Mauro Ronco, Cristianità n. 335 (2006)
1. Introduzione
Il non infrequente apparire di notizie circa il compimento di efferati delitti, con tutta la disumanità che essi rivelano, induce molti osservatori a domandarsi se la causa di tali misfatti non sia da ricercarsi nella malattia mentale degli autori.
Certamente si tratta di atti insani, espressivi di una profonda perturbazione mentale. Tale constatazione, però, non deve indurre a ritenere necessariamente che gli autori di tali fatti siano incapaci d’intendere e di volere e, dunque, che debbano essere considerati irresponsabili sul piano giuridico. Occorre, invece, indagare il “valore di malattia” di un atto criminale secondo un itinerario che, basato sul piano scientifico-naturalistico e alla luce dei criteri convenzionali di tipo giuridico sull’attribuzione della responsabilità per i fatti compiuti, sia però anche integrato dalla esperienza scaturente da solidi e oggettivi princìpi morali. Di fronte a delitti commessi da personalità abnormi, quanto più crudele, inusuale, efferato, mostruoso è il delitto, tanto più è difficile per il giudice accertare se la condotta delittuosa debba essere intesa come espressione di “criminalità”, ovvero come espressione di “malattia”, allo scopo facendo ricorso, di volta in volta, ai concetti di “malattia mentale”, di “valore di malattia” e di “vizio di mente” (1).
L’orientamento scientifico-naturalistico, quando si limiti a ricercare i sintomi di abnormità comportamentale, classificandoli in una determinata casella prevista dai vari protocolli della scienza psichiatrica, rischia di pervenire alla conclusione che tutti gli autori di reato avrebbero diritto al riconoscimento di un vizio di mente, con la conseguente non punibilità per il delitto commesso. Uno psichiatra, infatti, non ha difficoltà alcuna a etichettare ogni sintomo e ogni comportamento abnorme — e il delitto di sangue è sicuramente tale — all’interno di una casella alfa-numerica contemplata dai manuali psichiatrici.
Se, invece, ci si dovesse strettamente attenere alla convenzionalità giuridica, e si riconoscesse a una condotta abnorme “valore di malattia” soltanto in presenza di un’infermità con basi organiche e con modifiche anatomico-cerebrali, allora si restringerebbe in modo eccessivo l’ambito di rilevanza delle condizioni che inducono a modulare in guisa diversa la responsabilità penale in relazione alle condizioni psichiche del soggetto agente.
Non intendo negare che tanto l’approccio scientifico-naturalistico, quanto quello convenzionale-giuridico siano importanti nella valutazione dei profili di responsabilità delle personalità abnormi che hanno commesso delitti con la coscienza fortemente perturbata. Ritengo però che sia necessario integrare lo studio della coscienza in senso psichico con lo studio della coscienza in senso morale: soltanto in tal modo si può pervenire a una valutazione equilibrata del soggetto che ha compiuto delitti abnormi. Ciò postula il riconoscimento dell’esistenza, oltre che di una psicologia naturalistica, di una psicologia metafisica, che esamina il comportamento dell’uomo non soltanto nella sua fenomenologia esteriore, ma anche alla luce di ciò che egli è veramente, o meglio, alla luce di ciò che egli è secondo la tendenza intima dell’essere dell’uomo, fatto a immagine di Dio, e proteso verso un fine di felicità.
2. Infermità mentale e unità della persona
Di questa esigenza sono ormai consapevoli tanto i giuristi quanto gli scienziati della mente e gli esperti in psichiatria forense che forniscono alla giurisdizione le informazioni necessarie per risolvere i casi pratici.
Gli enormi progressi compiuti dalle scienze neurologiche negli ultimi decenni hanno, peraltro, chiaramente evidenziato la stretta relazione intercorrente fra le funzioni cerebrali, da un canto, e, dall’altro, la vita psichica e il comportamento della persona. I processi mentali presuppongono funzioni cerebrali intatte, al punto che i disturbi cerebrali implicano la compromissione della memoria, dell’orientamento, della percezione, del linguaggio e di molteplici altre capacità di carattere cognitivo. Eppure, sebbene non vi siano dubbi circa il fatto che il contegno umano si fondi su processi del cervello di tipo fisico-chimico, affiora sempre più fra gli scienziati la consapevolezza che, al fine di comprendere meglio la vita psichica, siano necessarie ulteriori condizioni di tipo biologico, psicologico e sociale. Daniel Hell, professore di Psichiatria Clinica e direttore della clinica psichiatrica universitaria di Zurigo, ha osservato che proprio le più recenti ricerche sul cervello sembrano confermare l’insufficienza di uno studio della mente secondo modalità di tipo esclusivamente fisico-chimico neuronale. Infatti, lo sviluppo cerebrale, pur nel quadro di limiti geneticamente prefissati, è dipendente dalle influenze dell’ambiente e dalle esperienze di vita della persona. L’encefalo non è affatto un organo statico, bensì plastico, che si adatta nella sua struttura sottile a influssi sia interiori sia esteriori (2). Ora — così prosegue Hell — se il sorgere e il collegarsi in rete fra loro delle cellule cerebrali dipende dagli sviluppi biografici e dalle esperienze di apprendimento, e se le pressioni ambientali — per esempio, nella forma dello stress — esercitano un enorme influsso sulla microanatomia e sulla neuropsicologia di distinti centri cerebrali, è evidentemente erronea la tendenza a ridurre le “malattie mentali” a mere “malattie del cervello”. Infatti, le modificazioni cerebrali che provocano le malattie mentali sono potenzialmente anche espressione di situazioni di vita e di esperienze del mondo (3). Ma — osserva sempre Hell — ancora più rilevante di ciò è la constatazione che l’esperienza psichica non può essere limitata al correlato biologico, giacché contiene sempre qualcosa di ulteriore rispetto a esso. Il significato attribuito soggettivamente a un’esperienza di vita non è dipendente esclusivamente dai processi cerebrali, ma può essere compreso soltanto nell’ambito di un orizzonte culturale specifico. Onde si può dire con Hell che il significato dell’esperienza psichica sta nel linguaggio e il significato del linguaggio nell’incontro degli uomini fra loro e nel loro confrontarsi con il mondo (4). I disturbi psichici si accompagnano, invero, alla modificazione delle funzioni cerebrali, ma non si esauriscono in tali modificazioni. Ammalato psichicamente, conclude Hell, non è un cervello, ma una persona. Il significato di una infermità psichica non sta nel cervello, bensì nella presa di posizione di una persona rispetto a se stessa e nella relazione linguistica fra l’uomo e la sua cultura (5).
La pluridimensionalità dell’infermità psichica rinvia alla compresenza nell’uomo delle tre dimensioni della vita organica, della vita psichica e della vita spirituale, non separate fra loro, ma costituenti un’unità inscindibile nel composto umano di corpo e anima. Günter Rager, professore di Anatomia, Embriologia e Neurobiologia all’università di Friburgo in Svizzera, ha suggerito l’analogia strutturale fra le teorie neurobiologiche oggi emergenti, che vedono una stretta interrelazione fra la mente e il corpo, tanto da parlare di “incarnazione della mente”, e la spiegazione filosofica dell’esistenza individuale elaborata da Aristotele (384-322 a. C.) e da san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274). Per essi forma e materia sono un nulla, in sé e per sé considerate. Forma e materia non sono sostanze, ma princìpi, che danno realtà alla vita nel loro legame reciproco. L’anima è la forma vivente del corpo, che gli dà la consistenza che noi sperimentiamo. Il corpo, invece, è visto come principio d’individuazione. Il corpo fornisce all’anima un luogo, nello spazio e nel tempo, la rende individuabile e distinguibile (6).
Se l’uomo è un composto di anima e di corpo e il suo essere non può venir ridotto all’una o all’altro, separatamente considerati, le infermità mentali attingono la persona nella sua interezza, indipendentemente dalla loro causa, provocando effetti in larga parte simili sul funzionamento della psiche. Alcune patologie della mente trovano origine in un’alterazione organica o funzionale di certi organi del corpo: questa alterazione provoca ulteriori alterazioni nello psichismo della persona, in quella parte dell’anima più dipendente dal corpo, in guisa che la parte nobile dell’anima — lo spirito — pur indenne dalla patologia, non ha più la possibilità di manifestarsi e di esprimersi esteriormente. Come insegna san Gregorio di Nissa (335 ca.-394), “[…] in ogni parte del composto umano che ha una sua attività propria la potenza dell’anima può operare: quando tale parte non rimane nell’ordine naturale essa rimane inefficace” (7). In questi casi, come insegna anche san Tommaso d’Aquino, l’infermità, essendo un disturbo diretto e primario del corpo, attinge anche l’anima, però soltanto per accidens: “L’anima unita al corpo può patire in due modi, per passione corporale e per passione animale o psichica. Per passione corporale patisce quando il corpo subisce una lesione. Perché, essendo l’anima forma del corpo, hanno tutti e due un solo essere e perciò se qualche danno colpisce il corpo, ne risente indirettamente anche l’anima per l’essere che ha in comune con il corpo” (8).
3. Le infermità mentali aventi origine nelle patologie dell’anima
Non tutte le patologie mentali, però, sono di origine organica. Se l’uomo è un composto di anima e di corpo, è inevitabile che vi siano patologie dell’anima che influiscono anch’esse sul funzionamento della psiche, fino a provocare effetti sul piano corporeo e del comportamento.
In un processo celebratosi in Italia nei confronti di un uomo accusato di plurimi omicidi, di tentato omicidio, di plurime violenze sessuali nei confronti delle vittime e di mutilazione dei cadaveri — processo conclusosi definitivamente con la condanna all’ergastolo per effetto della pronuncia 7 febbraio 2002 della Va sezione penale della Corte di Cassazione —, si è discusso a lungo, al più elevato livello scientifico, se l’accusato, inquadrato nella casella della personalità abnorme nell’ambito di una parafilia — cioè di una delle manifestazioni patologiche della sessualità chiamate dapprima perversioni e poi deviazioni sessuali — secondo la specificazione del sadismo sessuale, fosse o meno responsabile degli atti compiuti (9). Gli esperti che redassero l’ultima perizia collegiale, sostenendo la responsabilità dell’accusato, hanno, fra l’altro, sostenuto che, “non vi è dubbio che la pulsione parafiliaca sia una esigenza “forte”, difficile da combattere […] tuttavia, il controllo degli impulsi è nelle parafilie possibile e in questo caso l’esecuzione del rituale parafilico non è uno scoppio improvviso, ma comporta una messa in scena precisa e una complessa organizzazione: la coscienza dell’Io è sempre attiva e una serie di eventi sfavorevoli o la presenza di altri inibirebbe questa sequenza comportamentale. È il Super-Io che è indebolito ed è l’istanza sovracosciente di controllo che va esercitata che viene meno, istanza che può essere sempre richiamata” (10). Altri periti, che si erano pronunciati in precedenza, pure nel senso della responsabilità dell’accusato, hanno sostenuto, richiamandosi a due studiosi delle perversioni e delle personalità parafiliche, lo psichiatra statunitense Otto F. Kernberg e lo psicopatologo francese Jean Bergeret (11), che l’accusato mostrava, sia nelle caratteristiche strutturali della personalità, sia sul piano relazionale, i seguenti caratteri: “[…] l’incapacità a calarsi in una dimensione etica nel rapporto con l’interlocutore, l’incapacità di investire in relazioni che non siano di tipo manipolatorio, la necessità di confessare soltanto ciò per cui è stato colto in fallo insieme con la evidente tendenza alla falsificazione” (12). E hanno affermato che le situazioni descritte “[…] inducono nell’interlocutore un senso di irrealtà o di difficoltà di contatto con la realtà” (13). La conclusione di questo primo collegio peritale è stata, però, che il quadro complessivo non significava che N. N. avesse un disturbo patologico nel contatto e nel rapporto con il reale, “[…] ma soltanto che non riesce a mettersi in contatto con l’interlocutore nell’ambito di una dimensione etica” (14).
Ma cosa significa: “non riuscire a mettersi in contatto con l’interlocutore nell’ambito di una dimensione etica”?
Significa aver completamente — rectius: quasi completamente — rinnegato la propria coscienza di uomo.
Nel saggio Coscienza e verità, pubblicato nel 1991 in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino (15), il card. Joseph Ratzinger, mettendo in evidenza l’estrema radicalità dell’odierna disputa sull’etica e sul centro di essa, la coscienza, definiva il concetto di coscienza, individuandone due livelli, distinti ma strettamente interrelati uno con l’altro. Da un lato egli focalizzava un primo livello ontologico di coscienza, definendolo con il termine greco “anamnesi” — l’illustre teologo, ora Pontefice di Santa Romana Chiesa regnante come Benedetto XVI, ha preferito sostituire con questo termine quello medievale di sinderesi —, consistente nel “[…] fatto che è stato infuso in noi qualcosa di simile ad una originaria memoria del bene e del vero […]; che c’è una tendenza intima dell’essere dell’uomo, fatto a immagine di Dio, verso quanto a Dio è conforme” (16). Il card. Ratzinger ricordava a supporto del suo dire un brano del De Trinitate di sant’Agostino d’Ippona (354-430) secondo cui, fra tutti i beni, “[…] noi non potremmo dire che uno è migliore dell’altro […], se non fosse impressa in noi la nozione del bene stesso” (17). Da un altro lato lo stesso card. Ratzinger focalizzava un secondo livello della coscienza nella dimensione del giudicare e del decidere, come l’atto della ragion pratica, che giudica l’atto da compiere sulla base della conoscenza fondamentale del bene impressa nell’anima, nonché sulla base dell’esperienza e dell’educazione, tenendo conto delle circostanze specifiche con cui essa deve confrontarsi di volta in volta.
Non riuscire a comunicare con gli altri secondo la dimensione etica significa agire avendo cancellato dalla propria coscienza il ricordo, l’anamnesi, del bene impresso in noi da Dio. La colpa di chi commette un delitto in questo stato di coscienza non è tanto e soltanto nell’atto del momento, bensì nel processo che ha condotto alla cancellazione dalla coscienza del ricordo del bene.
Ma come può vivere l’uomo senza il ricordo del bene? È ancora un ente razionale colui che agisce avendo cancellato dalla sua coscienza il ricordo dell’essere e del bene?
Le patologie dell’anima sono quelle perversioni o disordini — chiamate dalla teologia morale “passioni sregolate” — del modo di esistenza dell’uomo nel suo rapporto con Dio, con se stesso, con gli altri e con la natura creata che lo conducono a cancellare il ricordo del bene impresso nella coscienza e ad agire contro il principio fondante della ragion pratica, alla cui stregua il bene deve essere fatto e il male evitato.
Ora, queste perversioni o disordini di tipo spirituale influiscono in modo rilevante sul funzionamento stesso della psiche e conseguentemente sui comportamenti umani, al punto che credo conveniente formulare la seguente tesi: la progressiva cancellazione dalla coscienza dell’anamnesi del bene impresso da Dio nell’anima conduce alla disgregazione della stessa coscienza psichica, alla frantumazione e alla scissione del funzionamento della psiche.
Nelle complesse e delicate relazioni fra le patologie spirituali e il funzionamento della psiche e nelle altrettanto complesse relazioni fra le patologie organiche e il funzionamento della psiche sta l’estrema difficoltà di distinguere fino in fondo nei casi giudiziari fra infermità mentale e perversione del carattere o della personalità. La prima, con l’effetto giuridico di escludere o di diminuire la responsabilità per l’atto compiuto; la seconda, che imporrebbe, secondo un orientamento incongruamente rigido, di mantenere intatta la totale responsabilità giuridica. Vero è, piuttosto, che fra patologia mentale e perversione del carattere o della personalità v’è un’interrelazione stretta, un reciproco influenzamento che non consente mai la formulazione di conclusioni nette e assolute.
Va tuttavia riconosciuto che, allo stesso modo in cui vi può essere una malattia mentale a fondamento organico, che produce l’abnormità del comportamento psichico, così vi può essere una malattia spirituale che, provocando lo sregolamento delle più diverse passioni al di fuori del controllo della ragione, produce danni irreversibili dello stesso funzionamento psichico. Le cause sono opposte: organica, in un caso; spirituale, nell’altro. Ma le conseguenze sono le medesime. Il patrologo, filosofo e teologo ortodosso francese Jean-Claude Larchet, in una serie di volumi ispirati alla spiritualità dei Padri orientali dei primi secoli della Chiesa (18), mostra, per un verso, l’effetto devastante delle passioni sregolate sullo psichismo umano, e, per un altro verso, l’analogia fra i sintomi e i disturbi della nosografia psichiatrica e i sintomi e i disturbi della nosografia spirituale. Per limitarci soltanto a qualche esempio, Larchet osserva che il carattere patogenetico dell’attitudine dell’orgoglio non è ignorato dalla psichiatria moderna, che l’ha tuttavia “[…] mutilata della sua dimensione morale e spirituale e la indica nella maggior parte dei casi come “sopravvalutazione” o “ipertrofia” dell’io” (19). Questa attitudine si presenta al più alto grado nella psicosi paranoica, ma è presente anche nella nevrosi isterica. Allo stesso modo quanto si è abituati a chiamare dopo Sigmund Freud (1856-1939) con il termine “narcisismo” “[…] corrisponde anche a questa passione, ma si collega ancora più strettamente alla “filautia”, l’amore passionale di sé stesso, che spesso ha come oggetto principale il corpo” (20). Ma anche altre patologie psichiche evocano gli effetti di passioni sregolate: le nevrosi fobiche, lo stato emotivo del timore; la nevrosi d’angoscia, lo stato emotivo della tristezza e del timore; la psicosi melanconica e le passioni dell’accidia e della tristezza nella sua forma estrema di disperazione (21).
San Tommaso d’Aquino, sviluppando le intuizioni di Aristotele, dopo aver distinto fra le infermità del corpo e quelle dell’anima, soggiunge che queste ultime sono di due tipi: quelle contro la ragione e quelle contro la natura (22). Nel primo caso la perversità dell’agire non fuoriesce dai limiti della natura umana. Nel secondo caso le passioni corrompono a tal punto l’equilibrio della persona, che si può dire che essa si apparenti al modo di essere di un animale, poiché l’uomo si comporta difformemente dalla disposizione specifica che connota la persona. Già Aristotele nell’Etica Nicomachea aveva trattato della “bestialità”, che caratterizza in qualche caso il comportamento dell’uomo, traente talora origine dalla costituzione della persona, talaltra da stati morbosi provocati o da infermità fisica o da costumi contrari alla natura, contratti specialmente durante l’infanzia e che hanno deturpato lo sviluppo del carattere (23).
San Tommaso, commentando l’Etica di Aristotele, individua tre possibili cause della “bestialità”: la mancanza di leggi adeguate, che favoriscono i costumi perversi; le infermità o i grandi traumi affettivi, che possono provocare la demenza; il progresso nella malizia, che può condurre a comportamenti bestiali contro natura. Tutti i disturbi definiti come “bestiali”, aventi genesi nel comportamento abnorme, sono indicati da san Tommaso come “aegritudo animalis”, che può essere tradotto con l’espressione “malattia psichica”: “un disordine della vita sensitiva interiore e dell’affettività con genesi nell’anima, in quanto è causato dalle cattive abitudini”, secondo la precisa definizione formulata dallo psicologo spagnolo Martín Federico Echavarria, dell’Universitat Abat Oliba CEU, di Barcelona (24).
I vizi contro natura, sempre secondo San Tommaso, sono contrari non soltanto alla ragione, che individua l’elemento differenziale specifico fra l’uomo e l’animale, bensì addirittura alla naturalità dell’animale, che costituisce il carattere di genere comune fra l’uomo e l’animale. Onde, secondo Echavarria, con il concetto di aegritudo animalis, s’identifica non soltanto un’infermità dell’anima, bensì, più precisamente, l’infermità della dimensione “animale” dell’anima umana, che si definisce oggi come “psiche” (25). Sussiste, infatti, secondo san Tommaso d’Aquino, una “insania secundum animam”, che insorge quando l’anima dell’uomo si estranea alla disposizione che caratterizza la specie umana; colui che ha smarrito la naturale inclinazione affettiva verso gli altri e si è vestito di una aggressività antinaturale e sadica contro i suoi simili, costui è un insano nell’anima: “Insania dice negazione di sanità [non sanitas]. Ora, come la sanità corporale viene distrutta dal fatto che il corpo perde la complessione dovuta alla specie umana, così l’insania spirituale dipende dal fatto che l’anima umana perde le disposizioni proprie della specie umana. E questo può avvenire e riguardo alla ragione, come quando uno perde l’uso di essa; oppure riguardo alla potenza appetitiva, come quando uno perde l’affetto umano per cui “un uomo naturalmente ama l’altro uomo”, secondo l’espressione di Aristotele” (26). Come profondamente annota Echavarria, questi disordini di tipo bestiale, mostruoso, efferato, si distinguono dai comuni vizi umani perché rivelano non soltanto una disposizione affettiva contraria alla retta ragione, ma altresì perché la loro materia “[…] non corrisponde a quella che è naturale per l’ appetito dell’uomo, perciò è contro natura“ (27). Ciò che definisce questi contegni è il loro carattere inumano e contronaturale. Il che li colloca ben al di là del vizio ordinario, che esprime un disordine della ragione, come esagerazione, per difetto o per eccesso, di una tendenza pur sempre naturale (28).
4. Conclusione
La tesi esposta è pregna di rilevanti conseguenze pratiche anche sul piano giuridico.
Non posso soffermarmi su quelle che ne derivano sul piano pastorale e su quello medico-terapeutico, salvo osservare che, sul piano medico, va abbandonato il riduzionismo scientista che pretende di curare le malattie mentali agendo soltanto contro le cause somatiche o i sintomi psichici. Infatti, pur essendo necessario promuovere tutto ciò che può costituire un sollievo sul piano fisio-psichico, occorre che la cura sia integrata con una amorevole e rispettosa attenzione verso la persona, cercando, in ogni caso, di curarla nella sua essenza integrale di composto di anima e di corpo, nella consapevolezza che all’interno dell’uomo vi è una parte migliore e una parte peggiore, che vi è una permanente guerra fra queste due parti e che non è indifferente la scelta della terapia affinché vinca la parte migliore.
Sul piano giuridico scaturiscono dalla tesi esposta due regole pratiche apparentemente contraddittorie fra loro, ma, nella realtà, convergenti nel proporre il rispetto della persona come ente libero e responsabile, nella cui coscienza è impresso in modo indelebile, nonostante gli sforzi di cancellazione che la libertà sregolata può aver comportato, il ricordo del vero e del bene.
La prima regola consiste nell’attribuire il dovuto rispetto, nella valutazione della capacità del soggetto, al principio di responsabilità contro il principio di irresponsabilità. La mostruosità dell’atto criminale, la sua antinaturalità, la sua incomprensibilità secondo le categorie del ragionamento ordinario non costituiscono motivo sufficiente per escludere la colpevolezza dell’autore. Come ha insegnato l’antropologia dell’epoca classica e cristiana, la “bestialità” è lo stato cui approda l’anima frantumata, che ha smarrito l’anamnesi del bene a cagione di leggi aberranti, di costumi barbari e perversi, di mai raffrenate sollecitazioni mediatiche, del capitalizzarsi insaziabile in interiore hominis della passione dell’orgoglio e di tutte le altre passioni che a questa fanno corteggio. Il più sottile e colpevole incoraggiamento a coloro che sono incamminati sulla via della “bestialità” sta proprio nel lavarsi le mani del problema che li riguarda, giustificandoli per l’insania, senza approfondire le cause che l’hanno provocata. Così, se non vi sia la certezza di un “valore di malattia” dell’atto compiuto, nel senso di atto che corrisponde a un funzionamento abnorme dell’attività psichica coerente — altri direbbe legata da un nesso eziologico — con una patologia mentale dimostrata, la persona va ritenuta responsabile e non irresponsabile. Ciò non significa violare il principio in dubio pro reo, bensì trattare l’uomo, fino a prova del contrario, come uomo, cioè come dotato di una coscienza in grado di ricordare la voce del bene e di decidere conformemente al suo richiamo. E se è vero che le malattie spirituali tendono a cancellare il ricordo di questa voce nell’anima, è anche vero, per un verso, che questo ricordo non può essere cancellato fino al punto di non lasciare più alcuna traccia, e che, per un altro verso, l’uomo è responsabile anche per la colpa di aver volontariamente obnubilato la voce della coscienza.
La seconda regola, apparentemente opposta alla prima, ma nella realtà a essa complementare, consiste nel dare rilievo, in senso attenuativo della responsabilità, a tutte le situazioni che hanno effettivamente perturbato e condizionato l’esercizio della libertà, inducendo e sospingendo all’atto delittuoso, anche se ciò è avvenuto per una colpa pregressa, ponendo realmente al centro del diritto penale la nozione di colpevolezza, con tutte le implicazioni pratiche che essa comporta. Invero, anche le malattie spirituali sono malattie; anch’esse disturbano il funzionamento psichico; anch’esse sono suscettibili di cura. Anche a coloro che agiscono delittuosamente in forza di una coscienza psichica dilacerata dalla cancellazione — rectius: quasi cancellazione — della coscienza morale, è giusto e opportuno offrire i mezzi e le possibilità per la propria auto-riabilitazione, possibile una volta che essi si pongano in ascolto della voce della coscienza.
In ogni caso, e comunque, una lezione preziosa deve valere per tutti: l’autonomia della persona, che sta al centro dell’universo della giuridicità (29), non è acquisizione definitiva, immodificabile, di cui ci si possa vantare per comportarsi alla stregua di ciò che contingentemente aggrada, bensì un dono prezioso che ciascuno deve assumere come compito arduo per la vittoria in se stesso della parte migliore e per l’edificazione di una società a misura della dignità umana, in adesione al progetto di Dio sull’uomo.
Mauro Ronco
Note:
(1) Cfr. Ugo Fornari, Trattato di psichiatria forense, UTET, Torino 2004, pp. 118-129. Il concetto “valore di malattia” dell’atto criminale rinvia a una duplice presupposizione, di livello diverso. Anzitutto occorre l’inquadramento diagnostico della persona che ha agito, tale da soddisfare criteri diagnostici condivisi e resi confrontabili attraverso i manuali statistici più accreditati negli ambienti specializzati. Oggi godono di particolare autorità i protocolli DSM-IV o ICD-10. In secondo luogo occorre esplorare il funzionamento della persona, passando dal “che cosa ha” al “chi è”, ovvero passando dal criterio psicopatologico, attinente all’individuazione del o dei disturbi psichici in atto, a quello dinamico-strutturale, verificando la loro incidenza sul funzionamento dell’Io. In questo modo si cerca di riscoprire la persona come un tutto unitario, per rispondere concretamente alla domanda se essa era in grado di prendere una decisione adeguata ovvero se la sua capacità era compromessa ed eventualmente in quale misura. Il DSM-IV-TR è il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, redatto a cura dell’American Psychiatric Association, pervenuto nel 2001 alla IV edizione, e del quale cfr. l’edizione italiana: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, a cura di Vittorino Andreoli, Giovanni Battista Cassano e Romoli Rossi, Masson, Milano 2002. L’ICD-10 è la Decima Revisione della Classificazione Internazionale delle Malattie e dei Problemi di Salute Correlati (cfr. ibid., pp. 29-40).
(2) Cfr. Daniel Hell, Sind psychische Störungen ausschließlich Hirnkrankheiten? [I disturbi psichici sono esclusivamente malattie del cervello?], in Günter Rager (a cura di), Ich und mein Gehirn. Persönliches Erleben, verantwortliches Handeln und objective Wissenschaft [Io e il mio cervello. Vissuto personale, agire responsabile e scienza oggettiva], Verlag Karl Alberg, Friburgo in Brisgovia-Monaco di Baviera 2000, pp. 139-160, in particolare p. 142.
(3) Cfr. ibid., p. 142.
(4) Cfr. ibid., p. 143.
(5) Cfr. ibid., p. 160.
(6) Cfr. G. Rager, Hirnforschung und die Frage nach dem Ich [Ricerca sul cervello e la questione dell’Io], in Idem (a cura di), op. cit., pp. 49-50.
(7) San Gregorio di Nissa, L’uomo, 12, trad. it., introduzione e note a cura di Bruno Salmona, Città Nuova, Roma 1991, p. 61.
(8) “[…] animam in corpore constitutam contingit pati dupliciter: uno modo, passione corporali; alio modo, passione animali. Passione quidem corporali patitur per corporis laesionem. Cum enim anima sit forma corporis, consequens est quod unum sit esse animae et corporis: et ideo, corpore perturbato per aliquam corpoream passionem, necesse est quod anima per accidens perturbetur, scilicet quantum ad esse quod habet in corpore” (san Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, questione 15, a. 4, traduzione e commento a cura dei domenicani italiani, La Somma Teologica, testo latino dell’edizione leonina, vol. XXIV, L’Incarnazione: b) difetti assunti e implicanze [III, qq. 14-26], Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984, pp. 54-55).
(9) Cfr. la storia dell’intero processo e il puntuale riferimento alle varie perizie psichiatriche, in U. Fornari e Ivan Galliani, Il caso giudiziario di Gianfranco Stevanin, Centro Scientifico Editore, Torino 2003.
(10) Cfr. il testo in U. Fornari e I. Galliani, op. cit., p. 225.
(11) Otto F. Kernberg, Aggressività, disturbi della personalità e perversioni, trad. it., Cortina, Milano 1993; e Jean Bergeret, Clinica, teoria e tecnica, trad. it., Cortina, Milano 1990.
(12) Cfr. il testo in U. Fornari e I. Galliani, op. cit., p. 179.
(13) Ibidem.
(14) Ibidem.
(15) Cfr. card. Joseph Ratzinger, La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, trad. it., Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1991, pp. 113-137.
(16) Ibid., p. 130.
(17) Sant’Agostino, De Trinitate, libro VIII, 3, 4, trad. it., La Trinità, testo latino dell’edizione maurina confrontato con l’edizione del Corpus Christianorum, con introduzione di Agostino Trapè O.S.A. (1915-1987) e Michele Federico Sciacca (1908-1975), Città Nuova, Roma 1987, p. 333.
(18) Cfr., in italiano, Jean-Claude Larchet, Teologia della malattia, Queriniana, Brescia 1993; e Idem, Terapia delle malattie spirituali. Un’introduzione alla tradizione ascetica della Chiesa ortodossa, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2003; cfr. pure Idem, San Silvano del Monte Athos, Qiqajon, Magnano (Biella) 2004.
(19) Idem, Thérapeutique des maladies mentales. L’expérience de l’Orient chrétien des premiers siècles, Les Éditions du Cerf, Parigi 1992, p. 99; sul rapporto fra virtù morali e salute psico-fisica, cfr. anche Mario Di Fiorino ed Ermanno Pavesi, Le virtù come fattore di equilibrio psico-fisico, in E. Pavesi (a cura di), Salute e salvezza. Prospettive interdisciplinari, Di Giovanni Editore, San Giuliano Milanese (Milano) 1994, pp. 79-90.
(20) J.-C. Larchet, Thérapeutique des maladies mentales. L’expérience de l’Orient chrétien des premiers siècles, cit., pp. 99-100.
(21) Cfr. ibid., p. 100.
(22) Cfr. l’intera problematica e l’approfondito esame dell’insegnamento di san Tommaso d’Aquino e di Aristotele, in Martín Federico Echavarría, Santo Tomás y la enfermedad psíquica, in Actas de las jornadas de psicología y pensamiento cristiano. Bases para una psicología cristiana. 27 y 28 de agosto de 2004. Facultad de Filosofía y Letras. Pontificia Universidad Católica Argentina, Editorial de la Universidad Católica Argentina, Buenos Aires 2005, pp. 31-50.
(23) Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, libro settimo, 1148 b, 19-27, trad. it., in Idem, Etiche. Etica Eudomea. Etica Nicomachea. Grande Etica, a cura di Lucia Caiani, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1996, pp. 187-496 (pp. 379-380).
(24) M. F. Echavarría, art. cit., p. 42.
(25) Cfr. ibid., p. 44.
(26) “[…] insania dicitur per corruptionem sanitatis. Sicut autem sanitas corporalis corrumpitur per hoc quod corpus recedit a debita complexione hamanae speciei, ita etiam insania secundum animam accipitur per hoc quod anima humana recedit a debita dispositione humanae speciei. Quod quidem contingit et secundum rationem, puta cum aliquis usum rationis amittit: et quantum ad vim appetitivam, puta cum aliquis amittit affectum humanum, secondum quem “homo naturaliter est omni homini amicus”, ut dicitur in VIII Ethic.” (san Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, questione 157, a. 3, traduzione e commento a cura dei domenicani italiani, La Somma Teologica, cit., vol. XXI. La temperanza [II-II, qq. 141-170], Bologna 1984, pp. 320-321).
(27) M. F. Echavarría, art. cit., p. 45.
(28) Cfr. ibidem.
(29) Cfr. Francesco Gentile, Ordinamento giuridico. Tra virtualità e realtà, CEDAM, Padova 2001, in particolare pp. 39-47, dove sottolinea il significato cruciale dell’autonomia della persona nell’esperienza giuridica.