Ettore Ribolzi, Cristianità n. 165 (1989)
Con la complicità dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, violenze e ricatti cui sono sottoposti quanti – fuorusciti dal Sudafrica – non si uniscono e non collaborano con i cosiddetti “movimenti di liberazione”, infiltrati e manipolati dai socialcomunisti.
Attraverso i mezzi di comunicazione sociale l’opinione pubblica italiana è quasi quotidianamente informata sulla “lotta di liberazione” che l’ANC, l’African National Congress, da tempo conduce per rovesciare il governo della Repubblica Sudafricana, fautore della politica razziale basata sull’apartheid (1).
Protagonista della vita politica sudafricana, l’ANC viene costituito nel 1912 dall’avvocato nero Pixley Seme con il nome di South African Native National Congress, denominazione che il movimento conserverà sino al 1923. Inizialmente non rivoluzionario e ispirato al rispetto della legalità, verso la fine degli anni Quaranta incomincia a mutare tendenza, pesantemente influenzato dalla dottrina marxista di alcuni suoi membri. L’infiltrazione comunista si completa negli anni Cinquanta; e negli anni Sessanta in seno all’ANC viene creata una vera e propria organizzazione terroristica, denominata Umkonto we Size, “Lancia della Nazione” (2).
Notoriamente appoggiato dagli Stati del blocco comunista (3) e responsabile di numerosi attentati terroristici, l’ANC è strettamente collegato al SACP, il Partito Comunista Sudafricano: benché tale connessione sia negata, basterà notare in proposito che ben venticinque dei trenta membri del massimo organo direttivo dell’ANC – il Comitato Esecutivo Nazionale – sono iscritti anche al SACP (4).
Chi si meravigliasse di fronte a una caratterizzazione ideologica così netta di quello che l’opinione pubblica italiana conosce come il più importante e il più diffuso fra i movimenti di opposizione al regime sudafricano – e quindi, in un certo senso, super partes – dovrebbe solamente farne carico all’informazione relativa, decisamente selettiva e dunque non idonea a fornire un quadro della situazione aderente a una realtà ben più complessa di quanto comunemente si creda (5).
Una conferma del carattere selettivo delle notizie che compaiono sugli organi di informazione è certamente costituita dalla totale assenza di ogni riferimento alle risultanze di un rapporto redatto dal ricercatore statunitense Phil Christenson per la Commissione Esteri del Senato degli Stati Uniti d’America e datato 22 giugno 1988 (6).
Tale rapporto – che ha avuto vasta eco sulla stampa sudafricana e che è stato anche oggetto di una interrogazione al Parlamento Europeo da parte dell’eurodeputato democristiano tedesco Renate Rabbethge (7) – documenta e denuncia gli abusi e le violazioni dei diritti umani più elementari perpetrati nei campi profughi dell’ANC soprattutto in Angola, in Tanzania e nello Zambia. In esso vengono raccolte le testimonianze di diverse decine di esuli sudafricani neri, fuggiti dal loro paese nel periodo fra il 1976 e il 1977, gli anni della contestazione studentesca, per timore di sanzioni da parte delle autorità del governo di Pretoria.
Nella prima delle cinque parti di cui si compone il rapporto viene messa in evidenza la discriminazione razziale di cui sono fatti oggetto i profughi neri: infatti, mentre ai profughi bianchi viene assicurata un’immediata assistenza al fine di ottenere asilo politico nell’America Settentrionale, in Europa e in Australia, i neri sono costretti con ogni mezzo, e anche contro la loro volontà, a entrare nelle file dell’ANC oppure del PAC, il Pan Africanist Congress, fondato nel 1959 da alcuni fuoriusciti dall’ANC sulla base di una linea politica più decisamente orientata verso le rivendicazioni razziali e ispirata al panafricanismo. In pratica, i rifugiati neri possono avere accesso ai campi profughi – formalmente posti sotto il controllo dell’ACNUR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati – soltanto se accettano di entrare a far parte di uno dei “movimenti di liberazione”: questa, infatti, è la condizione richiesta affinché i profughi vengano trasferiti nei campi, a spese dell’ACNUR stesso.
La seconda parte del documento è dedicata alle torture e alle esecuzioni nei campi profughi dell’ANC sulla base di quanto raccontato da testimoni oculari. La sorveglianza e la disciplina nei campi vengono assicurate da “commissari”, cioè da membri dell’ANC talora addestrati in paesi dell’Est europeo. Ogni manifestazione di dissenso politico viene duramente repressa con la carcerazione, con il pestaggio e anche con la morte. I rifugiati raccontano di sparizioni dei “dissidenti” nel corso della notte, per essere trasferiti a Ovest, cioè nei campi in Angola, dove l’ANC li interna e procede talora alle esecuzioni capitali. Una fonte definita attendibile riferisce di almeno dieci esecuzioni all’anno di dissidenti politici o di presunte spie nel campo angolano noto come “Numero 4”) (8). Per ragioni di sicurezza contro possibili rappresaglie il rapporto omette i nomi degli intervistati: vengono tuttavia descritti in modo dettagliato alcuni episodi significativi. A Mazimbu, nelle vicinanze della città di Morogoro, in Tanzania, un prigioniero, Robert Nyembe di Johannesburg, è stato percosso a morte dai commissari per aver raccontato quanto aveva visto in un campo in Angola, cioè – fra l’altro – torture e omicidi.
Un intervistato racconta di essere stato accusato di spionaggio e quindi colpito al volto tanto duramente da non poter assumere alimenti se non con dolori atroci. Durante l’interrogatorio fu percosso sotto le piante dei piedi e sarebbe certamente stato ucciso se non fosse intervenuto un rappresentante del governo tanzaniano nel campo, che lo fece ricoverare in ospedale e poi detenere per tre mesi in prigione al fine di proteggerlo dai commissari. Anche la presenza di personale europeo nei campi dell’ANC in Tanzania – per esempio, quello costituito dagli svedesi che lavorano al programma di aiuti contro l’AIDS – non scoraggia il ricorso alla violenza, anzi, un internato sorpreso a parlare con un europeo attira su di sé l’attenzione dei commissari e rischia di essere sottoposto a interrogatori e a torture. Il rapporto poi sottolinea come sia negato in modo particolare ai rappresentanti del governo degli Stati Uniti d’America l’accesso ai campi profughi in Tanzania. Lo stesso accade anche a Mazimbu, benché il governo statunitense vi abbia finanziato la costruzione dei Solomon Mahlangu Freedom College.
Nella terza parte viene esaminato e denunciato il ruolo che nella vicenda ha assunto e svolge l’Organizzazione delle Nazioni Unite. I testimoni sono unanimi nei denunciare le pressioni ricevute da parte di rappresentanti dell’ACNUR al fine di farli entrare a far parte dell’ANC. Sono espressamente nominati Dennis McNamara, già impiegato presso l’ufficio dell’ACNUR nello Swaziland, e Zonelli Mbeki, funzionario di grado elevato prima a Nairobi, in Kenya, quindi a Lusaka, in Zambia, nonché moglie di Thabo Mbeki, membro del Comitato Esecutivo dell’ANC.
La struttura creata dall’ACNUR costringe i profughi sudafricani a trovare una sistemazione definitiva nei campi controllati dall’ANC in Angola, nello Zambia oppure in Tanzania, con il pagamento delle spese di trasferimento dai paesi di primo asilo – Botswana, Leshoto e Swaziland – ai campi di destinazione finale. Le stesse pubblicazioni ufficiali dell’ACNUR indicano nell’ANC il partner operativo nella realizzazione dei programmi di assistenza ai profughi sudafricani, e anche i governi dello Zambia e della Tanzania trattano con I’ANC come con un governo in esilio, rinunciando totalmente all’esercizio della propria giurisdizione e della propria sovranità nei campi profughi stessi.
La maggiore concentrazione di profughi sudafricani neri, posti formalmente sotto la protezione dell’ACNUR, è costituita dal campo dell’ANC presso Luanda, che conta circa diecimila internati. Poiché la Repubblica Popolare dell’Angola non è decisamente famosa per il proprio impegno nella difesa dei diritti umani, è ragionevole pensare che le condizioni di questi profughi siano anche peggiori di quelle rilevate in Tanzania. In proposito, è riportata la testimonianza di una studentessa sudafricana che, essendosi rifiutata di aderire all’ANC, fu internata in Angola, dove per tre anni subì ripetutamente pestaggi e violenze carnali fino alla sua liberazione avvenuta nel 1979.
A chi non aderisce a uno dei movimenti di liberazione viene negata qualsiasi assistenza. Nel rapporto si riferisce il caso di alcuni ex membri dell’ANC che – fuggiti a Nairobi – si sono sentiti dire da George Chaponda, del locale ufficio dell’ACNUR, che dovevano considerarsi “disertori” e che non avrebbero ottenuto nessuna assistenza. Solitamente a quanti fuggono dai campi dell’ANC, l’ACNUR chiede di tornare al proprio campo d’appartenenza per farsi rilasciare una formale “lettera di dimissione” al fine di ottenere poi assistenza: a giudizio degli intervistati, tale richiesta equivale a un invito al suicidio.
Le condizioni in cui il governo tanzaniano abbandona quanti rifiutano la sistemazione nei campi dell’ANC sono denunciate nella quarta parte del rapporto. Questi profughi sono inviati al campo di Kigwa, presso la città di Tabora, dove vivono praticamente senza alcuna assistenza medica in una zona infestata dalla malaria e dai serpenti. Per lo più studenti universitari fuggiti dalle grandi università sudafricane, questi profughi ricevono circa sei dollari al mese per tutte le loro necessità, una zappa, sementi e un piccolo appezzamento di terreno.
Il rapporto si chiude con alcune considerazioni sulle condizioni dei profughi dissidenti dall’ANC, che non possono ritenersi al sicuro finché restano sul suolo africano, e questo secondo le insospettabili affermazioni dell’ACNUR all’ambasciata americana di Harare, la capitale dello Zimbabwe. Nonostante questo l’ACNUR continua a opporre energici rifiuti alle offerte di asilo provenienti dagli USA, dal Canada, dall’Australia e dall’Europa Occidentale. Benché il numero dei profughi in questione sia relativamente basso – sono circa quindicimila – e quindi tale da essere facilmente assorbito dai paesi del mondo occidentale, ci si oppone alle offerte d’asilo perché – si dice – così facendo “si potrebbero distruggere i movimenti di liberazione“. Ma così si vuole ignorare che la meta principale dei profughi neri sudafricani non sono i movimenti di liberazione, ma gli Stati Uniti d’America.
Stando così le cose, non si può non concludere con le stesse parole del rapporto: “Gli interessi americani in ordine alla protezione dei diritti umani di questi profughi neri sudafricani e il nostro interesse in ordine al contenimento dell’espansione dell’influenza sovietica nell’Africa Meridionale sono insidiati dall’attuale sistema di assistenza ai profughi neri sudafricani. È necessaria una seria riconsiderazione della nostra politica di accoglienza dei rifugiati, e le decisioni politiche dell’ACNUR, che abbiamo finora tollerato oppure accettato, necessitano di un drammatico riesame”.
Ettore Ribolzi
Note
(1) Cfr. MASSIMO INTROVIGNE, Rapporto sul Sudafrica, in Cristianità, anno XIII, n. 126, ottobre 1985.
(2) Cfr. ibidem; e il mio Chi è Nelson Mandela?, ibid., anno XV, n. 148-150, agosto-settembre-ottobre 1987.
(3) Secondo Ermanno Bruzzo, l’ala militare dell’ANC è “finanziata dall’Unione Sovietica” (Sudafrica: compromesso o libanizzazione?, in MondOperaio, anno XXXVIII, n. 8-9, agosto-settembre 1985, p. 43).
(4) Per la notizia relativa alla misura di questa presenza – notevolmente superiore a quanto fino a oggi saputo -, cfr. il quotidiano sudafricano Sowetan, 3-10-1988, che la riporta dall’agenzia áfrica confidential, di Lisbona. Sul legame fra l’ANC e il SACP, cfr. le dichiarazioni del segretario generale del SACP stesso, Moses Mabhida, nel mio L’altra faccia di Desmond Tutu, in Cristianità, anno XV, n. 144-145, aprile-maggio 1987; cfr. anche ANC: “Freedom fighters” or Soviet puppets?, in The Aida Parker Newsletter. Perspectives on Southern Africa, n. 95, 26-11-1986, numero speciale dedicato all’ANC; sull’argomento rimane fondamentale lo studio di KEITH CAMPBELL, ANC. A Soviet Task Force?, Institute for the Study of Terrorism, Londra 1986, in cui vengono chiariti in modo sistematico i legami ideologici e politici fra il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, il Partito Comunista Sudafricano e l’ANC.
(5) Importa rilevare che il movimento politico nero di gran lunga maggioritario in Sudafrica è costituito dal partito Inkhata, fondato e diretto dal principe zulu Mangosutho Gatsha Buthelezi: di tendenza moderata e fautore del dialogo con il governo, conta più di un milione di tesserati, ma gode virtualmente dell’appoggio di tutta l’etnia zulu, trattandosi di un movimento a base etnico-culturale piuttosto che ideologica; per un breve profilo dell’Inkhata, cfr. M. INTROVIGNE, art. cit.
(6) Cfr. Staff Investigation of Human Rights Abuses of Black South African Exiles by the “Liberation Movements”, rapporto del 22-6-1988, redatto da Phil Christenson e presentato da Jerry Christianson e Jim Lucier ai membri della Commissione Esteri del Senato degli Stati Uniti d’America.
(7) Cfr. il quotidiano sudafricano Beeld, 13-10-1988.
(8) Il campo Numero 4, conosciuto anche semplicemente come Quattro, dovrà essere smantellato nel rispetto degli accordi noti come Protocollo di Brazzaville, firmato da Angola, Cuba e Sudafrica il 15-12-1988; cfr. GIANCARLO COCCIA, Batosta per i ribelli il patto di pace tra Cuba, l’Angola e il Sud Africa, in il Giornale, 18-12-1988.