Mauro Ronco, Cristianità n. 187-188 (1990)
La nuova codificazione intronizza il più radicale positivismo e formalismo giuridici, vanifica il rapporto fra giustizia e diritto, prepara la morte del diritto per mancanza di possibilità espressive e getta la giustizia nel caos della pura contesa fra le parti, condizione prima — anche se non unica — per il prevalere della “legge del più forte”.
1. L’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale
Il delicatissimo settore della giustizia penale è stato oggetto di una riforma radicale con l’entrata in vigore, il 24 ottobre 1989, di un nuovo codice di procedura penale, approvato con decreto del presidente della Repubblica il 22 settembre 1988, n. 477.
Tutta la classe politica italiana, nelle sue varie articolazioni istituzionali e nelle sue diverse espressioni politiche, va considerata, a giusto titolo, artefice dell’apparato normativo entrato in vigore ormai da più di un anno. Se, infatti, la responsabilità specifica in ordine alla confezione del testo di legge deve essere fatta risalire al Governo nella sua collegialità e, con maggiore determinatezza e intensità, al presidente del Consiglio dei Ministri e al ministro di Grazia e Giustizia del tempo dell’approvazione — rispettivamente il democristiano on. Ciriaco De Mita e il socialista sen. professor Giuliano Vassalli —, è opportuno non dimenticare che il Parlamento ebbe ripetutamente a porre il sigillo del suo intervento sulla formazione del codice.
Infatti, i suoi princìpi ispiratori vennero fissati con la legge n. 81 del 16 febbraio 1987, recante la delega legislativa al Governo per l’emanazione dello strumento normativo in questione; inoltre, una Commissione parlamentare bicamerale, istituita appositamente a questo scopo, ebbe il compito di valutare la corrispondenza delle disposizioni codicistiche ai princìpi generali fissati nella legge delegatrice, sì che il Parlamento è sicuramente corresponsabile, a tutti gli effetti, non soltanto dell’introduzione nell’ordinamento della riforma, nelle sue linee generali, ma anche delle concrete scelte operative attuate dal Governo.
Queste precisazioni in ordine all’attribuzione della paternità del nuovo codice sono assolutamente indispensabili nel momento presente in cui, dopo l’euforia seguita all’approvazione della normativa — quando tutti facevano a gara nel riconoscersi meriti a riguardo della sua approvazione — prevale negli ambienti destinati all’applicazione delle norme un sentimento di frustrazione e d’impotenza per le gravissime ulteriori disfunzioni che la riforma ha recato all’organismo, già in precedenza seriamente ammalato, della giustizia penale.
Infatti, sia i responsabili istituzionali dei vari organi dello Stato, sia i rappresentanti dei partiti che sorreggono la maggioranza di governo, nonché del Partito Comunista Italiano e delle frange variamente richiamantisi alle tesi del Partito Radicale, forze tutte che hanno sostenuto in modo risoluto la riforma e la sua immediata entrata in vigore, anche contro le sfocate resistenze di alcuni settori della magistratura, stanno ora inscenando le mosse più scaltre per prendere le distanze dal codice approvato, proiettando ciascuno su altri il peso maggiore e la responsabilità determinante delle scelte compiute.
Questo indecoroso esercizio di “scarica barile”, messo in atto secondo un copione già molte volte recitato con apparente successo nella storia della Repubblica, delinea il tentativo, a tutti comune, di sottrarsi alla responsabilità, personale e diretta, per lo scardinamento completo arrecato dalla riforma all’esercizio complessivo del magistero penale.
Senonché, come più volte è stato ripetuto, soprattutto nel tempo in cui la promessa della riforma globale veniva demagogicamente agitata dalla classe politica dominante per smorzare il malumore nascente da questa o da quella disfunzione del sistema, non v’è dubbio che il codice di rito penale, per l’importanza dei beni, pubblici e privati, che sono oggetto della considerazione e regolazione normativa, nonché per la complessità dei problemi pratici, che debbono essere convenientemente risolti perché sia conservato l’equilibrio tra le varie parti dell’insieme e sia realizzato il bene comune, esprime con adeguata approssimazione il livello di civiltà — o d’inciviltà — di un determinato sistema politico e sociale, nonché il grado di moralità pubblica di coloro che, per gli incarichi istituzionali ricoperti o per l’entità del potere politico posseduto, vanno, a giusto titolo, ritenuti responsabili in ordine all’esercizio della sovranità statale.
Pertanto, non soltanto giuridicamente, ma anche e soprattutto sul piano politico e morale, la responsabilità del codice riformato va fatta risalire alla classe politica dominante nel suo insieme, senza che sia possibile ad alcuna forza politica o ad alcun organismo istituzionale trarsi fuori dal cerchio dei responsabili dell’accadimento: il tempo presente, invero, dovrebbe ormai consigliare il ritorno alla saggezza, da rendersi manifesto non tanto con il cambiamento di questo o di quel meccanismo normativo o, peggio ancora, con la proiezione su altri del peso maggiore delle scelte compiute, bensì con la revisione globale dei princìpi ispiratori del nuovo codice.
Intanto, in attesa di gesti significativi di resipiscenza, a fronte dello sfascio totale del sistema della giustizia penale, dell’incremento spaventoso dei più efferati delitti, dell’estendersi sull’intero territorio nazionale della criminalità associata — e del consolidarsi del potere di essa, in alcune zone importanti del paese, nella forma di un vero e proprio contro-potere politico e sociale —, della sempre più sfrontata e arrogante impunità per la piccola e mezzana delinquenza, della sistematica vanificazione del valore retributivo e rieducativo della sanzione penale, è indispensabile che la società civile elevi un atto di accusa risoluto e coraggioso contro coloro che dello sfascio sono, senza ombra di dubbio, i diretti responsabili: i rappresentanti, in Parlamento e nel Governo, e in tutti gli organi istituzionali, della sovranità dello Stato.
2. L’ideologia del nuovo codice di procedura penale
Il codice approvato il 22 settembre 1988 non è certamente l’unica causa della devastazione attuale e della drammaticità inerente alla condizione della giustizia penale in Italia. Esso, però, è un moltiplicatore implacabile delle disfunzioni già esistenti nel sistema precedente, poiché le rende vincenti e parossisticamente dominanti, sino al punto che la regola tende ormai a diventare la disapplicazione della norma di diritto sostanziale, con la generalizzazione dell’impunità del colpevole.
La ragione fondamentale di questo incontrollabile accrescersi di difficoltà sta nell’ideologia del nuovo codice — e nell’impianto normativo a tale ideologia ispirato — consistente nel rifiuto dell’essenziale verità giuridica e sociale, secondo cui il processo penale è un complesso di regole che debbono scandire i tempi e i modi dell’accertamento giudiziale relativamente alla realizzazione dei fatti gravemente lesivi del bene comune.
Siffatto accertamento deve, poi, essere svolto nella prospettiva dell’adempimento leale del dovere incombente sulla pubblica autorità di combattere il male e di punire giustamente coloro che si sono resi responsabili di atti che recano un grave danno o un concreto pericolo per il bene degli altri o della società nel suo insieme.
Secondo l’idea tradizionale, il processo penale è il mezzo attraverso cui il giudice, imparziale rispetto alle parti, ma non indifferente alla scelta tra la verità e la menzogna, cerca faticosamente di acquisire certezze storiche e fattuali in funzione della riaffermazione dei valori recati dalle norme di diritto sostanziale.
Nell’ideologia del nuovo codice di procedura penale, il processo è fine in sé stesso; il giudice è l’arbitro della schermaglia d’ordine tecnico che le parti contendenti giocano tra loro, in una prospettiva secondo cui ciò che esclusivamente conta è la regolarità formale del contendere, indipendentemente dal fine per cui la contesa è stata intrapresa.
Secondo l’idea tradizionale, il giudice ricerca anzitutto la verità storica. Ciò fa non per mera curiosità e neppure alla maniera dello storico, bensì allo scopo di riaffermare l’impero del diritto sulla situazione di squilibrio provocata nell’ambito della vita sociale dalla prevaricazione rappresentata dal torto. La meta finale non è la verità fattuale in sé stessa, bensì la proclamazione efficace della verità del diritto, che in tanto è possibile in quanto sia previamente accertata la realtà effettiva dei fatti nel loro accadere contingente.
Vi deve essere un raccordo gerarchico tra le norme processuali, che scandiscono i tempi e i modi dell’accertamento della verità, e le norme di diritto sostanziale, che esprimono le ragioni in funzione delle quali lo stesso diritto processuale esiste, e la cui riaffermazione costituisce il valore fondamentale in vista del quale l’esperienza del processo merita di essere vissuta.
3. Le conseguenze normative dell’ideologia sottesa al nuovo codice
Dall’idea fondamentale sopra esposta sgorgano tanto la sostanziale unità del processo, pur nella varietà delle fasi che lo contraddistinguono, quanto la funzione attiva del giudice nello stabilire la verità storica, attraverso la ricerca, la formazione e la valutazione della prova dei fatti oggetto della contestazione e dell’ipotesi accusatoria.
Il giudice, in questo quadro, è la figura centrale del processo non soltanto perché detiene il potere di decidere, con la sentenza, la questione di responsabilità sottoposta al suo esame, ma anche e prima ancora perché: a. tutte le attività compiute dalle varie parti nel corso del procedimento sono destinate a confluire nel complesso degli elementi oggetto del suo esame, e perché: b. egli stesso è organo attivo della ricerca della prova.
Nell’ideologia del processo riformato il giudice non indaga anzitutto e soprattutto sulla verità dei fatti, ma dirime una controversia tra le parti, di contro all’esperienza tradizionale, al cui centro sta il giudice imparziale, in continua tensione verso l’accertamento del vero.
Già nella definizione sopra citata può cogliersi un aspetto che distorce la realtà profonda dei rapporti tra i soggetti che prendono parte attiva alla vicenda giudiziaria.
Il pubblico ministero, invero, come rappresentante della società civile organizzata nello Stato, non può costituire un polo omogeneamente contrapponibile al polo rappresentato dall’imputato e dal suo difensore tecnico.
Mentre, infatti, l’imputato persegue legittimamente nel processo lo scopo di difendersi dall’accusa mossagli, non avendo alcun dovere di collaborare all’accertamento della verità, secondo il dettame condensato nel brocardo Nemo tenetur se detegere, “Nessuno è tenuto ad accusarsi”, è incongruo attribuire al rappresentante della società civile il compito esclusivo di svolgere l’accusa. L’esercizio di siffatta funzione, invero, è subordinato al rispetto del dovere di verità e di contribuire comunque alla realizzazione della giustizia, dovere in vista del quale la società costituisce il pubblico ministero nel suo ufficio.
La tradizione giuridica italiana, variamente contestata da alcune argomentazioni di tipo sofistico — in particolare dall’argomento di fatto secondo cui non sempre l’organo pubblico avrebbe rispettato appieno il suo dovere —, aveva in passato sempre sottolineato che il pubblico ministero non era identificabile come parte in senso proprio, rappresentando una funzione ancorata al dovere dell’oggettività e della giustizia, nel senso che il suo compito, prima e al di là del dispiegarsi nel sostegno offerto all’accusa, trovava il suo fondamento nel dovere di contribuire alla ricerca della verità. Soltanto l’ideologia del necessario conflitto tra le parti, sovrapposta alla realtà fisiologica dell’andamento dialettico del processo nel confrontarsi delle ragioni dell’accusa e della difesa, ha potuto inventare un processo di parti, come processo la cui essenza sta nella polarizzazione istituzionale del contrasto, con il conseguenziale offuscamento del compito essenziale del giudice nella ricerca del vero.
Collocato l’asse del processo su ciò che, per quanto importante, dovrebbe restare strumentale — ovvero la dialettica tra le ragioni dell’accusa e della difesa come indispensabile garanzia dell’imparzialità e della bontà della decisione —, e giudicato come inessenziale e secondario il finalismo primario del processo — accertare la realtà storica dei fatti oggetto dell’addebito —, è del tutto ovvio che il nuovo processo perda ogni contatto con il fine ultimo di giustizia cui l’accertamento giudiziale deve essere raccordato: la proclamazione efficace della verità del diritto sulla prevaricazione rappresentata dal torto.
Non può stupire, in un quadro del genere, disegnato in modo del tutto avulso dal fine ultimo del processo, che l’unità dello stesso venga spezzata e che il giudice sia quasi completamente privato di una funzione attiva nella ricerca e nella formazione della prova.
Dal primo punto di vista, mentre nell’ordinamento abrogato tutti gli atti legittimamente compiuti per l’accertamento della verità potevano confluire — e di regola confluivano — nel coacervo degli elementi che fondavano la decisione, nell’ordinamento attuale è stato introdotto il principio contrario, che suona nel senso per cui soltanto pochissimi atti, tassativamente previsti, tra quelli compiuti antecedentemente all’apertura del dibattimento, possono essere utilizzati per la formazione del convincimento del giudice. Sì che, ove una persona abbia confessato del tutto spontaneamente e veridicamente la propria responsabilità per un qualsiasi delitto avanti al pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari e, tratta a giudizio per tale delitto, si astenga dal rispondere nella fase dibattimentale, dovrà essere mandata assolta, in difetto di altre prove autonomamente dotate di efficacia concludente. Analogamente dovrà accadere nel caso in cui l’elemento decisivo — per esempio: una testimonianza — sia stato raccolto nella fase delle indagini preliminari dal pubblico ministero, e non sia possibile successivamente — o per forza maggiore ovvero per ostinazione dell’uomo — ripetere l’atto nella fase dibattimentale.
In tal modo, la distanza tra la verità sostanziale e la cosiddetta verità processuale — ciò che si è potuto sicuramente accertare all’esito del processo —, distanza che costituisce l’espressione della limitatezza e della fallibilità del giudicare umano, viene artificialmente accresciuta attraverso la frapposizione di una serie di barriere arbitrarie all’utilizzo probatorio di determinati atti.
Invero, la farraginosità e l’assurdità del sistema sottolineano, nell’ideologia soggiacente degli ispiratori e dei compilatori del codice, il rifiuto della verità come fine del processo e la reclusione di questo nel cerchio magico dell’uso dello strumento per sé stesso, in una sorta di esercizio dell’arte per l’arte, ove le azioni compiute non esprimono un significato d’ordine superiore e non tendono a un fine reale di giustizia.
Dal secondo punto di vista, mentre nell’ordinamento abrogato il giudice svolgeva un compito attivo nella ricerca e nella formazione della prova — espressione della tensione istituzionale verso l’accertamento del vero —, nell’ordinamento attuale al giudice è precluso, salvo rare e limitate eccezioni, interferire sull’attività che le parti hanno la facoltà di svolgere per provare i loro assunti.
Anche per questo verso non può non notarsi che la scelta adottata — priva di ogni razionalità logica e foriera di enormi disparità di trattamento in relazione alle assai diverse capacità economiche delle persone sottoposte a processo — si inscrive nell’ideologia volta ad approfondire il solco tra la verità sostanziale e la cosiddetta verità processuale, onde il giudizio formulato all’esito del processo non potrà non diventare sempre più casuale e arbitrario.
4. L’insofferenza contro il diritto: dinamismo reale del nuovo processo
Le conseguenze, in termini di demoralizzazione e di frustrazione dei diversi soggetti processuali e di tutti coloro che debbono compiere indagini preparatorie all’instaurazione del giudizio, spiegano ampiamente l’accrescersi delle disfunzioni pratiche e il progressivo svanire della funzione di giustizia nella concretezza dell’esperienza quotidiana.
Anzitutto, la polizia giudiziaria viene demotivata nella ricerca investigativa, in quanto — sulla base di un pregiudizio aprioristico di sfiducia e di sospetto sul suo operato — gli atti da essa compiuti, al di là di rarissime e tassative eccezioni, non possono dispiegare alcuna efficacia nel giudizio.
Lo stesso va detto a proposito dell’attività di ricerca delle prove compiuta dal pubblico ministero, che è vanificata dall’inutilizzabilità nella fase dibattimentale degli atti formati durante le indagini preliminari.
Il giudice, poi, oltre a essere privato della funzione di ricerca attiva della prova, è costituito a decidere la causa senza che gli sia consentito conoscere previamente gli atti processuali, sì che il compito attribuitogli di guidare il dibattimento rischia di essere svolto alla cieca.
Dell’avvocato difensore vengono esaltate le doti di prontezza e di furbizia, a scapito di quelle che trovano fondamento nella capacità di riflessione e nella profondità di valutazione logica dei fatti e dei documenti in funzione probatoria.
Infine, la vittima del reato è trascurata e negletta: poiché l’essenza del nuovo processo sta nella schermaglia tra le parti, non può destare stupore che le esigenze di tutela dei valori e dei beni, individuali e sociali, oggetto delle norme penali siano poste su un piano secondario e subordinato.
Quest’ultima osservazione merita di essere svolta ulteriormente poiché svela il significato più profondo e radicale insito nella struttura normativa del nuovo codice.
Si è detto in precedenza che il processo tradizionale istituisce un rapporto gerarchico tra le norme processuali e le norme di diritto sostanziale, che esprimono le esigenze fondamentali della vita sociale. Siffatta gerarchia — che potrebbe compendiarsi nella formula “il processo per il diritto” — si fonda sull’idea, comune alle tradizioni giuridiche di tutti i popoli, che l’illecito penale non è la condensazione formale di una decisione arbitraria assunta, in un certo momento storico, da coloro che detengono il potere normativo, bensì l’espressione della violazione del diritto, inteso come il criterio della giusta proporzione tra i poteri, le facoltà e le aspettative delle persone che vivono insieme nella società.
L’ideologia del nuovo processo penale si fonda, invece, sulla tesi più radicale del positivismo e del formalismo giuridici, secondo cui il diritto e il torto, il lecito e l’illecito sono qualifiche che non corrispondono all’intrinseca natura dei contegni dell’uomo, siccome rispettivamente conformi alle esigenze profonde inscritte nell’essere e nella realtà dei rapporti umani, o confliggenti con tali esigenze, bensì qualifiche meramente arbitrarie che il legislatore storico scolpisce come tali esclusivamente attraverso la previsione di una sanzione.
“L’illecito non è un comportamento contrario al diritto — proclama Franco Cordero, implacabile sostenitore del formalismo giuridico, alla cui opera scientifica è ricollegabile l’origine dell’impianto ideologico del nuovo codice — ma una delle condizioni richieste per l’avvenimento giuridico chiamato “sanzione”” (1). “Fatto antigiuridico” è “quello al cui autore il giudice deve infliggere una sanzione; e quindi è lecita la condotta per la quale nessuno può essere condannato a una pena o a risarcire il danno” (2).
Dunque, il formalismo giuridico sposta il centro di gravità dell’ordinamento dall’intrinseco rapporto di giustizia, espresso dal comportamento dell’uomo nella sua relazione con le altre persone, al procedimento formale alla cui stregua la qualifica di giustizia o di ingiustizia viene attribuita.
Ciò che veramente conta non è più accertare la giustizia o l’ingiustizia relativa a certi contegni o a determinate situazioni, bensì affinare la tecnica procedimentale sulla cui base la qualifica di giustizia o di ingiustizia viene attribuita. Osserva al proposito lo stesso Franco Cordero che “non esistono vie privilegiate d’accesso alla verità, e anzi il pudore delle idee suggerisce un uso sempre più avaro di questa parola lustra”, e aggiunge: “”vero” significa “conforme a date prescrizioni” e di una conclusione diciamo che sia vera quando risulta correttamente ricavata secondo determinate tecniche operative. Se gli strumenti sono idonei e l’operatore li ha adoperati a regola d’arte, la decisione, in quanto soddisfacente prodotto logico, dovrebbe corrispondere alle attese dei consociati” (3).
Dalle considerazioni svolte emerge chiaramente la portata della rivoluzione introdotta nell’ordinamento con il nuovo codice di procedura penale.
L’offuscamento del tema relativo all’accertamento storico e fattuale del vero, con la creazione del processo di parti, la riduzione della presenza e del compito del giudice, la frapposizione di barriere artificiose al conseguimento della verità, nonché l’esaltazione del momento dialettico e agonistico del processo costituiscono i percorsi privilegiati volti a realizzare, concretamente e praticamente, la relativizzazione positivistica e formalistica del giudizio in ordine alla giustizia e all’ingiustizia dei comportamenti umani. Se “vero” non è ciò che corrisponde al reale, bensì ciò che è “conforme a date prescrizioni”, non può non vedersi nel nuovo processo penale — tutto quanto inteso a introdurre difficoltà nel conseguimento della verità fattuale e costellato di prescrizioni formalistiche volte a regolare persino i più inessenziali atti delle parti — lo strumento più idoneo per attuare una vera e propria rivoluzione nella mentalità e nel costume degli operatori del settore e dell’opinione pubblica che si interessa sempre più avidamente alle vicende giudiziarie.
Ogni revisione dei singoli meccanismi previsti dal nuovo codice — revisione che s’impone per lo stato comatoso in cui sempre più versa la giustizia penale in Italia — deve ripartire da una rinnovata consapevolezza in ordine al significato di giustizia espresso dal diritto, nonché dallo sforzo efficace di tutti gli operatori perché la vita giudiziaria non si riduca a vuoto e inutile formalismo.
Mauro Ronco
Note:
(1) Franco Cordero, Procedura penale, Giuffrè, Milano 1979, 5a ed., p. 11.
(2) Ibid., p. 14.
(3) Ibid., p. 4.