Marco Respinti, Cristianità n. 358 (2010)
Le elezioni di “medio termine”, celebrate negli Stati Uniti d’America il 2 novembre 2010, sono state una un successo rotondo del Partito Repubblicano in senso stretto, ma in senso profondo una piena vittoria conservatrice. Le elezioni, infatti, sono state vinte soprattutto dal movimento — di popolo e intellettuale — conservatore, non sempre e non solo coincidente con il Partito Repubblicano. Di fatto, molti degli eletti nelle file Repubblicane in quella data non provengono di per sé dall’establishment del partito e spesso nelle liste elettorali hanno affiancato, e in alcuni casi sostituito — peraltro non senza polemiche e contraccolpi —, parte del personale definibile vero nomine Repubblicano.
La forza principale che ha determinato il successo Repubblicano e la vittoria conservatrice alle elezioni è il cosiddetto movimento dei Tea Party (1), nato come fenomeno di protesta contro l’elevata pressione fiscale cui sono sottoposti i cittadini statunitensi e l’enorme spesa pubblica che zavorra la comunità politica nordamericana, di cui sono state giudicate responsabili le politiche statalistiche di entrambi i partiti — cioè anche di certi ambienti e di certi esponenti del Partito Repubblicano —, ma ultimamente aggravate dalla linea smaccatamente liberal perseguita dal presidente federale Barack Hussein Obama, espresso dal Partito Democratico, e dal 111° Congresso federale a maggioranza Democratica (2).
I Tea Party non sono però affatto solo un movimento di liberazione fiscale. Sono la manifestazione storica più recente del movimento conservatore statunitense — che nella sua forma attuale data dalla seconda metà degli anni 1940 (3) —, la quale nel 2009 e nel 2010 ha assunto, con realismo, la forma della protesta antifiscale poiché quella è stata urgente e cogente, ma senza dimenticare le caratteristiche fondamentali della cultura conservatrice statunitense di sempre: per esempio la difesa dei princìpi non negoziabili, la loro articolazione nella sfera pubblica e nell’impegno politico, la costruzione di una società a misura di uomo possibilmente cristiana e d’istituzioni pubbliche temperate e non vessatorie, la difesa del diritto costituzionale come base delle libertà politiche concrete dei cittadini, la libertà religiosa, nonché il concetto stesso di civiltà occidentale (4). Per molti aspetti, il momento della lotta contro l’oppressione fiscale è stato infatti considerato dai Tea Party lo strumento più utile hic et nunc per nutrire e per veicolare anche sulla scena politica e partitica la più ampia e profonda cultura conservatrice di cui la liberazione dalle tasse ingiuste è un aspetto. Insieme all’idea assai concreta di una politica più equa sul piano fiscale, e in generale meno statalista, il 2 novembre 2010 ha vinto dunque le elezioni quel fronte di cittadini nordamericani, ben più vasto degli aderenti a un singolo partito, profondamente convinto del fatto che la res publica serva a garantire le libertà fondamentali della persona umana, consentendo a esse di portare frutto nella costruzione di un mondo migliore. La rivolta fiscale ha quindi costituito la porta d’ingresso principale attraverso cui, nell’organo legislativo degli Stati Uniti d’America, è entrata una visione del mondo più ampia di quel singolo tema, una prospettiva globale che a quel tema dà del resto fondamento e legittimità, insomma una cultura coscientemente conservatrice.
Come spesso — ma non sempre né tantomeno automaticamente — accade da circa un cinquantennio, il Partito Repubblicano è stato giudicato lo strumento pratico più utile al raggiungimento di quel fine (5). Nel suo personale, infatti, figurano elementi in sintonia o simpatetici con la cultura conservatrice, e da qualche decennio anche in qualche maniera riconducibili direttamente al movimento conservatore nelle sue diverse sfaccettature, forme e “scuole”. E quando questi elementi “filoconservatori” sono mancati, si è potuto se non altro fare affidamento su uomini politici almeno sensibili al tema della riduzione delle tasse e della spesa pubblica, dunque utilizzabili appunto strumentalmente. Ma soprattutto nelle elezioni del 2 novembre 2010 è stato possibile per i conservatori entrare in forme, modi e misure per molti aspetti inedite nel Partito Repubblicano attraverso la candidatura diretta di diversi elementi sicuramente espressione del mondo conservatore e direttamente dei Tea Party. Pur mai coincidendo, il movimento conservatore e il Partito Repubblicano mantengono “relazioni importanti” da tempo; ma mai — per numero e trasparenza — come per le elezioni del 2 novembre 2010 i conservatori sono riusciti a “imporsi” al partito. In vasta parte il partito ha “subito” i conservatori, ma nel contempo non ha potuto farne a meno. Solo l’apporto esterno del movimento conservatore ha infatti permesso di cominciare ad affrontare la crisi interna che i Repubblicani attraversano da tempo, la quale ha certamente conosciuto un picco clamoroso — la cui eco e il cui effetto non erano ancora terminati all’ora delle elezioni del 2 novembre 2010 — alle elezioni di “medio termine” del 7 novembre 2006, allorché un Paese ancora conservatore decise di voltare le spalle ai Repubblicani votando in massa per il Partito Democratico a torto o a ragione percepito in quel momento come più affidabile solo perché, con raffinata strategia — e fu una trappola —, aveva schierato candidati apparentemente meno liberal (6).
Le elezioni del 2 novembre 2010 sono state dunque una vittoria conservatrice ottenuta per mezzo di un successo del Partito Repubblicano che si è, talora obtorto collo, lasciato “colonizzare”, quindi un risultato di enorme significato politico e di sicura portata storica. Quel risultato, infatti, testimonia senza ombra di dubbio che la maggior parte dell’elettorato statunitense è costantemente e convintamente conservatore; che la politica è cosa più profonda delle sole tornate di consultazioni elettorali, o quantomeno che le due realtà non coincidono del tutto; che i successi elettorali delle sinistre sono sempre, anche se a volte assai gravi, “incidenti di percorso”; e che, utilizzando le strategie politiche giuste, la parte “più sana” della nazione statunitense può trasformarsi nella maggioranza dei cittadini americani e non solo nella maggioranza degli elettori. Una prima, importantissima forma, cioè, di cosciente contro-rivoluzione statunitense (7).
Mentre il risultato elettorale del 2 novembre 2010 proietta già la propria luce sulle elezioni “generali” del 6 novembre 2012, allorché gli Stati Uniti d’America eleggeranno il 45° presidente e il 48° vicepresidente federali nonché il 113° Congresso, la sostanziale mancanza di analisi articolate e di valutazioni approfondite — talora un vero e proprio silenzio — che, per esempio in Italia, ha accompagnato quell’evento storico lascia dunque assolutamente perplessi.
1. Il voto
Come da Costituzione federale, quindi come di prassi, martedì 2 novembre 2010 gli Stati Uniti d’America hanno celebrato le elezioni dette di “medio termine” o di “metà mandato” — mid-term —, giacché convocate a due anni dall’elezione del presidente e del vicepresidente federali in quel momento in carica, i quali hanno mandato quadriennale e sono eleggibili per due volte anche non consecutive (8). Le elezioni statunitensi di “metà mandato” eleggono il Congresso — il “parlamento” federale — sempre in ragione dell’intera Camera dei deputati, la “Camera bassa”, e di un terzo circa del Senato, la Camera Alta. Attualmente la Camera consta di 435 deputati, numero stabilito in rapporto agli abitanti di ciascuno dei cinquanta Stati nordamericani singolarmente considerati e registrato nel Twenty-Second Unites States Census — noto anche come “Census 2000” —, il quale, condotto dal Bureau of the Census del governo federale, registra l’entità della popolazione statunitense al 1° aprile 2000. Il numero dei deputati non è cioè stabilito in rapporto agli abitanti dell’Unione federale considerati complessivamente.
Il Senato si compone invece di cento seggi: due, pariteticamente, per ognuno dei cinquanta Stati dell’Unione federale. Essendo il mandato dei deputati federali di due anni e quello dei senatori federali di sei, ma con scadenza a rotazione in base alla loro elezione a scaglioni fin dalla nascita della Camera Alta, le elezioni per il rinnovo del Congresso vengono celebrate negli Stati Uniti d’America una volta ogni due anni — in concomitanza con quelle presidenziali e vicepresidenziali, e a metà del mandato del presidente e del vicepresidente eletti e in carica — attraverso consultazioni che riguardano sempre per intero la Camera, ma sempre solo un terzo dei senatori.
Suddivisi in classe I, II e III, i senatori federali vengono rinnovati — a meno di eccezioni dovute a elezioni suppletive riguardanti appartenenti ad altre classi, che aumentano il numero dei seggi in palio — con un criterio di 33 seggi per volta nel caso dei senatori di classe I e II, e di 34 nel caso dei senatori di classe III.
Il 2 novembre 2010 è stato eletto il 112° Congresso federale, entrato in carica il 3 gennaio 2011 per restarvi fino al 3 gennaio 2013. Ha vinto il Partito Repubblicano: ha vinto poiché ha conquistato la maggioranza assoluta dei seggi in lizza alla Camera federale, ha assottigliato sensibilmente e significativamente il vantaggio detenuto dai Democratici al Senato pure federale — “proiettando” comunque anche sulla Camera Alta l’ombra virtuale della vittoria —, ha invertito il rapporto di forze nel conteggio complessivo dei governatori di Stato e ha ottenuto la maggioranza dei voti anche in molte assemblee bicamerali sempre a livello di Stati.
2. Il voto alla Camera dei deputati federale
Dei 435 seggi in lizza nella Camera del 112° Congresso federale, il Partito Repubblicano ne ha ottenuti 242 e il Partito Democratico 193. Del totale dei voti popolari espressi, i Repubblicani ne hanno ottenuti 45.088.676, pari al 51,6 per cento dei suffragi espressi, e i Democratici 39.107.430, pari al 44,8 per cento. Lo swing, cioè lo spostamento di seggi da un partito all’altro, è stato di 63 deputati: in più per i Repubblicani, che sono avanzati del 9,1 per cento e in meno per i Democratici, che sono arretrati dell’8,4 per cento.
Ora, benché nella Camera nel 112° Congresso i Democratici siano più di quanti fossero i Repubblicani nella Camera del 111° Congresso alla vigilia del voto del 2 novembre 2010 (9), il risultato elettorale prodottosi in quella data segna a favore dei Repubblicani due primati — peraltro antecedentemente detenuti dai Democratici — nella storia degli swing delle votazioni per la Camera federale. Considerando, infatti, tutte le tornate elettorali, di “medio termine” o “generali” — cioè la concomitanza delle elezioni per il ramo esecutivo e per il ramo legislativo della struttura federale statunitense —, lo swing ottenuto dai Repubblicani il 2 novembre 2010 è stato il più alto dal 1948 allorché i Democratici conquistarono sia entrambi i rami dell’81° Congresso sia la presidenza e la vicepresidenza federali; e, considerando solo le elezioni di “medio termine”, è stato il più alto dal 1938, allorché nel 76° Congresso federale i Democratici ottennero la maggioranza in entrambi i rami, nonostante una forte flessione subita proprio alla Camera. Del resto, il record Democratico del 1948, battuto dai Repubblicani nel 2010, poté sfruttare efficacemente il vicendevole “effetto-traino” fra Casa Bianca e Congresso, determinante e comprensibile, che le elezioni “generali” comportano, ma impossibile ai Repubblicani il 2 novembre 2010, come impossibile è a qualunque partito in ogni elezione di “medio termine”.
Peraltro, al di là di questo duplice record, lo swing ottenuto dai Repubblicani il 2 novembre 2010 è maggiore del guadagno netto complessivo — la somma, cioè, di due risultati vittoriosi successivi e consecutivi che vanno considerati affermazione in progress di un unico trend —, ovvero 52 seggi, che i Democratici hanno ottenuto nelle tornate elettorali del 7 novembre 2006, elezioni di “medio termine”, allorché guadagnarono 31 seggi, e del 4 novembre 2008, elezioni “generali”, allorché guadagnarono 21 seggi. Va del resto tenuto presente che quando nel 2008 si celebrarono le elezioni sia per il rinnovo del Congresso — tutti i deputati, 435, e un terzo dei senatori, nella fattispecie quelli di classe II, 33, più due di classe I interessati da elezioni suppletive — sia per la presidenza e la vicepresidenza federali il già classico “effetto-traino” delle elezioni “generali” fu enormemente rinforzato in quel frangente particolare dal successo personale ottenuto dal presidente federale allora eletto, Obama, determinato dal sovrapporsi, nei voti popolari espressi dai cittadini statunitensi, sia da ragioni prettamente ideologiche condensatesi in un voto militante, sia da più generiche motivazioni “sentimentali”, quelle che hanno “gonfiato” il risultato numerico al punto da alterarne sensibilmente la lucida valutazione strettamente politica (10). Le seconde hanno del resto inciso ampiamente anche su quel dato assolutamente non secondario — al fine di apprezzare concretamente la misura del “gonfiarsi” del risultato numerico onde tentarne una valutazione pure politica — che, in quella occasione, è stato l’afflusso eccezionale di elettori, soprattutto “nuovi”, alle urne (11).
Ciò detto, non va comunque dimenticato che sempre le elezioni di “medio termine” assumono giocoforza un certo “sapore” di referendum di gradimento sull’amministrazione al potere. Non è quindi infrequente che il partito che esprime il presidente e il vicepresidente federali in carica nel momento delle elezioni perda consensi numerici nel voto popolare, dunque nei seggi federali, con margini anche numericamente ampi, almeno in uno dei rami del Congresso. Di solito la flessione avviene sensibilmente soprattutto alla Camera — e questo per il modo diverso con cui vengono eletti i due rami —, ma talora si verifica visibilmente anche al Senato. Politicamente, la flessione non è del resto meno significativa qualora non determini la perdita del controllo di uno o di entrambi i rami penalizzati giacché, sempre e comunque, indica un’emorragia grave di voti popolari — spesso rifugiatisi, e non solo dispersi, nel non-voto — che rivela un calo netto dei consensi costantemente — per effetto del rapporto vigente nel Paese nordamericano fra rappresentanza federale e numero di cittadini votanti: in base al “Census 2000”, ognuno degli attuali 435 deputati federali rappresenta una popolazione di circa 700.000 abitanti dello Stato in cui è eletto — valutabile nell’ordine di grandezza di milioni di persone.
La riduzione del numero dei seggi Democratici nella Camera del 112° Congresso supera però di gran lunga la consuetudine statunitense.
3. Il voto al Senato federale
3.1. Nelle elezioni del 2 novembre 2010 alla Camera Alta di Washington i Repubblicani hanno ottenuto la maggioranza dei voti popolari espressi dai cittadini statunitensi aventi diritto al voto e recatisi alle urne per eleggere il terzo dei senatori federali in lizza in quella tornata. Hanno infatti ottenuto 37.057.491 voti popolari, pari al 49,3 per cento dei suffragi espressi, contro i 33.883.538, pari al 45,1 per cento dei Democratici. Ciò ha determinato un guadagno di sei seggi per i Repubblicani e la conseguente perdita di altrettanti seggi per i Democratici; ovvero, in relazione alla composizione del Senato, una crescita del 4,3 per cento per i primi e una flessione del 6,6 per cento per i secondi. In termini di voto popolare espresso, cioè, i Democratici perdono più di quanto i Repubblicani guadagnino.
Ciò è altamente significativo in chiave politica poiché fa riferimento al “sapore” di referendum di gradimento sull’Amministrazione in carica al momento del voto che in genere le elezioni di “medio termine” giocoforza assumono sempre, ma che in specie quelle del 2 novembre 2010 hanno senz’altro assunto in relazione alla presidenza Obama e alle motivazioni “sentimentali” che ne determinarono nel 2008 l’elezione alla Casa Bianca. Si è trattato però di un successo in termini assoluti — voti popolari espressi — che non si è tramutato anche in un successo in termini relativi ovvero rappresentativi — seggi guadagnati, quindi detenuti — giacché non è sufficiente per consegnare ai Repubblicani il controllo della Camera Alta, dove i Democratici hanno 53 senatori su 100. Ciononostante li fa avanzare notevolmente — nel 111° Congresso contavano 41 seggi contro i 59 dei Democratici —, sia in termini assoluti sia in termini relativi ovvero rappresentativi.
3.2. Ma non solo. Nel Senato degli Stati Uniti d’America, il 2 novembre 2010 si è votato per i 34 senatori di classe III e per tre altri seggi senatoriali, uno di classe II e due di classe I, interessati da consultazioni suppletive per sopravvenute nomine di governo o per decesso dei titolari precedentemente eletti e nel frattempo coperti da nomine ad interim. I 34 seggi senatoriali di classe III sono stati eletti con mandato regolare di sei anni, mentre i tre interessati da elezioni suppletive lo sono stati per mandati più brevi, a completamento degli iter già iniziati dai precedenti titolari.
Per effetto delle elezioni del Congresso federale del 2008 e delle successive consultazioni suppletive, alla vigilia del voto del 2 novembre 2010 il Senato risultava composto di 57 Democratici, 41 Repubblicani e due indipendenti schierati, fin dal Congresso precedente, con i primi. Dei 37 seggi interessati dalle consultazioni del 2 novembre 2010, 19 erano Democratici e 18 Repubblicani; dei 19 seggi Democratici in lizza, 7 lo erano per pensionamento o per sconfitta alle elezioni primarie di partito dei titolari, mentre per gli stessi motivi li erano 8 dei 18 Repubblicani. Il 2 novembre 2010 questi ultimi hanno conquistato 6 seggi prima detenuti dai Democratici: uno in Arkansas e uno in Wisconsin, dove hanno battuto altrettanti senatori Democratici in carica e in corsa per la rielezione, e quattro in Illinois, Indiana, North Dakota e Pennsylvania, dove le elezioni erano invece “aperte”, ovvero prive di titolari di uno o dell’altro partito in corsa per la rielezione.
Il seggio conquistato dai Repubblicani nello Stato dell’Illinois è andato all’ex deputato Mark Steven Kirk, che il 2 novembre ha vinto sia il regolare mandato senatoriale di sei anni sia la consultazione speciale indetta per portare a compimento il mandato a suo tempo affidato al Democratico Roland Wallace Burris, che nel 2010 non si è candidato alla rielezione, in sostituzione dell’ex senatore Obama eletto nel 2008 alla Casa Bianca. La legge dello Stato dell’Illinois concede infatti al governatore il potere di nominare, in casi come questo, il senatore che sostituisca un titolare chiamato a incarichi di governo. Dopo l’ingresso formale di Obama alla Casa Bianca, il governatore dell’Illinois allora in carica, Rod “Milorad” Blagojevich, si apprestava a operare tale nomina quando, il 9 dicembre 2008, l’FBI, Federal Bureau of Investigation, lo arrestò con diverse accuse di corruzione fra cui quella di avere cercato di vendere detta nomina senatoriale. Ciononostante, il 31 dicembre dello stesso anno Blagojevich nominò Burris in vece di Obama e Burris, dopo una prima opposizione della maggioranza Democratica al Senato federale presto rientrata, assunse ufficialmente l’incarico il 15 gennaio 2009.
Innegabilmente, la sconfitta subita dai Democratici nel seggio che era di Obama ha contribuito sul piano psicologico — soprattutto in relazione al ruolo che nella sua elezione alla Casa Bianca giocarono le motivazioni di tipo “sentimentale” — ad aumentare la percezione di vittoria da parte Repubblicana, subito sfruttata sul piano propagandistico.
3.3. E non è tutto. Fra consultazioni speciali e generali, e ricordando che la legge federale impedisce che i due senatori federali pariteticamente espressi da ciascuno degli Stati dell’Unione siano entrambi contemporaneamente oggetto di elezione, il che comporta che ogni due anni vi siano più di un terzo degli Stati dell’Unione federale interessati dal voto per un terzo dei seggi totali della Camera Alta federale in palio, il 2 novembre 2010 si è votato per il Senato di Washington in tutti gli Stati tranne che in Maine, Massachussetts, Michigan, Minnesota, Mississippi, Montana, Nebraska, New Jersey, New Mexico, Rhode Island, Tennessee, Texas, Virginia e Wyoming.
Ebbene, rammentando anche che nel Senato del 112° Congresso federale i Repubblicani non hanno perso alcuno dei seggi che già possedevano nella Camera Alta uscente, va in particolare notato che, quanto agli Stati che il 2 novembre 2010 non sono stati interessati da elezioni per il Senato federale, nel conto dei distretti elettorali in cui è suddiviso ciascuno Stato per le elezioni alla Camera federale Montana, Nebraska e Wyoming hanno votato compattamente per i Repubblicani non concedendo alcun distretto ai Democratici; Michigan, Minnesota, Mississippi, New Mexico, Tennessee, Texas e Virginia si sono espressi per i Repubblicani con margini praticamente sempre enormi — in alcuni casi “solo” ampi — e pur facendo registrare significativi swing di partito fra gli elettori; che per i Repubblicani si è espresso a vasta maggioranza alla Camera federale anche il New Jersey; che i Democratici hanno ottenuto la maggioranza dei distretti elettorali utili per la Camera di Washington solo in Stati di tradizione fortemente di sinistra quali Maine, Massachussetts e Rhode Island, ma comunque confermando in tutti e tre i casi solo il controllo di seggi già detenuti nel 111° Congresso; e che però proprio nel Massachussetts ultra-liberal, “dominio” storico del progressismo della famiglia Kennedy e primo Stato dell’Unione a legalizzare i cosiddetti “matrimoni” omosessuali, le elezioni straordinarie svoltesi il 19 gennaio 2010 per colmare il seggio senatoriale di classe I lasciato vacante dal defunto senatore Democratico Edward Moore “Ted” Kennedy (1932-2009) — ben noto per il suo relativismo morale e “padre”, più o meno putativo, della cosiddetta “Obamacare”, la “riforma” sanitaria socialisteggiante, filoabortista e filoeutanasista voluta dalla Casa Bianca e dal 111° Congresso — sono state vinte dal Repubblicano “sconosciuto” Scott Philip Brown, pro-life e non sgradito al movimento conservatore, cosa peraltro che non gli ha impedito, dall’elezione in poi, di votare in Senato a favore di provvisioni di legge anche progressiste e comunque sgradite al suo elettorato proveniente dal movimento conservatore. Questa vittoria ha segnato l’inizio di quel lungo ciclo di elezioni primarie che hanno portato alla ribalta della formazione Repubblicana personale nuovo e spesso espressione genuina — persino a volte in contrasto con l’establishment di partito — del conservatorismo grassroots, cioè “di base” ovvero “popolare”, appunto i Tea Party (12).
3.4. Inoltre, sempre quanto a Stati che il 2 novembre 2010 non sono stati interessati da elezioni per il Senato federale ma dove si sono celebrate elezioni per la carica di governatore, sono stati eletti governatori Repubblicani in Michigan, Nebraska, New Mexico, Tennessee, Texas e Wyoming, mentre solo le roccaforti liberal del Maine e del Massachussetts hanno eletto — mantenuto — governatori Democratici, poiché il Rhode Island ha eletto un governatore indipendente con 123.571 voti, pari al 36,1 per cento dei suffragi espressi, contro i 114.911, pari al 33,6 per cento del candidato Repubblicano e solo i 78.896, pari al 23 per cento del candidato Democratico.
Insomma, come dimostrano queste geografie politiche del voto espresso dai cittadini statunitensi il 2 novembre 2010 — del resto consultabili, con un’indubbia efficacia anche visiva, sul sito Internet di The Politico, che ha sede ad Arlington, in Virginia, ovvero uno dei quotidiani generalmente più informati sulla politica statunitense, dunque fra quelli più autorevoli e più consultati (13) —, un diverso assortimento di Stati interessati dal voto per il Senato federale avrebbe determinato risultati differenti anche nella Camera Alta: certamente un numero maggiore di seggi guadagnati dai Repubblicani, probabilmente anche il controllo Repubblicano dell’assise.
In controluce, dunque, anche il Senato federale — in virtù delle proiezioni politiche che i risultati numerici della Camera federale e dei governatorati consentono — indica una tendenza “filo-Repubblicana”, suggerendo una vittoria “morale” conservatrice che forse ha perfino un valore prospettico.
4. Il voto per i governatori di Stato
Il 2 novembre 2010 i Repubblicani hanno conquistato la maggioranza nel conteggio complessivo delle assegnazioni per partito dei governatorati dei cinquanta Stati dell’Unione. In concomitanza delle elezioni di “medio termine”, infatti, spesso gli Stati Uniti d’America votano anche per eleggere governatori di Stati: nel 2010 si è dunque votato, attraverso consultazioni normali o speciali, per la nomina di 37 governatori di Stati dell’Unione federale e di due capi di governo locale in altrettanti territori che, a diverso titolo, si trovano in unione politica con il Paese nordamericano.
Dunque 20 sono oggi i governatori Democratici e 29 quelli Repubblicani, mentre erano rispettivamente 26 e 23 alla vigilia del voto. Il 2 novembre 2010 i primi hanno sottratto ai secondi i governatorati di California, Connecticut, Hawaii, Minnesota e Vermont; viceversa, i Repubblicani hanno sottratto ai Democratici i governatorati di Iowa, Kansas, Ohio, Oklahoma, Maine, Michigan, New Mexico, Pennsylvania, Tennessee, Wisconsin e Wyoming.
L’elezione di un governatore indipendente in Rhode Island merita del resto una nota. Il governatore uscente, Donald L. “Don” Carcieri, era Repubblicano, cattolico e conservatore. Non più rieleggibile dopo due mandati consecutivi in base alla legge vigente nel Rhode Island, nel 2010 gli è succeduto l’episcopaliano liberal Lincoln Davenport Chafee, senatore federale Repubblicano fino al 2007, da sempre favorevole ad aborto, sperimentazione su cellule staminali embrionali umane e cosiddetto “matrimonio” omosessuale, nonché supporter di Obama nelle elezioni presidenziali del 2008. Chafee ha sbaragliato lo sfidante Democratico Frank T. Caprio, cattolico, e battuto piuttosto di misura il Repubblicano John Robitaille, entrambi non particolarmenti noti come alfieri dei “princìpi non negoziabili”, certamente non quanto lo era Carcieri.
5. Altre elezioni e referendum
Il 2 novembre 2010 si è votato anche per il rinnovo di 46 assemblee legislative di altrettanti Stati dell’Unione e di quattro organismi legislativi in altrettanti territori che, a diverso titolo, si trovano in unione politica con il Paese nordamericano, nonché per diverse elezioni amministrative o locali in Stati dell’Unione — per esempio i sindaci di alcune città — e per 160 referendum, celebrati nella fattispecie in 37 Stati.
L’esito delle consultazioni per il rinnovo delle assemblee legislative dei singoli Stati interessati dal voto è particolarmente significativo. In quelle elezioni, infatti, secondo i dati forniti dalla National Conference of State Legislatures, i Repubblicani hanno conquistato complessivamente 680 seggi, “[…] il numero maggiore dei tempi moderni” (14), di gran lunga superiore sia ai 472 ottenuti nel rinnovo di alcune assemblee legislative di Stato in concomitanza con le elezioni “di medio termine” dell’8 novembre 1994, al tempo della cosiddetta “valanga Repubblicana” guidata da Newton Leroy “Newt” Gingrich, che quindi divenne presidente della Camera federale di Washington, sia al record detenuto dai Democratici con 628 seggi guadagnati nelle elezioni di “medio termine” del 5 novembre 1974, successive al cosiddetto “scandalo Watergate” che travolse la dirigenza Repubblicana e costrinse alle dimissioni, il 9 agosto 1974, il presidente federale Richard Milhous Nixon (1913-1994), espresso appunto dal Partito Repubblicano. Così, il 2 novembre 2010, i Repubblicani hanno “[…] ottenuto la maggioranza in almeno 14 camere di Stato” (15) e oggi esercitano il “[…] controllo unitario — cioè su entrambe le Camere — in 25 assemblee legislative di Stato” (16). Per questo, si dice ora negli Stati Uniti d’America, “[…] l’impatto delle elezioni del 2010 si farà sentire per i prossimi dieci anni” (17).
Quanto ai referendum, a differenza del 2006 e del 2008 non ve ne sono stati di legati ai “princìpi non negoziabili”. Ma la consultazione legata a una questione per certo “eticamente sensibile” svoltasi in California, la legalizzazione della marijuana per i cittadini maggiori di ventun anni chiesta con la Proposition 19, ha visto trionfare il fronte del “no” con il 53 per cento dei voti, e questo in uno Stato notoriamente liberal che però già nel 2008, mentre consegnava la maggioranza dei propri voti a Obama e al 111° Congresso dominato dai Democratici, vedeva il successo — clamoroso, storico — del fronte dei cittadini che chiedevano la tutela formale e legale del matrimonio naturale monogamico fra un uomo e una donna attraverso l’introduzione di uno specifico emendamento alla Costituzione californiana.
Inoltre, in Oklahoma ha vinto, con il 70 per cento dei voti, il referendum “preventivo” denominato State Question 755 con cui s’impedisce ai tribunali dello Stato di giudicare impiegando fonti della shari’a islamica e del diritto internazionale.
6. I votanti
Nell’insieme, tutte le elezioni celebrate negli Stati Uniti d’America il 2 novembre 2010 hanno interessato circa 82,5 milioni di persone contro i circa 130 milioni di votanti del 2008: all’appello, indicano gli analisti, sono però mancati soprattutto quei supporter di Obama che nel 2008 votarono l’allora senatore dell’Illinois per ragioni militanti e ideologiche — quindi non tutti gli elettori che allora votarono Obama, per esempio non quelli che lo votarono per ragioni “sentimentali” — e/o i suoi elettori appartenenti a “minoranze” etniche — solo in parte sovrapponibili agli elettori spinti da ragioni “sentimentali” — che, fortemente delusi dalla politica perseguita della Casa Bianca e del 111° Congresso proprio su temi di natura ideologica — o temi legati a questioni riconducibili all’ideologizzazione di argomenti riguardanti le “minoranze” etniche —, certamente non si sono elettoralmente rivolti ai Repubblicani, ma nondimeno hanno scelto di disertare il campo Democratico (18).
Ciò non significa, peraltro, che nel 2009 e nel 2010 la Casa Bianca e il 111° Congresso federale non siano stati fautori di politiche di natura ideologica fortemente liberal e sensibilmente relativista, soprattutto quanto ai “princìpi non negoziabili” — ma anche a scelte di natura economica, fiscale e di politica estera nella lotta contro il terrorismo internazionale —, anzi semmai proprio il contrario. Significa però che la parte di voto dato nel 2008 a Obama e al Congresso — soprattutto al primo — per ragioni specificamente ideologiche, pur non esaurendo la totalità del voto espresso allora in favore di Obama, e magari nemmeno la maggioranza di esso, era però particolarmente intenso proprio riguardo alle spinte di natura militante. Minoritario, ma deciso, acceso, magari talora anche “estremo”, se non addirittura “estremista”. Una sorta di “avanguardia”, cioè, che, appunto a motivo del proprio massimalismo, si è sentita “tradita” da Obama; soprattutto che ha creduto di avvertire uno iato enorme fra l’”Obama sperato”, e quindi votato, e l’”Obama eletto”, cioè l’Obama presidente, governante, titolare del braccio esecutivo delle istituzioni federali statunitensi. La differenza fra l’Obama “candidato” e l’Obama “presidente”, peraltro, è più dovuta alle costrizioni che la realtà delle cose, ben oltre le utopie ideologiche — non solo quindi la ragion di Stato o i tatticismi —, hanno imposto, e impongono, al secondo. L’errore di valutazione, la “fretta” ideologica, del resto, è stata tutta dell’”avanguardia” fortemente ideologizzata costituita dalla minoranza degli elettori di Obama, non dal presidente federale in carica, che da questo punto di vista appare assai più “realista”. Ovvero non sacrifica le riforme ideologiche liberal e relativiste che può concretamente sperare e cercare di ottenere al massimalismo velleitario di una parte dei suoi elettori, sempre più ex.
Ciò spiega il permanere in mano Democratica di ampi settori del potere pubblico statunitense nonostante l’oggettivo successo ottenuto dai Repubblicani in più comparti, a diverso titolo e con differenti modalità concrete, e l’astensione di una parte rilevante di quello che nel 2008 fu “il popolo di Obama”.
7. Una prima valutazione politica dei risultati elettorali
7.1. L’ampio successo conseguito dai Repubblicani alla Camera federale non è pertanto assolutamente sminuito dal vantaggio esiguo con cui i Democratici mantengono oggi la maggioranza al Senato. Anzitutto perché la forza numerica di cui dispongono i Repubblicani nella nuova Camera — oggettivamente irrobustita dalla riduzione della superiorità Democratica al Senato — è più che sufficiente per condizionare l’attività legislativa di quell’assise, quindi per contrastare efficacemente l’”asse” fra Casa Bianca e Congresso federale uscente che ha dominato la politica statunitense nel 2009 e nel 2010. Poi perché nel complesso — specificamente al Senato di Washington — le elezioni di “medio termine” hanno interessato, come detto, solo una parte dei cittadini statunitensi aventi diritto al voto. L’insieme — a detta di molti commentatori negli Stati Uniti d’America, sia interni al mondo conservatore e al Partito Repubblicano, sia esterni e perfino loro avversari — pone una caparra non piccola sulle elezioni per il presidente e il vicepresidente federali che si svolgeranno il 6 novembre 2012 dopo una lunga, forse estenuante, sicuramente eccezionale campagna elettorale di ventiquattro mesi.
Non coglie quindi affatto nel segno l’affermazione secondo cui il risultato complessivo delle urne — vittoria Repubblicana alla Camera e tenuta della maggioranza Democratica al Senato — indicherebbe una certa debolezza relativa dei Repubblicani. Infatti, mentre va tenuto costantemente presente che il 2 novembre 2010 per il Senato non si è votato in tutti gli Stati dove essi hanno conservato o guadagnato sia seggi alla Camera federale, sia governatorati e maggioranze nelle assemblee legislative di Stato, occorre considerare che per rimontare la superiorità ottenuta dai Democratici nelle elezioni del 111° Congresso federale nel novembre 2008 ai Repubblicani servivano numeri davvero ampi, questa volta ottenuti e anche con largo margine.
Infatti, i numeri necessari a ribaltare i rapporti di forze che dividono due componenti contrapposte di un insieme aritmetico tendono evidentemente ad aumentare in misura direttamente proporzionale alla “forchetta” che le divarica, facendo così crescere costantemente anche il netto numerico utile a conseguire il vantaggio. Puntare allora a conseguire tale risultato potendo contare solo su “bacino di utenza” ridotto, cioè di fatto cercando i termini della maggioranza numerica assoluta dentro una quantità relativa di possibilità aritmetiche, impone allo sfidante la necessità di guadagnare uno scarto netto enormemente maggiore rispetto ai bisogni semplicemente difensivi su cui può, male che vada, arroccarsi lo sfidato allo scopo almeno di mantenere la propria superiorità numerica in termini assoluti, anche se magari non più tale in termini relativi.
Per i Repubblicani, dunque, ottenere la maggioranza al Senato federale nelle elezioni del 2 novembre 2010 era un compito estremamente difficile: un’impresa al limite dell’impossibile poiché il quorum necessario a determinare la maggioranza assoluta nel numero complessivo dei senatori federali — il 50 per cento dei senatori più uno, nella fattispecie 50 senatori più uno — andava guadagnato rimontando una situazione di partenza che configurava uno svantaggio enorme sia in termini assoluti — la composizione del 111° Congresso di Washington uscita dalle elezioni del 2008 — sia in termini relativi — il modo dell’elezione dei senatori federali —, tale per cui l’erosione della maggioranza Democratica di cui i Repubblicani sono stati capaci è stata in ogni caso un’affermazione maiuscola.
7.2. A chi obiettasse che nel 2008 ai Democratici riuscì, e con ampio margine, l’impresa di ottenere la maggioranza numerica assoluta sia alla Camera sia al Senato federali, sarebbe semplice rispondere mettendo ancora una volta in evidenza la natura del tutto personale — cioè non di per sé merito del Partito Democratico inteso come macchina politico-burocratica, ovvero come establishment — del successo conseguito in quel frangente dal presidente eletto Obama, il quale non strappò affatto numeri elettorali troppo decisivi ai candidati proposti dal Partito Repubblicano per la presidenza e per la vicepresidenza federali — rispettivamente il senatore dell’Arizona John Sidney McCain e l’allora governatrice dell’Alaska Sarah Louise Heath Palin —, ma che invece riuscì a infrangere il muro dell’astensionismo portando alle urne numeri enormi di cittadini che in precedenza avevano votato poco o punto.
Questa lettura peculiare del voto per la Casa Bianca del 2008 — che in principio, cioè “a caldo”, poteva apparire solo un’intuizione o al più una “pista d’indagine” —, è stata invece confermata e rafforzata dal progressivo calo di gradimento, costante nella sua accelerazione esponenziale, cui è andato incontro Obama nei due anni trascorsi dalla sua elezione alle successive consultazioni di “medio termine”, man mano che alla studiata vaghezza del programma — utile per giocare la carta dell’appeal “sentimentale” — con cui alla vigilia del voto egli si propose all’elettorato statunitense si sono sostituiti affondi di carattere marcatamente ideologico. Ciò sia sul piano dei princìpi non negoziabili, sia sul versante di decisioni in assoluto più legittimamente opinabili — la linea economica, il regime fiscale, oppure la conduzione degli affari esteri, delle relazioni internazionali e della guerra al terrorismo internazionale —, ma non per questo esenti da valutazioni precise, e ovviamente altrettanto legittime — soprattutto laddove sono in qualche modo individuabili trait-d’union o legami fra queste e i principì inderogabili —, di tipo politico e di natura morale.
È vero cioè che nel 2008 il successo di Obama è venuto dalla somma fra il voto datogli per ragioni ideologiche da un minoranza di militanti coscienti — tanto “di colore” quanto bianchi — e il voto “sentimentale” di una maggioranza di elettori più generici — simboleggiato eloquentemente dalle vuote parole d’ordine obamiane, “Change”, “cambiamento”, e “Yes, we can”, “sì, noi possiamo” — e talora “qualunquisti”, cui appartenevano comunque anche molti esponenti delle cosiddette “minoranze” etniche. Ciò proprio perché alla crescita delle iniziative presidenziali riconducibili a criteri ideologici è direttamente conseguito un calo evidente del gradimento popolare generico: la natura scopertamente ideologica di certe mosse della Casa Bianca ha infatti alienato la simpatia dei “moderati” non certo quella dei “convinti”, semmai in parte — la parte massimalista — delusi solo dal poco “estremismo” presidenziale. E queste considerazioni, solo apparentemente speculari a quelle sopra esposte in merito all’”avanguardia” massimalista obamiama delusa, non contraddicono affatto la valutazione della natura dei voti mancati ai Democratici il 2 novembre 2010, anzi la rafforzano.
8. Una seconda valutazione politica dei risultati elettorali
Ancora una volta il voto disgiunto espresso da milioni di americani che nel 2008 elessero una Casa Bianca e un Congresso Democratici — cioè liberal — nello stesso momento in cui bocciavano i referendum più progressisti in ambito morale rafforza le valutazioni fatte finora.
Del resto, non ha senso insistere in direzione contraria né portando a testimonianza il risultato delle elezioni di “medio termine” che il 7 novembre 2006 assegnarono ai Democratici la maggioranza sia della Camera sia del Senato del 110° Congresso, né sottolineando il fatto che in questo modo sono state due — novembre 2006 e novembre 2008 — le volte consecutive in cui i Democratici hanno conseguito quella maggioranza assoluta nei due rami del Congresso difficile da ottenere. Allora, infatti, mentre alla Casa Bianca sedevano il 43° presidente e il 46° vicepresidente federali — rispettivamente George Walker Bush jr. e Richard Bruce “Dick” Cheney —, i cittadini statunitensi elessero, come già detto, un Congresso a maggioranza Democratica ma composto di un personale politico assai più conservatore, o in quel preciso frangente percepito come tale soprattutto rispetto a certi Repubblicani intenti a mostrarsi più “centristi” o persino liberal, della media “classica” degli esponenti del Partito Repubblicano.
Quanto qui si vuole sostenere, perché a conti fatti davvero più pesa, è che, al di là delle maggioranze detenute dall’uno o dall’altro dei due principali partiti della scena politica statunitense nell’uno, nell’altro o contemporaneamente in entrambi i rami del Congresso, l’elettorato si è costantemente mantenuto su posizioni conservatrici, anche se talora esprimendo questo suo orientamento in forme paradossali, nel 2006, nel 2008 e nel 2010, e che la presidenza Obama risulta insomma un accidens proprio come le maggioranze congressuali Democratiche nel 2006 e nel 2008 sono accidenti. I partiti stessi sono infatti, negli Stati Uniti, sovente “incidenti” e “accidenti” nel percorso politico del Paese, soprattutto per la propria natura, per la propria conformazione e per la propria storia: l’uno, il Partito Democratico, che nacque pressoché “reazionario” salvo divenire poi il “tempio” del relativismo e l’altro, il Partito Repubblicano, che, sorto progressista, si è fatto strada come “casa comune”, almeno in politica, dello spirito conservatore.
Non si spiegherebbe altrimenti come anche nel 2006, e non solo nel 2008, gli statunitensi abbiano premiato i Democratici — correttamente in media percepiti oggi come progressisti — bocciando al contempo offensive liberal in campo etico. Come quell’enorme consenso conservatore cresciuto ultimamente anche attorno alla Casa Bianca di Bush jr. e definito felicemente in termini di Right Nation (19) si sia apparentemente dissolto in fretta qual neve al sole. E però come altrettanto velocemente sia evaporato l’enorme successo personale di Obama, ottenuto comunque a fronte — là dove hanno saputo e voluto fare quadrato — di una sostanziale tenuta dei Repubblicani alle elezioni presidenziali del 2008. Ovvero non si spiegherebbe tutto ciò a meno di presumere, correttamente, che nel primo caso l’elettorato abbia creduto — magari sbagliando, benché in buona fede — di poter separare i singoli uomini politici dalla “linea” del partito che li candidava nonché le questioni di principio da quelle amministrative; nel secondo caso si sia trattato di un abbaglio clamoroso; e nel terzo caso sia scoccata finalmente l’ora della risposta a un fenomeno superficiale, persino posticcio.
La Right Nation, cioè, non è mai venuta meno. Solo i distratti hanno potuto pensare il contrario.
(1) Per un primo inquadramento, cfr. John M. O’Hara, A New American Tea Party: The Counterrevolution Against Bailouts, Handouts, Reckless Spending and More Taxes, con una Foreword di Michelle Malkin, Wiley, Hoboken (New Jersey) 2010; Joseph Farah, The Tea Party Manifesto: A Vision for an American Rebirth, WND Books, Washington 2010; nonché Richard Keith “Dick” Armey e Matthew B. “Matt” Kibbe, Give Us Liberty: A Tea Party Manifesto, William Morrow, New York 2010. In italiano, cfr. la mia raccolta di articoli L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana, Columbia Institute-Solfanelli, Milano-Chieti 2010, nonché il saggio di Lorenzo Montanari e Marco Respinti, Passato e presente del movimento del “Tea Party”. New politics e ritorno della grassroots communication, in Rivista italiana di comunicazione pubblica, anno XI, n. 40, FrancoAngeli, Milano 2010, pp. 196-201.
(2) Cfr. David Freddoso, The Case Against Barack Obama: The Unlikely Rise and Unexamined Agenda of the Media’s Favorite Candidate, Regnery, Washington 2008; Richard “Dick” Morris ed Eileen McGann, Fleeced: How Barack Obama, Media Mockery of Terrorist Threats, Liberals Who Want To Kill Talk Radio, The Do-Nothing Congress, Companies That Help Iran, And Washington Lobbyists For Foreign Governments Are Scamming Us… And What To Do About It, Harper, New York 2008; Iidem, 2010: Take Back America: A Battle Plan, Harper, New York 2010; Angelo M. Codevilla, The Ruling Class: How They Corrupted America and What We Can Do About It, con una Introduction di Rush Hudson Limbaugh, Beaufort Books, New York 2010; Dinesh D’Souza, The Roots of Obama’s Rage, Regnery, Washington 2010; Stanley Kurtz, Radical-in-Chief: Barack Obama and the Untold Story of American Socialism, Threshold, New York 2010; Sally C. Pipes, The Truth About Obamacare: What They Don’t Want You to Know About Our New Health Care Law, Regnery, Washington 2010; Pamela Geller e Robert Bruce Spencer, The Post-American Presidency: The Obama Administration’s War on America, con una Foreword dell’ambasciatore John Robert Bolton, Threshold, New York 2010; tenente colonnello Robert “Buzz” Patterson, Conduct Unbecoming: How Barack Obama is Destroying the Military and Endangering Our Security, Regnery, Washington 2010; Jason Mattera, Obama Zombies: How the Obama Machine Brainwashed My Generation, Threshold, New York 2010; Newton Leroy “Newt” Gingrich, To Save America: Stopping Obama’s Secular-Socialist Machine, Regnery, Washington 2010; Sean Hannity, Conservative Victory: Deafeating Obama’s Radical Agenda, Harper, New York 2010; Glenn Edward Lee Beck e Kevin Balfe, Broke: The Plan to Restore Our Trust, Truth and Treasure, Threshold, New York 2010; David Limbaugh, Crimes Against Liberty: An Indictment of President Barack Obama, Regnery, Washington 2010; Michelle Marie Maglalang Malkin, Culture of Corruption: Obama and His Team of Tax Cheats, Crooks, and Cronies, Regnery, Washington 2010; e William James “Bill” O’Reilley, Pinheads and Patriots: Where You Stand in the Age of Obama, William Morrow, New York 2010.
(3) Cfr. George H. Nash, The Conservative Intellectual Movement in America Since 1945, 2a ed. aumentata, ISI Books, Wilmington (Delaware) 1996 (1a ed. 1976); Lee Edwards, The Conservative Revolution: The Movement That Remade America, Regnery, Washington 1999; e G.H. Nash, Reappraising the Right: The Past and Future of American Conservatism, ISI Books, Wilmington 2009.
(4) Cfr., in prima istanza, Russell Amos Kirk (1918-1994), The American Cause, trad. it., a puntate su il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 2, Milano: Anzitutto crederci, n. 27, 5-7-2003, p. 7; Un Paese cristiano, n. 28, 12-7-2003, p. 7; Per nulla laicisti, n. 29, 19-7-2003, p. 7; Da molto lontano, n. 30, 26-7-2003, p. 7; Gli Stati Uniti plurali, n. 31, 2-8-2003, p. 7; Refrattari alle ideologie, n. 32/33, 9/16-8-2003, p. 7; La libertà di essere liberi, n. 34, 23-7-2003, p. 9; L’albero si vede dalle radici, n. 35, 30-8-2003, p. 7; La ricchezza certamente non basta, ma serve, n. 36, 6-9-2003, p. 7; Contro gli USA. Così, per sport, n. 37, 13-9-2003, p. 7; e Americani. E orgogliosi di esserlo, n. 38, 20-9-2003, p. 7; nonché Idem, Prospects for Conservatives, 4a ed. riveduta Regnery, Washington 1989 (1a ed. 1954 con il titolo A Program for Conservatives); e, più in generale, Idem, The Conservative Mind: From Burke To Eliot, con il saggio The Making of “The Conservative Mind”, di Henry S. Regnery (1912-1996), 7a ed. riveduta e accresciuta, Regnery, Washington 1993 (1a ed. con il titolo The Conservative Mind: From Burke to Santayana, 1953); Idem, Stati Uniti e Francia: due rivoluzioni a confronto, a cura di M. Respinti, con Edmund Burke e l’America. Un’introduzione di Mario Marcolla (1929-2003), Edizioni Centro Grafico Stampa, Bergamo 1995; e Idem, Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo, trad. it., a cura di M. Respinti, con un Epilogo di Frank J. Shakespeare Jr., Mondadori, Milano 1996.
(5) Cfr. Donald Thomas Critchlow, The Conservative Ascendancy: How the GOP Right Made Political History, Harvard University Press, Cambridge (Massachussetts) 2007.
(6) Cfr. il mio 7 novembre 2006: “Gli Stati Uniti d’America sono ancora un Paese conservatore”, in Cristianità, anno XXXIV, n. 337-338, settembre-dicembre 2006, pp. 3-14, ora nel mio L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana, cit., Appendice, pp. 101-129.
(7) Cfr. J.M. O’Hara, op. cit; per un primo commento, cfr. il mio Europa, preparati agli anti-tasse, in Libero quotidiano, Milano, 7-3-2010, ora con il titolo E adesso controrivoluzione nel mio L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana, cit., pp. 29-31.
(8) Cfr. una descrizione iniziale dei meccanismi delle elezioni federali statunitensi, nei miei 7 novembre 2006: “Gli Stati Uniti d’America sono ancora un Paese conservatore”, cit., e Stati Uniti d’America, 4 novembre 2008: l’elezione del 44° presidente federale, in Cristianità, anno XXXVI, n. 349-350, settembre-dicembre 2008, pp. 41-48, ora nel mio L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana, cit., Appendice, pp. 131-150.
(9) Al momento delle elezioni di “medio termine” i Democratici erano 256 e i Repubblicani 179, cioè il 58,9 per cento contro il 41,1 per cento e questo per effetto di una elezione suppletiva, celebrata nello Stato del Massachusetts il 19 gennaio 2010, che ha modificato il dato uscito dalle urne il 4 novembre 2008, cioè 257 Democratici e 178 Repubblicani, 59,1 per cento contro 40,9 per cento: cfr. il mio La débacle dei Kennedy e la “vendetta” di Federer, nel mio L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana, cit., pp. 43-48, testo originale da cui erano stati “ritagliati” i miei La débacle dei Kennedy e La “vendetta” di Federer, precedentemente pubblicati in cronache di liberal, anno XV, n.13, Roma 21-1-2010, rispettivamente a p. 2 e a p. 3.
(10) Cfr. il tema del voto militante e del voto “sentimentale” espresso per Obama nel 2008 nel mio Stati Uniti d’America, 4 novembre 2008: l’elezione del 44° presidente federale, cit.
(11) Cfr. ibidem.
(12) Cfr. il mio Scott Brown, l’incubo dei Democratici, in cronache di liberal, anno XV, n. 11, Roma 19-1-2010, pp. 14-15, ora nel mio L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana, cit., pp. 39-41.
(13) Cfr. <http://www.politico.com/2010/maps> (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 29-12-2010).
(14) Jeremy P. Jacobs, Devastation: GOP Picks Up 680 State Leg. Seats, in National Journal, Washington 4-10-2010, <http:// hotlineoncall.nationaljournal.com/ archives/ 2010/11devastation-gop.php>.
(15) Ibidem.
(16) Ibidem.
(17) Christopher “Chris” Good, In Redistricting Year, GOP Gains a Big Edge, in The Atlantic, Boston 4-10-2010, <http:// www.theatlantic.com/ politics/ archive/ 2010/11/ in-redistricting-year-gop-gains-a-bi.g-edge/ 66128/>.
(18) Cfr. Michael Tomasky, Turnout: explains a lot, in Michael Tomasky’s Blog, in The Guardian, Londra 3-11-2010, <http://www.guardian.co.uk/ commentisfree/ michaeltomasky/ 2010/nov/03/ us-midterm-elections-2010-turnout-says-a-lot>.
(19) Cfr. John Micklethwait e Adrian Wooldridge, La destra giusta. Storia e geografia dell’America che si sente giusta perché è di destra, trad. it., Mondadori, Milano 2005.