Fondazione Liberal, Roma 2004.
(3) Cfr. George Weigel, The Cube and the Cathedral. Europe, America, and Politics Without God, Basic Books, New York 2005; trad. it., La Cattedrale e il Cubo. Europa, America e politica senza Dio, a cura di Flavio Felice e con Prefazione di Luca Volontè, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2006.