Mauro Ronco, Cristianità n. 341-342 (2007)
1. Premessa
Mi propongo in questo scritto di approfondire il tema dell’indisponibilità della vita umana, che una tendenza culturale, etica e giuridica quasi dominante nel mondo occidentale mette sempre più in discussione, proponendo l’abrogazione delle norme penali che vietano l’aiuto e l’assistenza al suicidio, nonché, più radicalmente ancora, di quelle che vietano di uccidere direttamente e intenzionalmente il malato che ne abbia fatto richiesta, con la conseguente “legalizzazione” dell’eutanasia (1).
Nell’esaminare le radici del diffondersi di questa tendenza vengono in considerazione soprattutto le concezioni individualistiche e anarchiche della libertà, che la distaccano dal rapporto costitutivo con la verità, nonché l’identificazione della dignità dell’uomo in una qualità della vita determinata secondo standard utilitaristici ed edonistici (2). Queste radici filosofiche si sono insinuate nell’etica e nel diritto, inquinando il fondamentale principio del consenso informato del paziente ai trattamenti medici.
È stato così assolutizzato il principio di autonomia, che costituisce tradizionalmente, insieme con i principi di beneficità — comprendente come suo presupposto il “primum non nocere” (3) — e di giustizia, uno dei criteri utili per assumere la decisione giusta circa le cure da praticarsi nelle fasi terminali della vita.
In questo quadro oscuro, in cui rischia di lacerarsi il tessuto giuridico che protegge la vita umana, il principio di autonomia viene ulteriormente esasperato. Affiora così con sempre maggiore frequenza nelle legislazioni l’istituto, di origine anglosassone, del Living Will — denominato talora come “direttive o dichiarazioni anticipate di trattamento”, talora “come testamento biologico” —, in cui sono insite ambiguità inemendabili e che rischia di favorire l’accettazione sociale e giuridica dell’aiuto al suicidio e dell’omicidio della persona consenziente (4).
Occorre, pertanto, in un rinnovato sforzo di comprensione, riesaminare il problema del diritto alla vita e alla salute, distinguendo accuratamente il modello dell’“alleanza terapeutica” (5) fra medico e paziente, che intende valorizzare umanisticamente la dignità della persona umana, dal modello individualistico e contrattualistico della medicina, che tende purtroppo a imporsi nell’esperienza contemporanea.
2. L’indisponibilità della vita
Occorre oggi riaffermare con forza il principio dell’indisponibilità della vita, pervicacemente contestato da un’erronea visione soggettivista e individualista della libertà, che interpreta i delitti contro la vita in guisa di legittime aspirazioni che dovrebbero essere riconosciute e protette come veri e propri “diritti”.
Papa Giovanni Paolo II ha trattato magistralmente il tema nell’enciclica Evangelium Vitae. Rispondendo al quesito ove stiano le radici della paradossale contraddizione fra le varie dichiarazioni dei diritti dell’uomo e la tragica e diffusa “legittimazione” degli attentati alla vita umana, il Pontefice ha focalizzato tre distinti nodi concettuali, implicanti valutazioni globali di ordine culturale, morale e giuridico, che spiegano la contraddizione fra le proclamazioni astratte e le condotte concrete.
Il primo nodo concerne il diffondersi di “[…] quella mentalità che, esasperando e perfino deformando il concetto di soggettività, riconosce come titolare di diritti solo chi si presenta con piena o almeno incipiente autonomia ed esce da condizioni di totale dipendenza dagli altri” (6). Il secondo riguarda “[…] una concezione della libertà che esalta in modo assoluto il singolo individuo, e non lo dispone alla solidarietà, alla piena accoglienza e al servizio dell’altro” (7). A un livello ancora più profondo, la “cultura di morte” (8) trova la sua radice in una concezione della libertà che “[…] non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità“ (9).
L’indisponibilità della vita è una verità oggettiva e comune, il cui misconoscimento deforma in modo profondo la convivenza sociale. Prosegue Papa Giovanni Paolo II nell’Evangelium Vitae: “Se la promozione del proprio io è intesa in termini di autonomia assoluta, inevitabilmente si giunge alla negazione dell’altro, sentito come un nemico da cui difendersi. In questo modo la società diventa un insieme di individui posti l’uno accanto all’altro, ma senza legami reciproci: ciascuno vuole affermarsi indipendentemente dall’altro, anzi vuol far prevalere i suoi interessi” (10).
Va detto, anzitutto, che il principio dell’indisponibilità della vita non è soltanto il corollario di una visione religiosa (11), secondo cui l’uomo non dispone della vita e della morte, poiché la vita è dono di Dio, e non spetta all’uomo dare o togliere ciò che non è, in definitiva, esclusivamente “suo”, ma è anche il fondamento indispensabile di una convivenza civile istituita fra persone libere e uguali (12). All’etica basata sulla sacralità della vita si contrappone oggi un’etica secolare, che “[…] si propone di sostituire il concetto di sacro con quello di qualità della vita, intesa come un insieme di parametri che consentirebbero di stabilire il reale valore di ogni vita umana” (13).
Autorizzando l’uccisione della persona innocente e costituendo in “diritto” il suicidio (14), l’ordinamento giuridico smarrirebbe la sua più profonda ragione d’essere, che sta nella tutela della persona umana dalla violenza aggressiva e distruttiva, che alberga come tentazione perenne nel cuore dell’uomo decaduto (15). Il diritto non è costituito nel suo fondamento da un precetto eteronomo, che vieta e comanda indifferentemente questa o quella condotta, e che s’impone dall’esterno alla volontà, bensì da una verità oggettiva che la coscienza dell’uomo guadagna con la ragione come regola valida per la promozione del bene a tutti comune e la volontà spontaneamente attua alla sequela del dettame della ragione.
Per questo motivo, una vera norma giuridica (16), conforme alla natura razionale dell’uomo, vige non soltanto come precetto di condotta da osservarsi nei confronti degli altri, bensì anche, prima e soprattutto, nei confronti di sé stesso. Il divieto di uccidere scolorirebbe come qualcosa di relativo, se concernesse soltanto l’uccisione degli altri e non di sé stesso. Non scaturirebbe dal precetto di Non uccidere un’autorità razionalmente cogente, tale da indurre a non uccidere gli altri, se il divieto non riguardasse, principalmente e fondamentalmente, l’uccisione di sé stesso. Se si differenziasse il sé stesso dagli altri, la forza del divieto starebbe soltanto nel timore della sanzione, statuita dalla legge positiva in via di compromesso per evitare che il potere assoluto di uno venga in guerra con il potere assoluto degli altri (17). La forza del divieto sta, invece, nel riconoscimento della vita come bene posto a fondamento di tutti gli altri, ivi compreso quello della convivenza sociale. Se si pensasse diversamente, verrebbe meno il riferimento a un principio a tutti comune e la convivenza sociale si avventurerebbe, come insegna Papa Giovanni Paolo II in un passo dell’Evangelium Vitae “nelle sabbie mobili di un relativismo totale” (18), ove “[…] tutto è convenzionabile, tutto è negoziabile: anche il primo dei diritti fondamentali, quello alla vita” (19).
Riconoscere come “diritto” la richiesta di essere uccisi significherebbe considerare “convenzionabile” e “negoziabile” il diritto alla vita. La base del diritto non starebbe nell’autorità granitica del giudizio pronunciato dalla ragione, comune a tutti gli uomini, bensì nel mutevole contenuto della legge dello Stato, dipendente dal compromesso fra volontà indipendenti le une dalle altre.
Occorre, in secondo luogo, rilevare che il riconoscimento dell’eutanasia e dell’aiuto al suicidio come “diritti” di libertà, annienterebbe l’ordinamento giuridico nella sua intrinseca natura di criterio ordinatore dell’esercizio della libertà degli uni rispetto a quella degli altri, nella condivisione dell’esistenza di spazi sottratti alla libertà senza legge di ciascuno. Ciò costituisce, peraltro, la base indispensabile di una democrazia ben intesa.
La decisione eutanasica e l’aiuto al suicidio si collocano, infatti, all’interno di una relazione intersoggettiva in cui al “diritto” dell’uno corrisponderebbe il “dovere” del medico, o di qualcun altro, di uccidere. Non corrisponde al vero, dunque, che l’eutanasia e l’aiuto al suicidio restino confinati alla sfera soggettiva di coloro che rifiutano la vita, senza incidere sulla libertà degli altri. Anche gli “altri” sono coinvolti nelle decisioni eutanasiche o suicidiarie, perché esse richiedono, per la logica loro intrinseca, un atto non soltanto materiale, ma di piena compartecipazione morale di una terza persona.
Infine, la “legalizzazione” dell’eutanasia e dell’aiuto al suicidio non rispetta il principio di uguaglianza di tutti gli uomini — infanti, adulti, vecchi, sani, ammalati — come fondamento dell’ordinamento giuridico. Se il divieto di uccidere sopportasse delle eccezioni, coloro che vengono a trovarsi nella sfera di operatività delle eccezioni non sarebbero giuridicamente uguali agli altri, perchè non fruirebbero di una tutela incondizionata.
La radicale disuguaglianza giuridica fra gli uomini avrebbe una ricaduta psicologica e sociologica di enorme rilievo. Se l’eutanasia fosse una soluzione socialmente adeguata per risolvere il problema della malattia, la volontà di continuare a vivere, nonostante la malattia, rischierebbe di diventare, sul piano psicologico e sociologico, qualcosa di socialmente inadeguato. L’insicurezza della vita caratterizzerebbe, allo stesso modo dello stato di natura descritto da Thomas Hobbes (20), il vivere anarchico di “[…] un insieme di individui posti l’uno accanto all’altro, ma senza legami reciproci” (21), ove “[…] ciascuno vuole affermarsi indipendentemente dall’altro, anzi vuol far prevalere i suoi interessi” (22).
3. Il movimento per “l’autonomia” versus la “legalizzazione” dell’eutanasia e del suicidio assistito
Nei processi decisionali di fine vita, quando l’operatore deve decidere se erogare o non erogare, ovvero mantenere o interrompere trattamenti aggressivi e invasivi, occorre che egli tenga conto delle norme deontologiche e dei riferimenti normativi dell’ordinamento giuridico, lasciandosi altresì guidare dai risultati della riflessione bioetica, alla luce dei suoi princìpi orientatori, di beneficità, di autonomia e di giustizia (23).
Sotto la forte spinta di un mo-vimento, nato all’esterno del campo medico almeno dall’inizio degli anni 1970, il principio di autonomia è diventato, soprattutto nella riflessione bioetica degli autori di area anglosassone, il principio etico dominante, offuscando gli altri principi bioetici e impedendo un approccio equilibrato alle varie problematiche poste dalla malattia, soprattutto di quella pervenuta allo stadio terminale (24).
Il movimento autonomistico assume come punto di partenza il “diritto” del singolo di disporre di sé e della propria vita in modo assoluto, con il solo limite del danno agli altri. Nato sul piano filosofico, come espressione dell’intreccio fra la concezione assoluta della libertà individuale e l’identificazione della dignità personale con la capacità di comunicazione verbale ed esplicita e, comunque, sperimentabile (25), questo movimento ha guadagnato l’ambito giuridico, rivendicando il “diritto” del singolo al rifiuto di qualsiasi trattamento proposto dal medico e, financo, del “diritto” al rifiuto dell’idratazione e dell’alimentazione, con la correlativa pretesa del malato, in questi ultimi casi, di fruire di un trattamento sedativo della coscienza, allo scopo di sottrarsi alle estenuanti sofferenze della morte lenta per sete e per fame.
Il principio autonomistico ha conosciuto un’impressionante evoluzione, tanto che, nel corso degli anni 1990, soprattutto negli Stati Uniti d’America, si è passati dalla semplice affermazione del “diritto” negativo di rifiutare l’intervento medico al “diritto” positivo di dettare direttamente le scelte trattamentali. Il paziente avrebbe così “diritto” al compimento, da parte del medico, di qualsivoglia trattamento, anche se questo fosse da giudicarsi oggettivamente “futile” secondo la migliore scienza ed esperienza disponibili (26).
La rivendicazione dell’assoluta autonomia del malato, in considerazione del fatto che nella gran parte delle patologie in fase terminale l’individuo non è più in grado di partecipare al processo decisionale, sollecita la messa a punto di strumenti giuridici atti a consentire al soggetto di dettare disposizioni, ora che è capace, per quando eventualmente sarà incapace, il cui modello tipico è costituito dalle direttive anticipate.
Il movimento per l’assoluta autonomia, esasperando incongruamente la libertà di autodeterminazione e cancellando il principio di beneficità, non si è arrestato a richiedere il riconoscimento giuridico del rifiuto dei trattamenti e l’introduzione delle direttive anticipate, ma ha operato — e opera — a favore della “legalizzazione” dell’eutanasia e dell’aiuto al suicidio, come approdo conclusivo del percorso filosofico/etico/giuridico che considera la vita come bene disponibile.
L’itinerario dall’autonomia all’eutanasia è delineato chiaramente nel Documento sulle cure palliative e sull’eutanasia approvato nel 2000 dal Consiglio Direttivo della Consulta di Bioetica (27), ove è scritto che il movimento autonomistico “[…] ha guadagnato l’ambito giuridico, attraverso il sempre più diffuso riconoscimento del diritto al rifiuto dei trattamenti proposti dal medico. In considerazione, poi, del fatto che in molte malattie in fase terminale l’individuo può perdere la sua autonomia e perciò non essere più in grado di partecipare al processo decisionale, negli ultimi tre decenni il movimento ha ottenuto la messa a punto di speciali strumenti giuridici (le direttive anticipate) che consentono al (futuro) malato di dare disposizioni, generalmente di segno negativo, quanto ai trattamenti da applicare nelle fasi terminali.
“[…] Il rifiuto dei trattamenti e la formulazione di direttive anticipate non esauriscono però la gamma di proposte del movimento per l’autonomia del malato. Le rivendicazioni più forti — e anche più problematiche — avanzate dal movimento sono la legalizzazione o la depenalizzazione dell’eutanasia volontaria e quella dell’assistenza al suicidio. In effetti, se il principio di rispetto per l’autonomia viene preso sul serio, vale a dire se si riconosce a questo principio una priorità rispetto agli altri, non vi sono ragioni di principio che si possano opporre a queste richieste, ma semmai solo ragioni di prudenza”.
La Consulta di Bioetica si è fatta sostenitrice della “legalizzazione” dell’eutanasia sin dal 1993 (28) con il rilievo secondo cui, “in una società secolarizzata”, in cui sono presenti “prospettive pienamente legittime diverse dalla concezione della sacralità umana o della vita da intendersi come dono divino […] consegue che all’individuo deve essere riconosciuta la facoltà di por fine ai propri giorni con il suicidio o di chiedere di essere aiutato a morire ove si trovi in situazioni di incapacità e di insopportabile sofferenza e perdita di dignità”. Sul piano dell’ordinamento giuridico europeo, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha escluso, con la sentenza del 29 aprile 2002, che il principio di autonomia possa legittimare il “diritto” al suicidio assistito. Interpretando l’articolo 2 della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (29) — che proclama il diritto alla vita, statuendo che “il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge” —, la Corte ha escluso che tale diritto possa implicare un profilo negativo e ha ritenuto che l’articolo 2 non possa conferire un diritto “diametralmente opposto” a quello solennemente proclamato, a meno di compiere una “distorsione di linguaggio”. Onde un preteso diritto di morire non è espressione del diritto alla vita, poiché ne costituisce la negazione. Né dall’articolo 2 può farsi discendere un diritto all’autodeterminazione tale da consentire a ciascuno di optare per la morte e non per la vita (30).
Pur non essendo necessariamente eutanasico, tuttavia il modello giuridico delle direttive anticipate costituisce storicamente la tappa intermedia dell’itinerario intenzionalmente predisposto da chi opera per la “legalizzazione” dell’eutanasia e del suicidio assistito, che sfocia logicamente in tali esiti.
Non devono certo negarsi sia la validità sia l’utilità di regole che attribuiscano rilievo giuridico ai desideri e alle aspirazioni espresse dalla persona in previsione del momento in cui eventualmente sarà incapace, circa il rifiuto delle terapie straordinarie, allo scopo di evitare ogni accanimento terapeutico (31). Tener conto dei desideri precedentemente espressi dal malato, come ben recita la Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina (32) all’articolo 9, costituisce un dovere del medico nelle scelte terminali di vita. Dialogare con il malato e assumere decisioni che corrispondano al suo piano di vita esprime il doveroso e pieno rispetto della sua dignità, tanto più importante nel momento in cui egli non è più in grado di far valere direttamente la sua volontà. Ciò è espressione del rispetto che il soggetto più forte nella relazione intersoggettiva deve serbare nei confronti di chi, isolato da tutti, si rivela nella sua nuda fragilità, impossibilitato persino a comunicare con il suo interlocutore. Il Codice di Deontologia Medica, approvato dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri nel 2006 (33), richiama espressamente i curanti, sulla falsariga dell’articolo 9 della Convenzione di Oviedo, all’obbligo di “[…] tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato” (articolo 38, ultimo comma) dal paziente “in modo certo e documentato” (ibidem).
- 4. Il movimento per l’autonomia fra abbandono e accanimento terapeutico
Il movimento per l’assoluta autonomia, che pretende di attribuire al singolo il “diritto” di vita e di morte, trova alimento nel rifiuto del processo naturale della morte, che induce a due atteggiamenti irrealistici di segno opposto. Il primo sopravvaluta il potere della scienza e della pratica medica allo scopo di procrastinare il momento finale della vita. Il secondo, allo scopo di cancellare dall’orizzonte esperienziale il processo naturale del morire, pretende di anticiparne il momento, che si vorrebbe provocare artificialmente non appena la vita non può essere più vissuta secondo standard di qualità fissati alla luce di criteri utilitaristici ed edonistici. Una pretesa siffatta si avvale dei mezzi della medicina, secondo fini contrari, però, alla sua natura e alla sua intrinseca finalità.
Anche su questo punto l’enciclica Evangelium Vitae contiene alcune preziose annotazioni. Papa Giovanni Paolo II rileva che, nel contesto della società secolarizzata, anche in conseguenza dei progressi della medicina, l’esperienza del morire presenta alcune caratteristiche di novità rispetto al passato: “infatti — insegna il Pontefice — quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo. La morte, considerata “assurda” se interrompe improvvisamente una vita ancora aperta a un futuro ricco di possibili esperienze interessanti, diventa invece una “liberazione rivendicata” quando l’esistenza è ormai ritenuta priva di senso perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un’ulteriore più acuta sofferenza” (34).
Il rifiuto del processo naturale verso la morte è caratterizzato da una ybris dell’intelligenza, che sfocia in una volontà di potenza, intenzionalmente sovvertitrice della realtà, quasi che l’uomo potesse sottrarsi alla sua essenziale finitudine. Dal rifiuto della condizione umana sgorgano due atteggiamenti opposti quanto agli effetti: l’idolatria della salute, per un verso, e la liberazione dalla vita, per un altro verso, quando la salute più non possa essere piena e totale, soddisfacente secondo standard socialmente accettati.
Questi atteggiamenti di fronte al processo della corruzione fisica e psichica non afferiscono soltanto alla valutazione della vita nelle sue fasi terminali, quando ormai la patologia si è sviluppata fino a rendere tenuissimo il filo dell’esistenza, ma anche alla valutazione di fasi della vita di gran lunga antecedenti, proponendo un salutismo e un efficientismo fisico esasperati, che impediscono l’equilibrato sviluppo della personalità. Lo sguardo va alla pretesa di conservare a tutti i costi determinate funzionalità o determinati aspetti esteriori del corpo. In molti snodi dell’attuale pratica medica si è insinuato un accanimento pseudo-terapeutico che vuole sconvolgere i ritmi naturali cui è soggetta l’esistenza fisica dell’uomo e della donna. La chirurgia estetica si presenta come una forma di accanimento medico per sostituire un’età artificiale all’età anagrafica. La stimolazione farmacologica dell’attività sessuale maschile; la protrazione della funzionalità riproduttiva della donna attraverso la posticipazione della menopausa o, inversamente, la cancellazione anticipata del ciclo mestruale allo scopo di eliminare i “disturbi” a esso ricollegabili, sono soltanto alcuni esempi di un accanimento medico sul corpo che pretende di sostituire alle leggi della natura gli artifici costruiti dal potere che la scienza rivendica sulla natura. Tale accanimento pseudo-medico, praticato allo scopo d’invertire, o almeno di ritardare, gli effetti dello scorrere del tempo, ha l’obiettivo di garantire una determinata qualità di vita, parametrata all’esigenza che il corpo sia in grado di fornire una serie di prestazioni integranti un livello socialmente accettabile di esistenza. Quando, poi, l’accanimento pseudo-medico non è più in grado di assicurare tale livello, l’atteggiamento manipolativo si rovescia nel suggerire, o addirittura nel pretendere, la cessazione delle cure e degl’interventi.
Manfred Lütz, primario di Psichiatria all’Alexianer Krankenhaus — l’ospedale gestito a Colonia, in Germania, dai Fratelli Celliti o Alessiani — ha messo in luce che tali atteggiamenti corrispondono a una “visione dell’uomo” (35), oggi progressivamente dominante, che si potrebbe chiamare la “religione della salute” (36). La salvezza e la redenzione non sono più attese in un “qualche “al di là”” (37), “ma qui ed ora” (38). Alle “escatologie collettive immanenti come il marxismo-leninismo” (39) si sono sostituite “le escatologie individuali immanenti che si propongono all’uomo e raccolgono un successo incomparabilmente maggiore rispetto alle vecchie visioni del mondo” (40), per cui “si aspetta quantitativamente la vita eterna dalla medicina e qualitativamente l’eterna felicità dalla psicoterapia” (41).
Le conseguenze etiche e giuridiche della religione della salute sono inquietanti. Se la salute rappresenta il valore assoluto, e se bisogna fare qualsiasi sforzo per mantenere il più alto livello di efficienza salutista “[…] allora — osserva ancora Lütz — l’uomo sano è anche il vero uomo. E se qualcuno non è sano, e soprattutto, se non può ritornare sano, allora diventa tacitamente un uomo di seconda o terza classe” (42). Il messaggio indiretto, ma non perciò meno efficace, che scaturisce dalla religione della salute “[…] è che l’inguaribile, il malato cronico, il portatore di handicap, vengono spinti nell’ombra, per loro c’è posto solo ai margini della società salutista” (43). Alla generalità dei cittadini e ai malati viene sottilmente inoculata l’idea “[…] che lo stesso individuo “certamente non vuole vivere così” e che pertanto a queste persone si deve riconoscere “il diritto a una buona morte”, l’eutanasia” (44).
Il rifiuto della finitudine dell’uomo genera così un corto circuito che si consuma nell’alternativa fra accanimento e abbandono terapeutico, con il conseguente allontanamento dalla via ragionevole della condivisa accettazione della patologia verso il suo esito naturale, nella pratica di tutte le cure ordinarie, anche di tipo palliativo (45), atte a lenire la sofferenza, affinché il malato sia accompagnato con dignità alla fine e al Fine della sua vita.
Accanimento terapeutico e rifiuto delle cure ordinarie sono due facce di una stessa medaglia, la cui cifra etica e giuridica è il falso postulato dell’onnipotenza dell’uomo sulla natura e sulla vita.
5. Assolutizzazione del principio autonomistico e inquinamento del rapporto paziente/medico
Quando l’autonomia diventa esclusiva, a scapito della composizione bilanciata di tutti i princìpi bioetici per una decisione rivolta al maggior bene, il rapporto paziente/medico subisce una innaturale torsione in senso contrattualistico, con lo smarrimento delle sue più rilevanti connotazioni etiche.
Contro il modello “paternalistico”, secondo cui spetterebbe al medico decidere le scelte curative per il bene del paziente (46), si è giustamente affermato, a partire almeno dal secondo dopoguerra (47), un rapporto più equilibrato, definito come di “alleanza terapeutica”, secondo cui la decisione curativa dovrebbe essere assunta nell’orizzonte del maggior bene del paziente, individuato in modo condiviso alla luce dell’esperienza soggettiva di vita e dei desideri del malato, nonché della oggettiva proporzione fra i benefici prevedibili e i costi di sofferenza del trattamento. Il modello dell’”alleanza terapeutica”, scaturito dalla valorizzazione del “consenso informato” (48), sottolinea l’esigenza che al centro della medicina stia il rapporto fra il medico e il paziente, come “[…] incontro tra due soggetti che nasce da uno stato di bisogno del malato e si esprime come richiesta d’aiuto” (49). L’incontro instaura “[…] una relazione comunicativa che è di per sé asimmetrica a causa della disuguaglianza di competenze e dello stato di necessità in cui versa il malato. Cercare di colmare la loro distanza pur mantenendo la differenza data dalla conoscenza scientifica del medico, significa preservare l’apertura e la disponibilità alla comunicazione esistenziale […]. Curare il paziente vuol dire non solo attuare un intervento terapeutico, ma anche comprendere attraverso un processo ermeneutico l’uomo malato nella cui biografia la malattia si inscrive” (50).
Com’è evidente, il modello dell’”alleanza terapeutica” si contrappone non soltanto al “paternalismo”, ma preserva altresì la medicina da ogni forma di contrattualismo e di burocratismo: la valorizzazione del dialogo come centro focale del rapporto costituisce condizione di possibilità affinché libertà e bene del malato, cardini attorno a cui ruota l’attività medica, trovino una conciliazione anche nei casi difficili. L’”alleanza terapeutica”, infatti, che s’instaura fra il malato e il medico, ha un oggetto determinato, che segna i confini della decisione condivisa. In questa alleanza né il medico può spingersi oltre l’obiettivo del bene integrale del paziente, né quest’ultimo può pretendere che il medico rinunci a perseguire questo bene, sia pure valutato alla luce della sua esperienza, dei suoi desideri e dei suoi piani di vita. Esigere, invece, che il medico si faccia strumento di morte significa andare ben al di là dell’”alleanza terapeutica”, costruendo una relazione contrattualistica di natura diversa da quella che contrassegna indelebilmente la medicina. Onde il paziente non ha il “diritto” di pretendere che il medico si faccia strumento di morte, né, all’inverso, di richiedere l’attuazione di cure obiettivamente futili sul piano medico.
Come va respinta una concezione “paternalistica” della medicina, così non può accettarsi una sua interpretazione in chiave “individualistica” e “contrattualistica”, come se il suo oggetto fosse la prestazione di quanto è dedotto nel contratto, senza alcun riferimento alla “causa” giuridica dell’opera del medico. La “causa” etica e giuridica della medicina consiste, secondo un fondamentale principio deontologico, nella “tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo” e nel “sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana”, come bene statuisce l’articolo 3 del Codice deontologico (51).
Né vanno dimenticati gl’inalienabili diritti del medico, fondati sulla libertà e sull’indipendenza della professione — di cui art. 4, comma 1, del codice anzidetto —, né i suoi imprescrittibili doveri, per cui egli “[…] deve attenersi alle conoscenze scientifiche e ispirarsi ai valori etici della professione, assumendo come principio il rispetto della vita, della salute fisica e psichica, della libertà e della dignità della persona” (articolo 4, comma 2 dello stesso codice).
La rottura dell’”alleanza terapeutica” (52), conseguenza ineluttabile dell’ideologia individualistica, apre la strada a una concezione difensivistica e burocratica della professione, come reazione, ex parte medici, alla lettura esclusiva del rapporto fra lui e il paziente in chiave di pretesa da farsi valere nel processo. Il principio di autonomia, interpretato in modo esasperato e senza il rispetto di alcun limite etico, provoca aberrazioni non meno gravi di quelle indotte dal “paternalismo”. Il ruolo del medico viene ridotto a quello del fornitore di una prestazione, nell’ottica del rapporto fra “domanda” e “offerta”. Ma se il rapporto terapeutico si costruisce esclusivamente nei termini del diritto contrattuale, aumenta nel medico la preoccupazione di tutelarsi anticipatamente dal rischio dell’azione giudiziaria. In queste condizioni non è più l’”alleanza terapeutica” il substrato dell’attività medica, bensì la conflittualità virtuale fra due soggetti in posizione di reciproco sospetto a causa della loro ineliminabile asimmetria.
Un tal modo d’interpretare la medicina misconosce il ruolo fondamentale che spetta nella pratica medica alla virtù della prudenza, la cui pecularietà “[…] è il riferimento alla sfera dei mezzi e delle vie e della realtà tutta concreta” (53), come capacità del medico di adeguare i mezzi al fine, in vista di una scelta equilibrata e condivisa circa le terapie e gl’interventi da praticare al paziente, soprattutto nelle fasi terminali della vita.
Una considerazione concreta dei problemi posti dalle cure nei pazienti terminali implica il riconoscimento dell’impossibilità di ricondurre tutti i casi sotto paradigmi giuridici di tipicità astratta, impostati, peraltro, su una dicotomia irrealistica, incapace di vedere alternative fra il delitto e il diritto, come se il rapporto terapeutico ricalcasse pedissequamente il modello di un’impossibile giustizia contrattuale.
Le scelte prudenziali sono orientate al perseguimento intenzionale del bene maggiore del malato, rispettandone la vita e la salute e sollevandolo dal peso estenuante della sofferenza, nell’orizzonte della sua dignità e libertà, tenendo conto tanto della proporzione delle cure rispetto ai fini — vita, salute e sollievo dalla sofferenza — quanto dei desideri del malato, delle sue aspirazioni e modalità pregresse di vita.
Il medico, portatore dell’esperienza specifica che gli deriva dall’esercizio della professione e componente essenziale dell’”alleanza terapeutica”, non può essere ridotto, pena lo snaturamento della sua funzione, a mero esecutore della volontà assoluta del malato. Egli, invece, è il soggetto idoneo a orientare i suoi desideri e le sue aspirazioni verso scelte prudenziali che, riconoscendo la finitudine dell’uomo e la relatività dei poteri della scienza e della pratica sanitaria, accompagnano con dignità il morente nella parabola conclusiva della vita terrena. Togliere al medico questo compito essenziale, svellendolo dall’”alleanza terapeutica” con il malato, significa privare di ogni tutela i soggetti deboli, poveri, emarginati, abbandonati, tutti coloro, insomma, che appaiono e sono incapaci di far valere le loro pretese attraverso l’assistenza aggressiva dei parenti e la minaccia incombente dell’azione giudiziaria. Misconoscere il ruolo cruciale della prudenza del medico, capace di comporre i dati oggettivi con quelli soggettivi per il perseguimento del bene del paziente, significa creare le basi per l’incremento parossistico delle disuguaglianze nei trattamenti sanitari, destinati a oscillare senza bussola fra i poli dell’accanimento e dell’abbandono terapeutico, a seconda della forza contrattuale e del vigore con cui sono fatti valere rispettivamente il rifiuto e la pretesa a determinati trattamenti.
6. Assolutizzazione del principio autonomistico e inquinamento del significato del diritto
L’assolutizzazione del principio di autonomia inquina irrimediabilmente il significato del diritto, secondo una linea di pensiero di tipo nichilistico, che, interpretando fallacemente i diritti come poteri assoluti dell’individuo, finisce per distruggerne il contenuto e la funzione. Ogni diritto consiste nel riconoscimento di una libertà soggettiva per il perseguimento di un bene, e, dunque, nella tutela di una facoltà di azione in vista di un fine. In ogni diritto è compreso un aspetto negativo, come salvaguardia dell’ordinamento dalle possibili intromissioni esterne, individuali o statali, nell’esercizio della libertà personale. L’ordinamento giuridico tutela anche la libertà negativa, ma non può mai perdere di vista il bene in funzione del quale la libertà è riconosciuta. Può consentire che il soggetto non persegua il bene in vista del quale il diritto è riconosciuto, ma non trasformare in “diritto” la mera libertà di fatto di distruggere il bene che costituisce la ragione per cui il diritto sussiste. Ciò vale per la vita o per la salute, per la dignità, per la libertà e per qualsiasi altro diritto fondamentale dell’uomo. Tutti questi beni non consentono l’assoluta disponibilità del diritto, come sarebbe se fosse ricompreso nel diritto alla vita e alla salute la facoltà di distruggerle, nel diritto alla dignità e alla libertà la facoltà di negarle, imponendo coattivamente al terzo — e, ultimamente, allo Stato — di compiere gli atti diretti a mettere nel nulla la vita, la salute, la libertà e la dignità.
Se, invero, il diritto alla vita ricomprendesse la facoltà di distruggerla, colui che non è in grado di uccidersi per incapacità fisica o per debolezza psicologica di darsi direttamente la morte potrebbe pretendere che altri mettesse fine alla sua vita. Lo stesso per quanto attiene al diritto alla salute, alla libertà e alla dignità. Interpretare il senso e il contenuto di tali diritti al di fuori dell’oggetto loro proprio significa contraddittoriamente negarli, attribuendo spessore giuridico alla pretesa nichilistica del soggetto di distruggerli. L’assoluta autodeterminazione, senza vincoli e limiti dettati dal rispetto dei beni in funzione dei quali il diritto è riconosciuto, sfocia nella negazione dei beni e nella pretesa che gli altri contribuiscano alla loro distruzione.
Appare in questo quadro la valenza nichilistica e la contraddittorietà logica intrinseche a un diritto che si risolverebbe, in ultima analisi, nell’autodeterminazione assoluta del singolo. Mentre vuole affermare la libertà del soggetto sciolta da ogni vincolo, tale “diritto” non può non realizzarsi se non attraverso la strumentalizzazione delle altre persone, che vengono costituite come strumenti indispensabili per l’attuazione di tale libertà. La strumentalizzazione degli altri — in particolare, del medico, che sarebbe costretto, in base al contratto, a compiere un atto contrario alla vita e alla salute, dunque, al bene del paziente — è implicita nella costruzione, al centro dell’ordinamento giuridico, di una sorta di “diritto” assoluto e illimitato a realizzare comunque gli effetti della propria autodeterminazione, senza che essa sia previamente definita sul piano giuridico dalla res iusta, cioè dal rapporto di proporzione che intercorre fra i mezzi adottati e il bene in vista del quale il diritto è previsto dall’ordinamento (54).
Nel divorzio fra l’autodeterminazione e il suo oggetto l’uomo è privato del criterio di misura per delimitare l’ampiezza del suo potere. Allo stesso tempo gli si assegna l’ingiusta facoltà di pretendere che gli altri distruggano il bene che egli non è in grado di annichilire con le proprie forze da solo.
Né va inteso come “diritto” il potere di fatto di ciascuno di negare il diritto alla vita o alla salute, suicidandosi, ovvero serbando condotte che peggiorano le sue condizioni di salute, ovvero omettendo contegni che sarebbero idonei a migliorarle. Né va intesa come correlativa a un “diritto” del paziente, che rifiuti consapevolmente le cure, pur utili alla salute, l’astensione del medico dal praticarle. L’individuo può suicidarsi, esercitando un potere di fatto sul proprio corpo; può determinare il peggioramento o impedire il miglioramento delle sue condizioni di salute, non curandosi. Ma questi poteri non sono espressione di un “diritto”, bensì di mere facoltà di fatto, che non trovano tutela nell’ordinamento giuridico e non sono farsi valere come pretese giuridiche nei confronti dei terzi.
Che non possa riconoscersi l’esistenza di un “dovere” di vivere, nel senso di pretesa esigibile giuridicamente, dipende dal fatto che l’ordinamento evita d’intervenire coattivamente sul corpo delle persone per la semplice ed essenziale ragione che un intervento coattivo metterebbe in pericolo la dignità della persona umana, che postula il rispetto delle facoltà razionali e della libertà di ciascuno. Perciò la vita e la salute, come beni personalissimi, non possono essere garantiti coattivamente attraverso un’azione direttamente rivolta contro la volontà del loro titolare. Ma ciò non perché quei beni siano giuridicamente disponibili, bensì perché la loro indisponibilità non può non affidarsi ultimamente alla determinazione consapevole e libera di ciascuna persona (55). Un intervento coattivo volto a costringere alla cura implicherebbe la negazione della libertà della persona e, quindi, di un aspetto essenziale della sua dignità.
Il passaggio dalla semplice incoercibilità al diritto soggettivo implicherebbe di disegnare in modo completamente diverso il rapporto fra i soggetti e di giuridicizzare come pretesa coercibile nei confronti dei terzi il rifiuto della vita, della salute e delle cure che sono idonee a preservare l’una e l’altra. L’ordinamento giuridico imporrebbe in questo modo a un terzo il compimento di un atto contrario alla vita o alla salute. Né il rimedio dell’obiezione di coscienza, eventualmente sollevabile da parte di chi si rifiutasse di compiere gesti contrari alla vita o alla salute, potrebbe salvare l’ordinamento, che si pronuncerebbe comunque per la relatività e la disponibilità del diritto riferito a tali beni (56).
L’esperienza comune e il tessuto delle concrete relazioni giuridiche testimoniano, peraltro, con inequivoca evidenza che il suicidio e il rifiuto della salute sono meri poteri di fatto e non costituiscono diritti nel senso di pretese esigibili. Anche se affiori la consapevolezza e volontarietà dell’autore, chi agisca per impedire l’evento suicidiario si avvale certamente della disposizione giustificante della legittima difesa, prevista dall’articolo 52 del codice penale. Chi riesca a trattenere la persona che sta per lanciarsi da un ponte nel vuoto non è responsabile di violenza privata ai sensi dell’articolo 610 del codice penale. Chi strappi di mano con violenza la pistola a colui che abbia in animo di spararsi in bocca un colpo, procurandogli lesioni, non è responsabile del delitto di cui agli articoli 582 e 583 del codice penale. Ciò perché tali atti anticonservativi, rivelando un disvalore giuridico, giustificano la tutela da parte del terzo del diritto minacciato. Ciò perché, in altri termini, tali atti sono ingiusti. E quando taluno sia ferito o altrimenti in pericolo, scatta per chiunque l’obbligo di soccorso (articolo 593 del codice penale), allo stesso modo in cui l’obbligo di salvare la vita con strumenti di sostegno vitale riguarda qualsiasi anestesista/rianimatore cui venga presentata una persona che morirebbe ove tale sostegno non gli venisse immediatamente prestato, anche se questa persona si è procurata le lesioni lanciandosi volontariamente da un viadotto. E se un soggetto che abbia tentato il suicidio sia rimasto in vita, ma abbisogni di un’intubazione per superare una crisi cardiopolmonare, l’anestesista rianimatore applicherà la macchina di sostegno vitale al paziente, senza timore di commettere violenza privata o di coartarne ingiustamente la libertà di autodeterminazione. E tutto ciò indipendentemente dalla sussistenza di un previo consenso da parte della persona in pericolo e anche in presenza di una volontà previamente manifestata di suicidarsi.
Tutto l’ordinamento giuridico, allo stesso modo del giudizio pronunciato spontaneamente dal senso comune, vedono in questi obblighi d’intervento il portato di una obiettiva prevalenza del diritto alla vita e alla salute su qualsiasi altro interesse, ivi compreso quello dell’autodeterminazione individuale.
7. L’interpretazione dell’articolo 32, comma 2, della Costituzione italiana
Un’opinione tanto largamente diffusa nella dottrina italiana quanto giuridicamente errata vorrebbe trovare nell’articolo 32 della Costituzione, al comma 2 — “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” —, il fondamento giuridico del principio di assoluta autonomia, che sarebbe affermato in modo talmente radicale da costituire in guisa di diritto della personalità il rifiuto da parte del paziente di qualsivoglia trattamento, anche di quelli indispensabili quoad vitam (57). La stessa ammissibilità della somministrazione al malato, che abbia rifiutato le cure, della idratazione e dell’alimentazione, viene oggi discussa sul piano della loro qualificazione tecnico/scientifica. Secondo un’opinione corrente in giurisprudenza, se tali atti configurassero trattamenti medici, essi dovrebbero essere tralasciati, senza che ciò comporti alcuna responsabilità per i medici o i familiari che li abbiano omessi; ché, anzi, potrebbe ipotizzarsi una responsabilità penale per il delitto di violenza privata ai sensi dell’articolo 610 del codice penale a carico del medico ove avesse perseverato nell’idratazione o alimentazione artificiale, nonostante il rifiuto del paziente (58).
Non sembra, invero, ragionevole che una scelta fondamentale come quella circa la praticabilità dell’idratazione e dell’alimentazione artificiale venga decisa in base a tale criterio, dovendosi piuttosto tener conto, nella soluzione del problema giuridico, della violazione della dignità umana, implicata dall’abbandono dell’uomo alla sete e alla fame e, più ancora, della diretta contribuzione all’uccisione della persona.
Va escluso, comunque che l’articolo 32, comma 2, della Costituzione abbia voluto innovare rispetto al principio dell’indisponibilità della vita (59). Secondo una corretta ermeneutica, l’articolo 32 della Costituzione dev’essere interpretato nella sua integralità. Il comma 1 del medesimo articolo statuisce che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. L’asserto che la salute è un diritto fondamentale dell’individuo significa che lo Stato non può strumentalizzare tale diritto a profitto di altri beni, siano essi individuali o collettivi. Per esempio, nessuno può essere sottoposto a sperimentazione farmacologica, diagnostica o terapeutica per il progresso della scienza, né possono essere svolte attività lavorative, pur utili alla collettività, che mettano a rischio la salute del lavoratore.
La salute individuale è, però, anche un bene per l’intera comunità, come afferma esplicitamente l’ultima parte del comma 1 dell’articolo 32. La salute è, pertanto, un diritto non disponibile e non negoziabile, che non può logicamente contenere il suo contrario, come sarebbe se tale diritto si riducesse al principio dell’assoluta autodeterminazione e il suo oggetto consistesse tanto nel bene positivo quanto nel suo annientamento.
Il comma 2 dell’articolo 32 rivela, poi, una saggezza pratica esemplare, perché risolve con equilibrio il problema delle modalità con cui l’interesse pubblico alla salute di ciascun individuo, costituzionalmente riconosciuto, può essere fatto valere nei confronti del suo titolare. Senza per nulla e in nulla innovare il principio fondamentale della indisponibilità della salute, intende evitare che l’autorità amministrativa eserciti autonomamente e discrezionalmente le sue facoltà per garantire e promuovere l’”interesse” della collettività, costringendo i cittadini a interventi, nell’interesse della collettività, che non siano previsti dalla legge e che non rispettino la persona umana. A questo scopo contempla, nella prima parte del comma 2, la riserva di legge, soggiungendo, appunto, nell’ultima parte, che neppure la legge può permettere trattamenti o interventi irrispettosi della persona umana.
Il problema cui risponde l’articolo 32, comma 2, della Costituzione consiste nel regolare il rapporto fra l’individuo, titolare del diritto personalissimo alla salute, e la pubblica amministrazione, portatrice dell’interesse pubblico generale. L’individuo, infatti, non è una monade isolata, priva di comunicazioni e di relazioni con gli altri componenti della società. Ciascuno, invece, è avvinto da obblighi ineludibili di solidarietà, ben scolpiti a livello costituzionale dall’articolo 2, che ricollega i diritti fondamentali dell’individuo, sia come singolo sia come componente delle varie formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità, ai doveri inderogabili di “solidarietà politica, economica e sociale”.
In nulla e per nulla tale disposizione porta innovazioni al principio d’indisponibilità della vita e della salute, limitandosi a circoscrivere gl’interventi dell’autorità spesi nell’interesse della collettività. Il valore indisponibile della salute come diritto individuale e come interesse sociale è riaffermato vigorosamente, e per nulla affatto sminuito, offuscato o addirittura negato.
Gl’interventi non rispettosi della persona umana, che la Costituzione ha voluto del tutto vietare, sottraendoli anche alla possibile loro previsione attraverso la legge, sono quelli che la follia del biologismo e del razzismo eugenetico aveva prima incoraggiato e successivamente praticato, non soltanto nella Germania nazionalsocialista, ma anche in altri Stati (60).
L’esame della discussione tenuta nell’Assemblea Costituente impone di escludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’articolo 32, comma 2, abbia modificato il principio della disponibilità della vita e della salute umana.
Tale disposizione, infatti, fu proposta e approvata, pur fra qualche opposizione, estremamente significativa, ispirata a ideologie collettivistiche o individualistiche, per garantire la persona dal possibile intervento coattivo dello Stato, allo scopo di eseguire, in particolare, la sterilizzazione. Poiché il Comitato incaricato dalla Commissione per la Costituzione, la cosiddetta “Commissione dei 75”, per la redazione dell’articolato sulla salute aveva respinto il seguente emendamento aggiuntivo: “Nessun trattamento sanitario può essere obbligatorio se non per legge. Non sono ammesse pratiche sanitarie lesive della dignità umana” (61), l’on. Aldo Moro (1916-1978), che ne era stato, insieme con l’on. Paolo Rossi (1900-1985), il presentatore, lo ripresentò in Commissione, illustrandone il significato. Ciò avvenne nella seduta del 28 gennaio 1947. L’on. Moro spiegò che la seconda parte dell’emendamento — “Non sono ammesse pratiche sanitarie lesive della dignità umana” — intendeva porre “[…] anche un limite al legislatore, impedendo pratiche sanitarie lesive della dignità umana. Si tratta, prevalentemente, del problema della sterilizzazione e di altri problemi accessori” (62). Rispondendo, poi, all’obiezione dell’on. Giuseppe Grassi (1883-1950), che riteneva opportuno lasciare libero il legislatore ordinario di decidere se la sterilizzazione, per certe ragioni, fosse “giusta” (63), l’on. Moro così rispondeva: “[…] non si vuole escludere il consenso del singolo a determinate pratiche sanitarie che si rendessero necessarie in seguito alle sue condizioni di salute; si vuol soltanto evitare che la legge, per considerazioni di carattere generale e di male intesa tutela degli interessi collettivi, disponga un trattamento del genere” (64). Alla inequivocabile spiegazione dell’on. Moro, che sottolineava il significato della norma nella relazione fra “dignità umana” e “interessi collettivi”, si opponeva l’on. Umberto Nobile (1885-1978) per la ragione che “bisogna, ad esempio, considerare se nel caso di gravi forme di pazzia ereditaria, la legge non abbia il dovere di prevedere misure sanitarie atte ad impedire che siano messi al mondo degli infelici destinati con certezza al terribile male” (65).
L’emendamento venne approvato in Commissione, con una lieve variazione — “rispetto della persona umana” al posto di “dignità umana” — nella medesima seduta del 28 gennaio (66).
Della discussione relativa all’articolo 26, comma 2 — divenuto, poi, l’articolo 32, comma 2 — nell’Assemblea Costituente, merita soltanto ricordare gl’interventi dell’on. Alberto Cavallotti (1907-1994), che esponeva la posizione del Partito Comunista Italiano, e dell’on. Gaetano Martino (1900-1967), del Partito Liberale, a titolo personale, entrambi contrari all’inserzione del comma relativo al divieto di pratiche sanitarie irrispettose della persona umana. L’on. Cavallotti, dopo aver fatto dell’ironia di cattivo gusto sui pensieri che gli aveva suscitato l’interpretazione del comma 2 — “Viene spontaneo di domandarsi che cosa ci stia a fare questa dichiarazione. E lì per lì confesso che ho pensato che la Costituente volesse dichiarare guerra alle innocenti cannule da clistere, ree di alto tradimento per aggressione alle spalle della dignità umana” (67) —, osservava più seriamente che la ragione d’essere del comma erano probabilmente la “sterilizzazione” (68) e l’“aborto” (69) oppure “certe pratiche mediche che oggi sono riti religiosi, come la circoncisione” (70). L’on. Martino, nella seduta del 24 aprile 1947, rilevato che l’emendamento Moro era espressione della dottrina cattolica — che vieta l’aborto e la sterilizzazione profilattica — osservava che, se anch’esso si dovesse riferire soltanto alla sterilizzazione eugenica, allora ciò si sarebbe dovuto espressamente scrivere; ma scrivere ciò non sarebbe stato assolutamente il caso, poiché non avrebbe senso proibire in una Costituzione tutto quanto un “pazzo criminale” (71) potrebbe fare se “[…] diventasse il dittatore della Repubblica Italiana” (72).
Che l’intento dei Costituenti, ben attuato nella disposizione, fosse di vietare in modo assoluto le misure degradanti che la storia recente aveva reso tragicamente attuali, come la sterilizzazione eugenetica e la sperimentazione su “cavie umane”, e, per nulla affatto, apportare innovazioni al principio dell’indisponibilità della vita e della salute, è, d’altra parte, riconosciuto dalla dottrina costituzionalistica che si è dedicata con attenzione filologica allo studio del testo costituzionale (73).
8. Assolutizzazione del principio autonomistico e cancellazione dei princìpi di beneficità e di giustizia
Nell’esperienza dei malati gravi, quando si pone concretamente il problema se praticare o non praticare determinati interventi, è difficilissimo che ricorrano tutte le condizioni affinché il paziente possa formulare un valido consenso in ordine al trattamento.
Un primo problema è costituito dalla completezza e dalla correttezza dell’informazione che il medico ha il dovere di fornire al paziente. Un secondo problema è costituito dalla capacità effettiva che il paziente ha di comprendere il significato della sua situazione clinica e delle prospettive terapeutiche che gli vengono presentate. Poiché il consenso è valido soltanto se pienamente consapevole delle conseguenze del trattamento e della sua omissione, l’informazione è fondamentale affinché non si consumino prevaricazioni sul soggetto debole del rapporto, che potrebbe indursi a scelte profondamente erronee a causa di una visione errata della sua situazione. L’informazione, pertanto, va effettuata con chiarezza e comprensibilità, rendendo edotto l’interessato di tutto quanto è necessario per una decisione consapevole. Secondo Ferrando Mantovani, che ha approfondito questo tema in molteplici scritti, l’informazione deve quindi avere per oggetto la diagnosi, la prognosi, la possibilità e gli strumenti terapeutici, lo scopo e la natura del trattamento proposto, le eventuali alternative terapeutiche, i benefici e i rischi prospettabili, il decorso postoperatorio e i tempi di degenza, le strutture sanitarie più idonee e le conseguenze del rifiuto delle cure (74).
L’informazione va inoltre rapportata al grado di reale volontà del malato di conoscere la propria condizione, perché non tutti i malati desiderano veramente vedere fino in fondo la maggiore o minore prossimità del processo patologico al punto della morte, preferendo spesso affidarsi, almeno entro certi limiti, al medico. Peraltro, un’informazione completa e circostanziata, nel caso di prognosi severe o infauste, può essere deleteria per il malato e contribuire a indebolire la sua resistenza psicofisica alla progressione rapida della malattia. Al riguardo il comma 4 dell’articolo 33 del Codice deontologico stabilisce che “le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza”. Peraltro, il codice opportunamente tiene in conto l’ipotesi che la persona non voglia essere direttamente informata: “la documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto a ricevere l’informazione deve essere inoltre rispettata” (articolo 33, comma 5).
Non poco arduo è per il medico fornire il giusto livello d’informazione al paziente, da relazionarsi alla sua sensibilità, alla sua biografia, ai suoi modelli di vita, al suo orientamento psicologico e alla sua maggiore o minore fragilità di carattere. Né è sempre possibile al medico, che non ha una visione precisa della psicologia e della sensibilità del paziente, rendersi conto se egli ha guadagnato un livello d’informazione tale da consentirgli decisioni veramente fondate e meditate.
Si comprende a questo punto che soltanto la prudenza del medico, innestata sul rispetto del paziente e sul dialogo continuo con lui, può consentire che egli esprima decisioni corrispondenti alla sua effettiva volontà e volte a realizzare veramente il suo maggior bene. Luciano Eusebi ha scritto pagine preziose sul percorso del dialogo fra il medico e il paziente al fine di pervenire a una giusta decisione in ordine ai trattamenti di fine vita. Che la relazione medico-paziente possa essere “giocata per la morte” (75) è contrario non soltanto al principio solidaristico, che impregna la Costituzione, ma altresì alla realtà empirica, in cui molto spesso la richiesta di cessazione delle cure non esprime un desiderio di morte, bensì l’appello al sostegno, alla vicinanza, alla condivisione, all’aiuto. Qualora si assolutizzasse il principio autonomistico, rischierebbe di venir meno l’impegno del medico al sostegno del malato: “[…] di fronte a un’espressione formalmente corretta, ed esteriormente lucida, del rifiuto di essere curati sussisterebbero, a quel punto, le condizioni per poter approfondire, facendosene carico, l’istanza che quel rifiuto autenticamente manifesti? Il pericolo, in altre parole, è quello di una mera presa d’atto, per giunta giuridicamente sancita (e indifferente alle condizioni particolari in cui la manifestazione del volere si è formata)” (76).
Soltanto il dialogo per il miglior bene del malato è capace di comporre fra loro il principio di autonomia e il principio di beneficità. Nel dialogo sta il vero significato dell’”alleanza terapeutica” fra paziente e medico: come l’informazione adeguata non può essere acquisita se non attraverso l’interazione dei due soggetti, allo stesso modo la decisione per il miglior bene non può essere assunta se non attraverso l’innesto della prudenza del medico sui desideri e sulle aspettative del malato. La conflittualità fra i due soggetti è una possibilità patologica del rapporto, non la base concettuale su cui il rapporto dev’essere costruito. Sopravvalutare l’autonomia del paziente, fino a farne il criterio esclusivo della decisione, implica incrementare le ragioni d’incomprensione e negare in radice l’alleanza indispensabile per il perseguimento del maggior bene.
A livello teorico la composizione fra autonomia e beneficità sembra impossibile. Ma il rifiuto del “paternalismo” non vuol dire che il medico debba rinunciare al criterio morale di beneficità, senza il quale la sua opera sarebbe cieca, bensì che egli “[…] non può, non deve, né vuole esercitare tale beneficità in senso paternalistico e assoluto” (77). Il medico, invero, secondo il suo giuramento e in forza del finalismo inerente intrinsecamente al suo compito, è l’alleato del malato per tutelarne nel modo più ampio possibile la vita e la salute e per alleviare le sofferenze e le pene della malattia.
Il Codice deontologico delinea esattamente questo compito nel contemplare all’articolo 32 gli specifici doveri positivi del medico volti alla tutela della salute dei soggetti fragili. Con espressione forte il codice statuisce che il medico “[…] deve impegnarsi a tutelare il minore, l’anziano e il disabile, in particolare quando ritenga che l’ambiente, familiare o extrafamiliare, nel quale vivono, non sia sufficientemente sollecito alla cura della loro salute”. Allo stesso modo il principio deontologico impone al medico di “adoperarsi” affinché il minore possa fruire delle condizioni necessarie per un armonico sviluppo psico-fisico e all’anziano e al disabile siano garantite “qualità e dignità di vita”. Traspare con tutta evidenza da queste disposizioni che il medico è l’alleato del malato, soprattutto del più debole e abbandonato, per la tutela della sua vita e della sua salute.
La norma citata costituisce altresì la spia e propone il rimedio a un problema drammatico che l’esperienza recente consente di conoscere in modo sempre più preciso, nella misura in cui l’ambiente in cui si svolge la vita del malato tende a rifiutare o a ridurre la disponibilità all’assistenza. Le ragioni di simili atteggiamenti sono variegate e non necessariamente addebitabili a determinazioni perverse dei familiari o delle strutture sanitarie. Spesso, infatti, i costi dell’assistenza, insieme con la carenza di validi supporti intrafamiliari, a cagione degl’impegni lavorativi dei componenti della cellula familiare e del suo progressivo contrarsi, non possono essere sostenuti dai familiari. Da situazioni siffatte scaturiscono disagi psichici notevoli nel malato, che accrescono il suo senso di solitudine e di abbandono, inducendo in lui una sensazione di frustrazione e d’inutilità, fin quasi a generare un senso di colpa per gl’insolubili problemi addossati inevitabilmente alle persone a lui vicine sul piano affettivo. In questo orizzonte chiuso matura nel malato, che non intravede alcuna possibile via d’uscita, soprattutto se le condizioni economiche del gruppo di riferimento sono penose, l’idea, quasi ispirata da un sentimento di benevolenza, di rinunciare alle cure per liberare i propri cari da un peso insostenibile.
Opportunamente l’articolo 32 del Codice deontologico, in precedenza citato, rammenta con forza al medico il suo compito di alleato dei soggetti fragili. Ove, infatti, si consolidasse l’orientamento contrattualistico e individualistico in ordine alla natura del rapporto terapeutico, si scaverebbero solchi immensi di ingiustizie. Mentre i soggetti tutelati dall’ambiente familiare potrebbero trovare comunque un sostegno, i soggetti deboli e isolati rischierebbero di essere abbandonati alle loro “libere determinazioni” di morte. L’esaltazione acritica, invero, della libertà individuale rischia di confondersi con l’ipocrita soddisfazione per la liberazione delle risorse economiche che la rinuncia alle cure consente di ottenere.
Il circolo vizioso non si arresta però qui. Le dinamiche economiche e sociologiche influiscono più di quel che normalmente si creda sui processi decisionali e sul substrato psichico ove maturano le decisioni dell’uomo. Non si tratta certo di riesumare obsoleti schemi marxisti circa un preteso rapporto univoco di dipendenza fra la struttura economica e la sovrastruttura etica e giuridica, ma di prendere realisticamente atto che l’uomo, come composto di corpo e di anima indissolubilmente congiunti fra loro, subisce sul piano spirituale i contraccolpi del suo esistere fisico, calato in una realtà economica e materiale determinata. L’assolutizzazione del principio di autonomia, con il far ricadere sul singolo l’intero peso psicologico e tutta la responsabilità giuridica della decisione, colpevolizza in modo penoso e ingiusto il malato. Costui, scegliendo per la protrazione delle terapie, non sfuggirebbe al rimprovero, esplicitamente formulato o anche soltanto implicitamente adombrato, di aver assunto decisioni tese a conservare egoisticamente l’esistenza con la pratica di cure costose, implicanti altresì l’assistenza continua di familiari o di più persone specializzate. Nella spontanea rinuncia alle cure, con la consapevole liberazione della società dai costi per esse necessari, si manifesterebbe, invece, una generosità altruistica degna di approvazione.
Traspare a questo punto il volto orrendo del principio esasperato dell’autonomia. Il verso della medaglia, che viene rappresentato mediaticamente, anche per opera di insospettabili luminari della scienza, mostra il compiacimento per l’esaltazione della libertà individuale, rivelata dal “diritto” di ciascuno di decidere da sé e per sé. Tale “diritto” esprimerebbe il dominio supremo della persona sulla realtà, cui sarebbe inerente la capacità di sfidare la morte, a tal punto coraggiosa da anticiparla nel tempo, con il sottrarsi alle sofferenze che normalmente la corteggiano. Il retro della stessa medaglia lascia intravvedere la prevaricazione dei sani, dei forti e dei potenti. Con l’assegnazione ai malati, ai fragili e agl’impotenti della decisione di vita e di morte su sé stessi, viene sottilmente adombrata l’inutilità di una vita priva di standard adeguati di qualità e viene stigmatizzato l’accanimento egoistico di voler essere mantenuti in vita.La concezione contrattualista della medicina, che pone al suo centro l’assolutizzazione del principio autonomistico, apre la strada in realtà all’intronizzazione del principio utilitaristico, ove i costi e i benefici di cui occorrerebbe tener conto nelle decisioni, passando attraverso la strumentalizzazione del debole, sono in realtà di tipo economico e monetario, senza alcuna attenzione per la dignità inerente in modo uguale a ogni singola vita umana. Il principio bioetico di giustizia, nella sua specificazione di “diritto all’uguaglianza” di ogni persona, che implica il diritto “a uguale considerazione e rispetto” da parte dell’ordinamento giuridico, trova a questo punto la sua più radicale negazione.
9. Assolutizzazione del principio autonomistico e istituto delle “Direttive anticipate di trattamento”
L’estrema difficoltà che una decisione valida sia espressa dal malato nelle fasi terminali della malattia, nonché le perplessità che inevitabilmente sorgono nel valutare la validità di una decisione comunque espressa hanno indotto a ravvisare nelle direttive o dichiarazioni anticipate di trattamento la soluzione congrua allo scopo di rendere ugualmente dominante il principio di assoluta autodeterminazione del singolo.
Il modello normativo in oggetto scaturisce dall’intento di assegnare al principio di autonomia, contro la forza che promana dalla realtà delle cose, un ruolo tendenzialmente esclusivo nelle decisioni che concernono la fine della vita (78).
Se bene si considerano le casistiche, è relativamente raro che il paziente voglia e possa esprimere, quando la patologia è avanzata, decisioni in ordine alle terapie. Ciò sia perché, nonostante tutto, egli ancora nutre fiducia nella scienza e nell’esperienza del medico, sia perché il desiderio di vivere e l’istinto di conservazione incidono fortemente sul modo di affrontare la realtà, anche nei casi in cui vi siano, nell’oscillazione di una volontà indebolita e instabile, apparenti richieste di morte (79).
L’autonomia, per altro verso, ha dei limiti, che derivano dalla difficoltà che siano adempiute realmente tutte le condizioni necessarie perché sussista un atto autonomo. Secondo Ruth R. Faden e Tom L. Beauchamp, l’unica aspirazione possibile, a proposito di “consenso informato”, sarebbe che le nostre azioni siano almeno sostanzialmente autonome (80). Affinché ciò si verifichi occorrerebbe che l’azione sia compiuta con intenzionalità, con piena coscienza circa la sua natura e circa il suo contesto, nonché al di fuori di ogni controllo esterno, coercitivo, manipolativo e persuasivo (81). Quando, poi, fiducia, desideri e speranze non alimentano più il vivere del malato, è difficile che egli sia capace di esprimere decisioni con piena coscienza e integra volontà.
In tal modo, il principio di assoluta autonomia, calato nell’esperienza reale, svanisce quasi completamente nella sua pretesa di esclusività. Le direttive anticipate, allora, vorrebbero creare le condizioni affinché un’autonomia, che non si dà e non si può dare nella drammatica realtà della sofferenza e della malattia, sorga artificialmente in forza della norma giuridica. Il vero volto dei modelli nati dal troncone del Living Will nasconde l’intento di creare un simulacro di autonomia laddove essa non è fattualmente possibile, allo scopo di non rinunciare a una pretesa che, nei termini di esclusività che l’ideologia individualistica gli assegna, è contraria alla realtà del vivere e del morire nell’orizzonte dell’essenziale finitudine dell’uomo.
Occorre preliminarmente dissipare un equivoco che ritorna, quasi senza eccezioni, nel discorso giuridico di quanti propugnano l’introduzione della normativa riformatrice. Esso muove dall’opinione secondo cui tale istituto sarebbe esigito dall’adesione dell’Italia alla Convenzione di Oviedo, già prima citata, sui diritti dell’uomo e la biomedicina (82). Senonché, come più sopra ricordato, l’articolo 9 della Convenzione non impone affatto il modello delle direttive anticipate, ma, anzi, sembra implicitamente scartarlo, disponendo che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione”. Il modello prescritto dalla Convenzione di Oviedo, invero, è alternativo rispetto a quello delle direttive anticipate, per la semplice e fondamentale ragione che usa il termine “desideri”, e non “volontà” o “decisioni”, per contrassegnare il tipo di atto umano di cui il medico deve tener conto nelle sue determinazioni circa le cure da praticare. “Desiderio” esprime una nota dell’affettività, una preferenza o un’aspirazione, che si offre all’interlocutore non in termini contrattualistici imperativi, bensì di orientamento verso una scelta auspicata come migliore alla luce del proprio stile e modo di vita. Direttiva anticipata, invece, è la volontà cristallizzata ora per un futuro incerto e indeterminato, allo stesso modo della decisione mortis causa, che è una volontà manifestata oggi e destinata ad avere efficacia post mortem, quando nulla e nessuno potranno più mutare alcunché rispetto a ciò che è stato deciso. Sul tema si è espresso il Comitato Nazionale per la Bioetica in data 18 dicembre 2003 con il documento Dichiarazioni anticipate di trattamento, invitando il legislatore a vincolare il medico a prendere in seria e adeguata considerazione le indicazioni contenute nel protocollo anticipato e non ad assoggettarlo in maniera vincolante a esse senza alcuna eccezione e flessibilità (83).
Dicendo, dunque, che si deve tener conto dei desideri precedentemente espressi, la Convenzione di Oviedo si è mossa nella direzione di una lettura della relazione medico/paziente in termini di “alleanza terapeutica”, ove tali desideri debbono essere tenuti in conto, ma non sono l’unico ed esclusivo fondamento della decisione da assumere.
Come bene ha messo in rilievo l’articolo 38, comma 4, del Codice deontologico “il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tener conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato”. Formulazione che mette correttamente in luce, da un lato, l’obbligo del medico di tener conto delle preferenze che il paziente ha manifestato in passato, ma, da un altro lato, che le scelte, in caso di incapacità del paziente, vanno ultimamente attribuite alla responsabilità del medico, illuminata dalla sua scienza ed esperienza.
La lettura dell’articolo 9 della Convenzione di Oviedo, tradotta in legge interna dello Stato, nonché dell’articolo 38 del Codice deontologico evidenziano, dunque, che non è necessario alcun intervento normativo ulteriore affinché sia attribuito il giusto rilievo, nel quadro dell’”alleanza terapeutica” fra medico e paziente, alle preferenze di quest’ultimo.
Stando così le cose, non sembra proprio che le direttive anticipate costituiscano un progresso nella linea dell’”alleanza terapeutica”, come se con esse l’alleanza assumesse “la sua forma più alta” (84), perché il paziente “nella sua fragilità si affida a chi agirà in suo nome e nel suo esclusivo interesse” (85). Piuttosto, spogliato il discorso da ogni superfetazione retorica, esse costituiscono un passo indietro rispetto al principio dell’”alleanza terapeutica”, perché ricalcano, sul piano giuridico, un’ideologia contrattualista e individualista e impongono il rispetto pedissequo di un volere individuale cristallizzato, senza che sia possibile, al netto di sforzi adattativi posticci, l’affidamento fiducioso del desiderio soggettivo all’esperienza e alla scienza di colui che è chiamato a effettuare la scelta concreta.
10. Mistificazioni ideologiche e aporie logiche nell’istituto delle “Direttive anticipate di trattamento”
Con tali dichiarazioni ogni persona sceglie in via anticipata se intende o meno ricevere, per quando sarà incapace di decidere autonomamente, determinate cure.
È evidente, anzitutto, la radicale differenza fra la situazione in esame e la manifestazione effettiva di volontà in ordine alla ricezione di cure nel momento in cui esse si rendono concretamente necessarie.
Ogni dichiarazione di volontà presuppone logicamente un oggetto determinato, recepito dalla coscienza, che costituisce il presupposto necessario dell’atto di volontà. Con l’atto di coscienza l’individuo porta un giudizio prudenziale su quanto dev’essere fatto o evitato in questa o quella situazione concreta, hic et nunc. Allorché taluno esprime un consenso o un dissenso effettivo rispetto al compimento di determinate terapie, l’oggetto che costituisce il presupposto della decisione è una patologia in atto rispetto a cui le cure potrebbero o non potrebbero avere una efficacia prevedibile. Quando, invece, si esprime anticipatamente una dichiarazione con riferimento a una situazione meramente ipotetica, non v’è una effettiva manifestazione di volontà, perché manca l’oggetto su cui la coscienza porta il giudizio prudenziale, da cui scaturisce l’atto volitivo.
Da questo punto di vista è netta la differenza anche fra il “testamento di vita” o “testamento biologico” e il testamento mortis causa, sul cui modello si è voluto costruire il nuovo istituto. Il testatore dispone in ordine a tutti, o a parte dei rapporti giuridici che in quel momento a lui fanno capo; quindi, esprime la sua volontà effettiva in ordine a un oggetto determinato. Al contrario, nel Living Will non avviene una vera manifestazione di volontà, perché l’oggetto del volere non è determinato.
Si tratta, dunque, di un artificio giuridico che vuole trasformare in volontà quanto volontà non può essere, al fine di attribuire forza di legge, contro la forza delle cose, al principio di autonomia del soggetto. È di tutta evidenza, infatti, che non è possibile sapere cosa il soggetto avrebbe veramente voluto se fosse stato in condizione di decidere allorché la malattia avesse fatto il suo corso, quando la sua esperienza di vita si fosse eventualmente modificata, quando fosse del tutto mutato il contesto familiare, quando si fossero evolute le sue sensazioni e le sue aspirazioni in ordine alla conclusione della vita.
Né va dimenticata la possibilità dell’evoluzione della medicina. Nel momento della dichiarazione anticipata una malattia può essere incurabile; quando, invece, le cure si rendono necessarie, può essere divenuta curabile, grazie, magari, a terapie non particolarmente gravose. L’assurdità di dover tener conto di decisioni anticipate di tal genere mette in luce l’artificiosità dell’istituto. La pietrificazione della propensione manifestata da una persona in un determinato momento e l’equiparazione di tale desiderio a una legge valida pro futuro, anche quando eventualmente siano cambiati tutti o alcuni fra i parametri che hanno condizionato l’espressione, costituisce una reale confisca dell’esistere concreto del soggetto a vantaggio di un modello astratto di “uomo”. Alla volontà concreta si sostituisce un simulacro del volere. E a questa res materiale viene attribuito il valore di legge per rendere omaggio al postulato ideologico dell’assoluta autonomia.
La contradditorietà intrinsecamente inerente nel trattare come se fosse una volontà effettiva quanto non è tale si riverbera immediatamente, in termini di problema quasi insolubile, sulle situazioni oggetto di regolamentazione giuridica.
L’oggetto del testamento biologico non può non essere costituito da indicazioni astratte di “casi” terapeutici descritti in modo vago ed elastico, con espressioni del tipo “stato terminale”, “dolore non tollerabile”, “prospettive di vita”, “incapacità irreversibile”. Onde, come già più sopra si è detto, le dichiarazioni anticipate non sono veri atti di volontà, ma piuttosto dichiarazioni di principio, che esprimono una scelta ideologica, sganciata dal rapporto concreto con il problema della cura, che nasce soltanto quando la malattia si sia manifestata con tutte le sue caratteristiche.
Le dichiarazioni anticipate, pertanto, si pongono in contrasto irrimediabile con il principio ineludibile che presidia l’istituto del “consenso informato”. Esso postula, appunto, che la manifestazione in ordine alla scelta o al rifiuto della terapia sia pronunciata dal soggetto in base a una informazione il più possibile completa sulla diagnosi, sulla terapia, sulle prospettive di vita, sui costi e sui benefici umani del trattamento. Dunque, per seguire l’astratto postulato dell’autonomia, si nega contradditoriamente la premessa fondamentale che sorregge l’autonomia medesima, che, cioè, il soggetto esprime un consenso valido soltanto quando è compiutamente informato in ordine alla natura, alla diagnosi e al decorso prevedibile della patologia.
In questo modo, allo scopo di rendere effettivo il falso postulato della disponibilità della salute e della vita, si rende giuridicamente possibile quanto non lo è ontologicamente, che, cioè, una persona decida in modo informato per il caso dell’insorgere di una situazione inesistente nel momento in cui formula la scelta. La negazione in radice del presupposto essenziale dell’autonomia — il cosiddetto “consenso informato” —, è cosa estremamente indicativa della incompatibilità dell’istituto con l’ordinamento giuridico.
Per superare, almeno in parte, il problema della vaghezza delle indicazioni che il soggetto non esperto di medicina è costretto a enunciare nel testamento di vita, viene spesso suggerito che il medico sia chiamato a fornire consigli e indicazioni per la sua compilazione.
La soluzione è peggiore del male, almeno da due punti di vista. In primo luogo, l’indispensabile apporto del medico affinché la dichiarazione anticipata assuma caratteristiche di precisione fa vacillare l’autonomia del paziente a favore della competenza del medico. Né l’integrazione fra i due soggetti fa sorgere un’”alleanza terapeutica”, di cui può discorrersi soltanto nella concretezza della situazione in cui le cure si rendono possibili o utili o necessarie. In secondo luogo, la collaborazione del medico, irrigidendo il protocollo scritto, allontana vieppiù la decisione finale dall’esperienza del soggetto, che è bensì capace di comprendere concetti elastici come “dolore insopportabile”, “malattia irreversibile”, “prognosi infausta”, ma non i processi specifici che conducono alla morte nelle varie patologie ipotizzabili.
Un altro aspetto aporetico concerne l’interpretazione delle direttive anticipate. Poiché esse sono scritte “al buio”, quando ancora non sussiste la situazione patologica, necessitano di un adattamento interpretativo, tanto più incisivo quanto più esse sono redatte in modo elastico e vago. Onde non si sfugge al seguente dilemma. Se il medico ha istruito il soggetto nella redazione delle direttive, il fulcro della scelta si sposta su di lui, a scapito dell’autonomia del paziente; se, al contrario, le direttive sono redatte integralmente dal soggetto, il deficit di precisione trasferisce necessariamente il fulcro della decisione sull’interpretazione che il medico deve compiere del testo dichiarativo.
Per ovviare a questa aporia alle dichiarazioni anticipate viene spesso a esse affiancato l’istituto del “fiduciario”, cui è attribuito il compito di sostituirsi al testatore quando questi abbia perso l’autonomia, esprimendone lui la volontà. Tocca, pertanto, a un altro soggetto di disseppellire e di dare nuova vita all’opinione espressa in passato e cristallizzata nel documento scritto.
La necessità dell’integrazione tramite il “fiduciario” costituisce la riprova della contraddittorietà dell’istituto. Affinché un’opinione valga come volontà, occorre che un terzo esprima effettivamente la volontà in nome e per conto del paziente. La volontà che veramente conta, in definitiva, è la volontà dell’intermediario, che ricostruisce ed esprime presuntivamente quanto egli ipotizza sarebbe stata la volontà del soggetto, se si fosse trovato nella situazione oggi realmente esistente.
Tutto ciò a tacere dei problemi circa la verifica della fedeltà dell’interprete, che, mosso da motivazioni egoistiche, può oltrepassare i confini fissati dal testatore, e il probabile insorgere di conflitti fra l’interprete designato e gli altri familiari, o conviventi, che eventualmente nutrono opinioni divergenti dalle sue.
11. Dal “diritto”
al “dovere” di redigere dichiarazioni anticipate di trattamento: l’istituzionalizzazione dell’aiuto al suicidio
Nell’orientamento più diffuso la redazione delle dichiarazioni anticipate configura una mera facoltà della persona, sì ché ognuno conserva il diritto di non redigere l’atto, affidandosi all’”alleanza terapeutica” con il medico e alle determinazione che egli, se ancora capace, potrà esprimere nel momento della malattia. Senonché, il dinamismo che muove logicamente questo istituto implica, in modo stringente, che la redazione delle dichiarazioni anticipate divenga un diritto/dovere, cui tutte le persone, volenti o nolenti, sono obbligate. Se, infatti, tale istituto risponde allo scopo, tipico dell’idea contrattualistica e individualistica della medicina, di delimitare previamente l’oggetto della prestazione dedotta nel contratto, nonché all’idea, cautelativa e difensivistica, ex parte medici, di porsi al riparo dagli effetti dell’azione giudiziaria per inadempimento — per eccesso o per difetto — della prestazione, è evidente che la redazione delle dichiarazioni anticipate non può essere lasciata alla libera iniziativa del singolo, ma deve diventare oggetto di un dovere pubblico.
Nel disegno di legge presentato al Senato il 27 giugno 2006 — primi firmatari Ignazio Roberto Marino e Anna Finocchiaro — l’articolo 10 prevede che tutti i cittadini, nelle forme e nei modi stabiliti dalla legge e da un decreto attuativo del ministro della Salute, “[…] sono tenuti a rendere la dichiarazione anticipata del trattamento” (86). L’articolo 11 soggiunge che i cittadini che non hanno reso tale dichiarazione sono sollecitati periodicamente a renderla “[…] attraverso l’azione dei medici di medicina generale e degli uffici della pubblica amministrazione nei casi di richiesta dei documenti personali di identità” (87).
La relazione che correda il citato disegno di legge non offre alcuna spiegazione di tali disposizioni. La ratio oggettiva è, però, evidente. Nel passaggio dalla “facoltà” al “dovere” si consuma sia il riconoscimento della giuridicizzazione contrattualistica della relazione medico/paziente, sia, soprattutto, della lettura in termini di “diritto” del rifiuto di qualsivoglia tipo di cura, anche se questa non è straordinaria, ma utile per il bene del paziente. Affinché tale rifiuto acquisisca lo statuto di “diritto”, e non sia più considerato un semplice potere di fatto, occorre che tutti siano obbligati a esercitarlo, enunciando anticipatamente la loro “volontà”.
Sul piano pratico l’assegnazione al cittadino di un tale diritto/dovere configura un peso psicologico non indifferente, costituendo un’intromissione illecita della pubblica autorità nella sfera intangibile della riservatezza personale. Sul piano etico contribuisce a mettere in crisi la convinzione, ancora radicata nel corpo sociale, dell’indisponibilità della vita e della salute. Non vi è dubbio che ciascuno sia chiamato a esercitare una libertà di scelta e, quindi, non è costretto a schierarsi contra vitam e contra salutem. Senonché, nell’obbligo di effettuare la scelta sono presenti tre presupposti ineludibilmente destinati a cambiare il pre-giudizio, favorevole alla vita e alla salute, nutrito dalla grande maggioranza della popolazione, e intrinsecamente inerente alla tendenza ad esse — cosiddetto istinto di conservazione — radicata in ogni uomo. Il primo presupposto sta in ciò che, essendo indispensabile una scelta, si dà per ammesso implicitamente che non esistano criteri idonei a stabilire obiettivamente il limite giusto dell’attività curativa; il secondo, che soltanto l’autonomia del soggetto può dettare questi limiti; il terzo, che non sussistono limiti, etici e giuridici, alla latitudine di tale scelta.
12. Condizioni, contenuto e interpretazione delle “Direttive anticipate di trattamento”
Un ulteriore aspetto, che dimostra la farraginosa e antirealistica sovrastruttura indotta dalle dichiarazioni anticipate, è rivelato dalla difficoltà di stabilire il momento a far data dal quale esse sono destinate ad avere efficacia. È troppo semplice e comunque non risolutivo dire che esse valgono dal momento in cui interviene lo stato d’incapacità decisionale del disponente. Più importante è individuare quale soggetto sia titolare del potere/dovere di certificare il sopravvenuto stato d’incapacità. Non certamente il curante, per il sospetto che su di lui viene fatto gravare, in base alla ideologia contrattualista; in tale ottica, infatti, il medico curante sarebbe proprio il soggetto meritevole di essere rigorosamente controllato, affinché non operi secondo il principio di beneficità in danno del principio di autodeterminazione. Neanche i familiari, né l’eventuale “fiduciario”, che non hanno la competenza scientifica a pronunciarsi su tali questioni. Occorre allora prevedere un’istanza superiore, composta da esperti di neurologia e di psichiatria, oltre che del settore specialistico cui afferisce la malattia del paziente, che si pronunci sulla sopravvenuta incapacità. La creazione di un grado formale di giudizio per decidere se debbano o meno entrare in vigore le dichiarazioni anticipate è indicativo dell’allontanarsi dell’istituto dal terreno di una medicina umanistica e del suo confuso invischiarsi nel campo della controversistica amministrativa e medico/legale.
Estremamente inquietante è, poi, il problema che nasce nel caso in cui il paziente, giudicato non capace, chieda cure che ha rifiutato nel protocollo scritto. In questo caso è arduo valutare se si debba tener conto della volontà dell’incapace ovvero della volontà presuntivamente ricavabile dalla dichiarazione anticipata anche se una scelta a favore della salute e della vita dovrebbe indurre a tener conto della richiesta dell’incapace e non del Protocollo scritto.
Gravissimi sono, poi, i problemi relativi ai contenuti e ai limiti delle dichiarazioni anticipate, nonché all’efficacia, più o meno vincolante che esse debbono esplicare nei confronti del medico. Su questi due temi cruciali le direttive anticipate, invece di apportare utili chiarificazioni, aggrovigliano inestricabilmente la matassa delle incertezze.
Quanto al primo aspetto, viene in considerazione soprattutto l’ammissibilità delle scelte esplicitamente contra vitam. Nell’impostazione prevalente in dottrina e nella maggioranza delle proposte legislative attualmente pendenti in Senato, non è previsto alcun limite alla libertà dispositiva del dichiarante. Così, per esempio, accade nel disegno di legge n. 687, già prima citato, di cui il primo firmatario è il sen. Marino. Si legge, infatti, all’articolo 1. a) che l’oggetto delle dichiarazioni anticipate è costituito dai trattamenti sanitari. Il trattamento sanitario è definito al punto 1. b) come “[…] ogni trattamento praticato, con qualsiasi mezzo, per scopi connessi alla tutela della salute, a fini terapeutici, diagnostici, palliativi nonché estetici” (88).
Proposte di questo genere riconoscono implicitamente l’eutanasia, obbligando il medico a rispettare la decisione anticipata di chi, per esempio, abbia rifiutato di essere sottoposto a un intervento di sostegno vitale, che potrebbe ripristinare agevolmente condizioni normali di vita. Il dato più significativo che si ricava da questi disegni normativi è la scomparsa del principio di beneficità, secondo cui praticare o non praticare determinate terapie. Anzi, più esattamente, non tanto di scomparsa di beneficità si deve parlare, bensì soprattutto d’intronizzazione del postulato di maleficità, mai sospettato e non sospettabile di “paternalismo”: il medico, infatti, contro la prima parte del giuramento d’Ippocrate, dovrebbe infatti provocare la morte del paziente.
L’esperienza medica insegna che molto spesso un intervento terapeutico di sostegno vitale risolve un problema respiratorio o cardiocircolatorio acuto, restituendo la persona in breve tempo a una vita normale. Interventi di questo tipo, anche se urgenti, sarebbero vietati all’anestesista rianimatore nel caso in cui il malato li abbia anticipatamente esclusi.
Problemi complessi sorgerebbero nelle situazioni di assoluta emergenza. È dubbio che il rianimatore potrebbe intervenire senza prima essersi sincerato circa l’eventuale esistenza di una dichiarazione anticipata che vietasse l’intubazione e la ventilazione artificiale. Ritengo che, in casi di emergenza, il rianimatore sarebbe autorizzato a intervenire comunque, in virtù dello stato di necessità previsto all’articolo 54 del codice penale. Certamente non potrebbe intervenire, e commetterebbe il delitto di violenza privata ai sensi dell’articolo 610 del codice penale, se intervenisse, nel caso in cui qualcuno, che si trovi accanto al malato che versa in crisi acuta, rappresentasse al rianimatore che il malato ha anticipatamente dichiarato di non voler essere sottoposto a terapia rianimatoria. Non è qui il caso di anticipare i grotteschi problemi probatori che sorgerebbero in questi casi, con gli eventuali contrasti fra il rianimatore, che vorrebbe dar corso al suo compito di salvezza, e il familiare, che potrebbe esibire il documento a comprova del rifiuto. Non è chi non veda che l’istituto delle direttive anticipate contribuirebbe a frapporre ulteriori difficoltà all’arduo svolgimento dei compiti di spettanza dei medici rianimatori nelle situazioni d’urgenza, quando la salvezza del paziente dipende dalla tempestività e dalla perfezione tecnica dell’intervento.
Sono ravvisabili, poi, non poche situazioni in cui una terapia chirurgica d’urgenza, magari non complicata, né rischiosa, né particolarmente gravosa nella degenza postoperatoria e negli effetti a lungo termine, è indispensabile per risolvere un problema acuto, la cui non soluzione cagionerebbe la morte. Se il paziente fosse cosciente, non negherebbe probabilmente il suo consenso all’intervento. Ma se avesse escluso interventi chirurgici di quel tipo nelle dichiarazioni anticipate, l’intervento non potrebbe essere compiuto.
Né vanno trascurate le sfasature, sempre più frequenti in un’epoca di rapido progresso tecnologico, fra le terapie disponibili al momento in cui il soggetto ha scritto il protocollo e quelle disponibili al momento in cui si rende necessario l’intervento. Soprattutto sul piano delle tecniche chirurgiche i progressi si sono rivelati negli ultimi anni straordinariamente rapidi. Soltanto con fatica queste sfasature potrebbero essere superate, o contemplando una durata massima di validità dei protocolli, oppure autorizzando il medico a richiedere il pronunciamento di una istanza di giudizio superiore che gli consenta di disattendere le dichiarazioni scritte.
Queste difficoltà evocano il grave problema circa l’efficacia delle dichiarazioni, se esse debbano essere assolutamente vincolanti, oppure se esse siano derogabili in una serie precisa di casi. L’orientamento assolutamente autonomistico è schierato per il principio dell’inderogabilità senza eccezioni. Per quanto la saggezza dei medici sia orientata verso l’accoglimento di un criterio flessibile, tuttavia è difficile per il giurista sfuggire all’alternativa fra vincolatività assoluta e discrezionalità. Invero, o prevale il criterio dell’autonomia, e allora le direttive non possono non essere vincolanti; ovvero prevale il criterio del migliore interesse del malato, e allora le direttive non possono non valere come mera indicazione orientativa per il medico. È evidente, infatti, che, per sfuggire a una conclusione aberrante, il medico deve poter disattendere le direttive anticipate. L’ideologia autonomista, però, non può consentire a questa seconda soluzione.
L’impostazione coerentemente ispirata al principio dell’”alleanza terapeutica” fra paziente e malato pone al centro della medicina il migliore interesse di quest’ultimo, valutato alla luce del carattere ordinario o straordinario delle cure, nonché della sensibilità e dei desideri del malato. L’assoluta autonomia annienta l’”alleanza terapeutica” e impedisce al medico di agire nel migliore interesse del paziente, pur di tener fermo un protocollo, magari redatto in maniera poco chiara o pericolosamente restrittiva in un’epoca e in un contesto del tutto svincolato dal problema che affligge hic et nunc il paziente.
Ove è evidente che una scelta ideologica astratta prevale ingiustamente sul migliore interesse del malato.
13. La rinuncia alla guida e al controllo della ragione nelle scelte di fine vita
L’aspetto forse deteriore dell’istituto delle direttive anticipate sta, però, in ciò, che esso avvalora e quasi rende tassativa l’idea che non esistano criteri validi, al di fuori dell’autonomia soggettiva, per stabilire quando le terapie, determinando un inutile accanimento sul corpo del malato, non debbano più essere praticate.
Interpretato assolutisticamente, invero, il principio di autonomia implica il rigetto del discernimento razionale come strumento valido per assumere la decisione nei casi difficili.
Un primo aspetto merita di essere sottolineato. Proprio in quanto destinata a sottrarsi alla guida e al controllo della razionalità, l’ideologia che sottende le dichiarazioni anticipate è frutto e, al contempo, alimento, della frantumazione dei rapporti sociali. Si dice spesso, con tono ingiustamente critico e svalutativo, che il rispetto del diritto alla vita, con il corollario della sua indisponibilità, sarebbe la conseguenza di un’etica religiosa, che non potrebbe trovare accoglienza nella società contemporanea, ispirata al principio di laicità e, dunque, d’indipendenza da qualsiasi etica a fondamento religioso. Ma si dimentica con ciò di riconoscere che ogni società, tanto più quella che vuol essere, e non soltanto ideologicamente proclamarsi, democratica, ha necessità di formare un consenso condiviso interno ad alcuni princìpi fondamentali, che costituiscono la base della convivenza comune, nell’accoglienza, e non nel rifiuto di quanti si trovano in condizioni di fragilità e di debolezza.
Il diritto alla vita di ognuno, indipendentemente dalle condizioni fisiche e psichiche in cui essa viene vissuta, è principio non negoziabile in una società democratica, che riconosca l’uguaglianza di tutti i suoi componenti. L’esaltazione individualistica dell’autonomia finisce così per annichilire il principio di solidarietà. Ciascuno è lasciato a sé stesso, a una scelta cristallizzata in un documento, a una scelta espressa ideologicamente, senza alcun riferimento alla concretezza della vita realmente vissuta.
L’esaltazione dell’autonomia del singolo deresponsabilizza la società dall’aiutare ciascuno a vivere fino in fondo la sua vita secondo dignità; svuota il corpo sociale della linfa vitale della solidarietà; inaridisce e burocratizza il momento terminale della vita; impedisce al dialogo vivificatore fra le persone di riempire di senso e di valore la sofferenza.
La solidarietà fra gli uomini, che trova il suo momento più alto nelle situazioni di acuta sofferenza, ove anche i più egoisti riescono talvolta a offrire agli altri qualcosa di sé, è cancellata dall’orizzonte della malattia terminale, in cui l’uomo viene consegnato ciecamente a una scelta ideologica astratta. L’esaltazione assolutistica dell’autonomia individuale chiude ciascuno nella monade atomistica dell’incomunicabilità, ove non ci si rende conto che l’uomo trova il suo compimento, anche quando è afflitto dalla più grave malattia, nella relazione con gli altri, e con l’Altro. La rinuncia a focalizzare hic et nunc la giusta scelta circa la continuazione o l’abbandono delle cure rivela sfiducia nella forza di una ragione dialogante che, come bene comune a tutti gli uomini, è in grado di accomunare tutti intorno a decisioni razionali e condivise. Il movimento ideologico per l’eutanasia tende spesso a delegittimare lo sforzo della ragione volto a individuare i criteri per la corretta distinzione fra le situazioni da cui scaturisce l’obbligo di cura, con la conseguente posizione di garanzia in capo al medico curante, e le situazioni in cui tale obbligo non sussiste, o addirittura, in cui sorge un obbligo diverso, di non più continuare l’eventuale cura intrapresa o di non iniziarne alcuna.
In queste ultime situazioni la mancata attivazione di terapie chirurgiche o farmacologiche, o di sostegno vitale, ovvero l’interruzione di terapie già intraprese, ma che non hanno fornito risultati positivi di sorta, non costituiscono eutanasia, né, ove l’omissione o l’interruzione derivino da richiesta del paziente, aiuto al suicidio.
Sotto quest’ultimo riguardo non è raro assistere a esercitazioni ideologiche, da parte dei sostenitori dell’eutanasia e del suicidio assistito, in cui si sostiene artatamente che legislazioni espressamente eutanasiche sarebbero addirittura necessarie per porre un argine e per rigorosamente controllare i comportamenti occultamente eutanasici che già avverrebbero, con notevole frequenza, negli ospedali a riguardo dei malati terminali. Talora anche i medici sono indotti a dichiarare di aver praticato l’eutanasia o il suicidio assistito in relazione a casi di malati terminali.
Senonché, pur non potendosi escludere che ciò in talune occasioni sia realmente accaduto, molto spesso vengono descritti come eutanasici, con indebita estensione del termine, comportamenti perfettamente rispettosi del diritto alla vita, che si collocano nel perimetro del rifiuto di un indebito accanimento terapeutico. Come ha rilevato Robert Spaemann, denunciare ogni restrizione nell’applicazione di metodi tecnologicamente straordinari come uccisione per omissione significa in verità preparare la strada per l’uccisione attiva (89).
Con interventi realmente profetici, perché pronunciati quando ancora gli sviluppi tecnologici non avevano rivelato l’urgenza del problema, Papa Pio XII (1939-1958), ancorato alla roccia della verità circa la dignità della persona umana e la sacralità della vita, aveva più volte dichiarato che, in presenza di certe circostanze, quando i trattamenti sono “straordinari” ed eccessivamente gravosi, essi possono lecitamente essere omessi (90). Lo stesso principio è stato riaffermato il 5 maggio 1980 nella Dichiarazione sull’eutanasia “Iura et bona” della Congregazione per la Dottrina della Fede (91) e da Papa Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium Vitae.
La ragione dialogante dell’uomo, comune al medico, al paziente e a tutti coloro in grado di riferire qualcosa di significativo sulla sua vita, deve sforzarsi di scoprire, per ogni singolo caso concreto, con la prudenza, sintesi della virtù morale e della competenza e dell’esperienza del medico, quale sia la scelta giusta per il bene del malato.
Una mentalità giuridica esasperatamente tecnicistica favorisce, invece, l’indebita estensione del concetto di eutanasia a situazioni e condotte che, tutto al contrario, non presentano alcun carattere illecito. Spesso il giurista, insufficientemente preparato sul piano medico/scientifico, pretende di sovrapporre i suoi schemi astratti alla realtà variegatissima della malattia, distorcendo criteri valutativi, di carattere etico e scientifico, il cui uso prudenziale sfocia in giudizi di verosimiglianza, in criteri assolutistici, che pretendono di approdare a certezze impossibili da raggiungere.
La difficoltà di applicare con certezza una legge morale assolutamente certa, quale è quella di Non uccidere, riguarda il trattamento delle malattie terminali. Se i princìpi sono chiari e precisi, la loro applicazione non può non essere, almeno in alcuni casi particolari, estremamente difficoltosa, lasciando spazio a incertezze. Invece i giuristi, più la materia sfugge, per la sua natura proteiforme, a una regolamentazione precisa, più insistono nel richiedere leggi precise e dettagliate, che prevedano, in modo dettagliato, tutti i casi possibili. E dall’ovvio fallimento del tentativo di regolare con precisione tutti i casi non traggono la salutare lezione che forse sarebbe meglio abbandonare la pretesa di fornire specificazioni impossibili al principio universale di diritto — Non uccidere —, bensì suggeriscono di abbandonare il discernimento prudenziale caso per caso e di abolire il valore universale del “Non uccidere”, autorizzando l’uccisione diretta del paziente, “almeno in taluni casi”, ben inteso, “precisi e determinati”, secondo il linguaggio in cui sogliono esprimersi i giuristi.
Questa malattia del diritto è difficilmente curabile. Occorre qui almeno denunciarla per far splendere nuovamente in tutta la sua ragionevolezza il diritto alla vita, che non è compatibile né con l’abbandono né con l’accanimento terapeutico.
È opportuno proporre un esempio significativo degli errori indotti da una visione che sovrappone erroneamente gli schemi giuridici alla realtà. Si parte dal considerare come atto omicidiario il distacco a un paziente di una macchina di sostegno vitale, senza considerare se il suo uso abbia portato o meno benefici al paziente e se tale uso potrà in futuro apportarne eventualmente alcuni. Il distacco del paziente dal respiratore artificiale viene visto esclusivamente nel suo profilo causale, e non nel profilo intenzionale, alla luce dell’insieme delle circostanze, della diagnosi e della prognosi ricollegabile all’uso dello strumento. In quest’ottica ottusamente causalistica, ogni distacco del respiratore viene letto come atto omicidiario. Siccome, però, per dettato normativo, alla condotta attiva va equiparata quella omissiva (cfr. articolo 40, comma 2, del codice penale), anche la mancata applicazione della macchina costituirebbe atto omicidiario per omissione. L’uso degli strumenti di sostegno vitale diventa così obbligatorio in ogni caso, pena la responsabilità per omicidio volontario, anche quando l’uso della macchina è assolutamente futile in relazione alle condizioni del paziente e alle sue potenzialità di vita. In forza di questa abnorme costruzione giuridica si fa scaturire l’accusa ai medici, che non abbiano applicato lo strumento di sostegno vitale o, più ancora, che lo abbiano distaccato, di praticare l’eutanasia. Si pretende, poi, con illogica coerenza, di “legalizzare” l’eutanasia, al fine di evitare l’ingiusta criminalizzazione dei medici.
Ancor peggio, si postula l’esigenza che tutti i cittadini siano obbligati a dichiarare anticipatamente se vogliono o non vogliono, in caso di necessità per la sopravvivenza, l’uso di uno strumento di sostegno vitale.
L’ideologia di una medicina difensivistica in tal modo trionfa. Ma non vince certamente la ragione. Invero, nell’ottica delle dichiarazioni anticipate, lo strumento di sostegno vitale potrà essere distaccato — o, addirittura, non applicato — ai pazienti che abbiano previamente dichiarato di non volerlo, anche se il suo uso offrirebbe chances di ricupero; al contrario, il medico sarà costretto a mantenere il paziente attaccato al respiratore, se il paziente così risulta aver scritto nel protocollo, anche se l’uso del mezzo artificiale è totalmente futile. L’oscillazione dall’eutanasia all’accanimento terapeutico diventa così obbligatoria; e la strada della ragione, che impone l’uso o il non uso dello strumento a seconda della sua oggettiva utilità o non utilità, è completamente abbandonata.
14. Conclusione: lo svuotamento della tutela penale dell’omicidio del consenziente e dell’aiuto al suicidio
Che determinate terapie non debbano essere praticate quando siano completamente futili, anche se servissero a prolungare la sopravvivenza del paziente, è principio inerente a un ragionevole esercizio della medicina, che la deontologia dei medici ha sempre compreso e praticato. Meritano grande attenzione, da ultimo, le raccomandazioni della Commissione di Bioetica della SIAARTI-Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva per l’approccio al malato morente, che forniscono il riferimento per orientare decisioni al riguardo di trattamenti intensivi. Si tratta d’indicazioni di grande rigore ed equilibrio, imperniate sul rifiuto dell’eutanasia e sul principio che “la limitazione di trattamenti intensivi non va confusa con l’eutanasia, che consiste, invece, in accordo con tutta la più recente riflessione bioetica, nella soppressione intenzionale di una vita umana, su richiesta o meno del malato stesso” (92).
Con il moltiplicarsi e l’arricchirsi delle terapie e con l’ingresso sconvolgente nella medicina delle biotecnologie il problema del se, del come e del quando delle cure si è enormemente complicato. Non per questo la ragione dell’uomo deve cedere alla tentazione di rinunciare al dominio sui mezzi tecnologici da lui creati, lasciandosi guidare dall’idea perversa secondo cui sarebbe lecito fare tutto quanto è tecnicamente possibile fare (93).
Questo falso asserto trova purtroppo attuazione sia per eccesso sia per difetto. Per un verso, sospinge all’accanimento terapeutico. Si fa — e si ritiene addirittura di dover fare — tutto quanto è possibile tecnicamente fare, anche se assolutamente futile, talora per scopi di lucro o di sperimentazione. Per un altro verso, il postulato antiumanistico induce all’uccisione diretta, quando ciò appaia tecnicamente possibile con l’uso di mezzi impropriamente assimilati a “trattamenti”. Non è raro constatare che, attraverso una manipolazione linguistica, i sostenitori della “legalizzazione” dell’eutanasia assimilano le condotte eutanasiche a trattamenti terapeutici. Come ha notato Gonzalo Herranz Rodríguez, direttore del Dipartimento di Bioetica dell’Università di Navarra, in Spagna, l’uso di eufemismi è endemico nella letteratura dei movimenti pro eutanasia: l’uccisione per pietà diventa terapia terminale; l’avvelenamento con monossido di carbonio, cura ospedaliera di nuova generazione (94). V’è una notevole quantità di sinonimi: aiuto nel morire, benigna omissione da parte del medico, terapia eutanasica, morte pietosa per deidratazione, overdose di droghe legalmente prescritta, trattamento medico di cui la morte è necessaria e inevitabile conseguenza, astensione dalla alimentazione e dalla idratazione come trattamento appropriato (95).
In questo quadro drammatico occorre tornare con decisione, e attestarsi con fermezza, al principio sapienziale per cui non si può moralmente e giuridicamente fare tutto quanto è possibile tecnicamente fare. Infatti, la “signoria” (96) dell’uomo sul creato non “[…] è […] assoluta, ma ministeriale; è riflesso reale della signoria unica e infinita di Dio. Per questo l’uomo deve viverla con sapienza e amore, partecipando alla sapienza e all’amore incommensurabili di Dio” (97).
Questo messaggio circa la distinzione fra il potere tecnico di fare e la sua liceità morale e giuridica deve costituire l’asse su cui i giuristi cattolici orientano i propri ragionamenti e le proprie scelte, assumendosi l’impegnativo compito di manifestare a tutti la straordinaria bellezza di questo messaggio di verità.
Mauro Ronco
Note:
(1) Cfr. la puntuale definizione dell’eutanasia, proposta non sempre in modo preciso e, talora, in modo troppo estensivo, in Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia “Iura et bona”, del 5-5-1980, n. II, in Cristianità, anno XXXIV, n. 337-338, settembre-dicembre 2006, pp. 47-50 (p. 48); e in Giovanni Paolo II (1978-2005), Enciclica “Evangelium Vitae” sul valore e l’inviolabilità della vita umana, del 25-3-1995, n. 65: “Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore”; sull’enciclica, cfr. Pontificia Accademia per la vita, Commento interdisciplinare alla “Evangelium Vitae”, Direzione e coordinamento Ramón Lucas Lucas L.C., Edizione italiana a cura di Elio Sgreccia e R. Lucas Lucas, con Prefazione di Juan de Dios Vial Correa e Conclusione di Mons. E. Sgreccia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1997; sul piano giuridico, cfr. Ferrando Mantovani, Eutanasia, in Digesto delle Discipline penalistiche, vol. IV, Utet, Torino 2006, pp. 422-430.
(2) Cfr. Giovanni Paolo II, enciclica cit., n. 19.
(3) È opportuno differenziare il principio di “non maleficità”, “primum non nocere”, dal principio di “beneficità”, perché il primo obbliga tutti in modo primario, e quindi precede qualsiasi tipo d’informazione e di consenso. Che il medico non possa arrecare alcun danno al paziente è principio incondizionato, onde non è lecito arrecargli un danno — per esempio, la morte — anche se il paziente lo chiede. Le due parti del principio — non maleficità e beneficità — sono documentate nel giuramento d’Ippocrate (460-377 a.C.) e costituiscono il fondamento della medicina in Occidente. Come si vedrà nel testo, il giuramento di Ippocrate è stato stigmatizzato, con sempre maggior vigore a partire dagli anni 1970, come la base del “paternalismo”. È pacifico, comunque, che almeno il principio di non maleficità non possa essere tacciato di “paternalismo”. Tale principio risulta in modo particolare al n. 2 del capitolo secondo, La terapeutica, del giuramento: “Giammai, mosso dalle premurose insistenze di alcuno, propinerò medicamenti letali, né commetterò mai cose di questo genere. Per lo stesso motivo mai ad alcuna donna suggerirò prescrizioni che possano farla abortire, ma serberò casta e pura da ogni delitto sia la vita sia la mia arte” (cit. in Diego Gracia Guillén, Fondamenti di bioetica. Sviluppo storico e metodo, trad. it., con Prefazione di Sandro Spinsanti, San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 1993, p. 58). Il principio di beneficità, che sottende peraltro l’intero giuramento, è espresso in modo particolare al punto 1 del capitolo secondo di esso, ov’è detto che “[…] difenderò [i malati] da ogni cosa ingiusta e dannosa” (cit. ibidem). Cfr. un’ampia informazione, ibid., pp. 32-88.
(4) Cfr. la delineazione degli aspetti giuridici, in Kurt Schmoller, Euthanasia and assisted suicide: juridical profiles [Eutanasia e suicidio assistito: profili giuridici], in Pontificia Academia Pro Vita, The dignity of the dying person. Proceedings of the fifth Assembly of the pontifical Academy for life [La dignità del morente. Atti della quinta Assemblea della Pontificia Accademia per la Vita] (Città del Vaticano, 24-27 febbraio 1999), edito da J. De Dios Vial Correa ed E. Sgreccia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000, pp.172-211.
(5) Cfr. il modello dell’”alleanza terapeutica”, in Giannino Piana, Bioetica. Alla ricerca di nuovi modelli, Garzanti, 2002, pp. 184-189; Francesco Bellino, I fondamenti della bioetica. Aspetti antropologici, ontologici e morali, Città Nuova, Roma 1993, pp. 75-85; e Paolo Cattorini, Terapia e parole. Il rapporto medico-paziente come nucleo essenziale della prassi medica, in Medicina e Morale. Rivista Internazionale bimestrale di Bioetica, Deontologia e Morale Medica, nuova serie, anno XXXV, n. 4, Roma ottobre-dicembre 1985, pp. 781-799.
(6) Giovanni Paolo II, enciclica cit., n. 19.
(7) Ibidem.
(8) Cfr. la fondazione filosofica del tema costituito dalla “lotta tra la “cultura della vita” e la “cultura della morte““, in Gonzalo Miranda L.C., “Cultura della morte”: analisi di un concetto e di un dramma, in Commento interdisciplinare alla “Evangelium Vitae“, cit., pp. 225-243, che ricostruisce anche filologicamente il crescente riferimento al tema nel magistero di Papa Giovanni Paolo II e nell’insegnamento della Chiesa. Lo scontro fra Vangelo della vita e cultura della morte è mirabilmente descritto da mons. Carlo Caffarra, Vangelo della vita e cultura della morte, Comitato per la Libertà di Educazione, Torino-Di Giovanni Editore, San Giuliano Milanese (Milano) 1992, pp. 31-35.
(9) Giovanni Paolo II, enciclica cit., n. 19.
(10) Ibid., n. 20.
(11) Sulla sacralità della vita nelle varie tradizioni religiose, cfr. Ignacio Carrasco de Paula, La sacralità e l’indisponibilità della vita umana nella tradizione cristiana, in Livio Melina, E. Sgreccia e Stephan Kampowski (a cura di), Lo splendore della vita: Vangelo, scienza ed etica. Prospettive della bioetica a dieci anni da “Evangelium vitae”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, pp. 191-197; Amnon Carmi, Il senso della vita: una prospettiva ebraica, ibid., pp. 199-204; Dariusch Atighetchi, La dimensione politica della bioetica islamica, ibid., pp. 205-213; e Jae-Suk Lee, La sacralità della vita umana secondo il buddhismo, ibid., pp. 215-226.
(12) Sul rapporto fra il rispetto della vita e il diritto cfr. fondamentali riflessioni in Francesco D’Agostino, Il rispetto della vita e il diritto, in Pontificia Academia Pro Vita, La cultura della vita: fondamenti e dimensioni. Atti della settima assemblea generale della Pontificia Accademia per la vita (Città del Vaticano, 1-4 marzo 2001), a cura di J. De Dios Vial Correa e E. Sgreccia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, pp. 207-213; Idem, La vita e il diritto: l’”Evangelium vitae” letta da un giurista, in Idem, Bioetica nella prospettiva della filosofia del diritto, 3a ed. ampliata, Giappichelli, Torino 1998, pp. 107-119; e Idem, Diritto e eutanasia, ibid., pp. 223-240, da cui ho tratto ispirazione per le riflessioni contenute nel testo.
(13) I. Carrasco de Paula, art. cit., p. 193. Per l’eccessiva semplificazione della contrapposizione, proposta soprattutto dagli autori d’ispirazione laicistica, fra l’etica della qualità della vita e l’etica della sacralità della vita, cfr. Maurizio Faggioni, La qualità di vita e la salute alla luce dell’antropologia cristiana, in Pontificia Academia Pro Vita, Qualità della vita ed etica della salute. Atti dell’undicesima assemblea generale della Pontificia Accademia per la vita (Città del Vaticano, 21-23 febbraio 2005), a cura di E. Sgreccia e I. Carrasco De Paula, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, p. 26 e gli autori ivi citati alla nota 12.
(14) Sulla cifra giuridica del suicidio, se sia connotato da una nota di disvalore sotto il profilo giuridico, ovvero se costituisca espressione di un “diritto” di libertà, cfr. per la prima posizione, Vincenzo Vitale, L’antigiuridicità strutturale del suicidio, in Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto, anno LX, n. 3, Milano luglio-settembre 1983, pp. 439-469 (p. 461); F. D’Agostino, La riduzione moderna della persona: l’esempio del suicidio, in Idem, Bioetica nella prospettiva della filosofia del diritto, cit., pp. 241-253; F. Mantovani, Diritto Penale. Parte Speciale, I. Delitti contro la persona, 2a ed., Cedam, Padova 2005, pp. 115-126; Mario Portigliatti Barbos, Diritto a morire, in Digesto delle Discipline penalistiche, vol. IV, cit., pp. 1-10 (p. 5); e Mauro Ronco, Sub art. 580, in Idem e Salvatore Ardizzone (a cura di), Codice Penale Ipertestuale. Commentario con banca dati di giurisprudenza e legislazione, 2a ed., Utet, Torino 2007, pp. 2339-2344 (p. 2341); per la tesi opposta, cfr., nella dottrina giuridica italiana, Sergio Seminara, Riflessioni in tema di suicidio ed eutanasia, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, nuova serie, anno XXXVIII, n. 2, Milano 1995, pp. 670-727; e Idem, Sul diritto di morire e sul divieto di uccidere, in Diritto Penale e Processo. Mensile di giurisprudenza, legislazione e dottrina, anno X, n. 5, Milano maggio 2004, pp. 533-537. Per la costante condanna morale del suicidio, allo stesso modo dell’omicidio, nel Magistero ordinario e universale della Chiesa Cattolica, cfr. Giovanni Paolo II, enciclica cit., n. 66: “[…] il suicidio, sotto il profilo oggettivo, è un atto gravemente immorale, perché comporta il rifiuto dell’amore verso se stessi e la rinuncia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità di cui si fa parte e verso la società nel suo insieme. Nel suo nucleo più profondo, esso costituisce un rifiuto della sovranità assoluta di Dio sulla vita e sulla morte”; e Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2281-2283.
(15) Per l’eclissi del senso di Dio e dell’uomo, rivelata dall’atto omicidiario, cfr. Giovanni Paolo II, enciclica cit., n. 21, a commento di Gn. 4, 14: “Mi dovrò nascondere lontano da te”.
(16) Che la legge umana sia tale in quanto conforme alla retta ragione è principio tradizionale della dottrina cattolica; cfr. sant’Agostino (354-430), De libero arbitrio, I, 5, cit. in Giovanni Paolo II, enciclica cit., n. 72, nota 97; e san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274), Summa theologiae, I-II, q. 93, a 3, ad 2um, cit. ibid., n. 72, nota 96.
(17) La riduzione del diritto alla facoltà di compiere quanto la volontà detta e la forza fisica consente di attuare, nell’orizzonte del criterio dell’utilità, è alle origini del giusnaturalismo moderno e percorre larghe correnti giuridiche dominanti ancora oggi nella filosofia del diritto e nello studio del diritto positivo. Per l’origine dell’identificazione del diritto come potere di fatto cfr. l’opera di Thomas Hobbes (1588-1679), Elementi filosofici sul cittadino, 1642; trad. it. in Idem, Opere politiche, a cura di Norberto Bobbio (1909-2004), vol. I, Elementi filosofici sul cittadino. Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune di Inghilterra, Utet, Torino 1988, pp. 59-394, passim, e, soprattutto, pp. 92-93.
(18) Giovanni Paolo II, enciclica cit., n. 20.
(19) Ibidem.
(20) È ben noto che l’insicurezza, provocata dal timore della morte violenta, è all’origine del passaggio — ipotetico e non reale —, dallo “stato di natura” allo “stato civile” nel pensiero di Hobbes (cfr. Idem, Elementi filosofici sul cittadino, cit., p. 98).
(21) Giovanni Paolo II, enciclica cit., n. 20.
(22) Ibidem.
(23) Sui princìpi orientatori della bioetica, cfr. D. Gracia Guillén, op. cit.; in particolare, sul principio di beneficità, pp. 127-134; sul principio di autonomia, pp. 223-233; sul principio di giustizia, pp. 352-368; sul piano giuridico, cfr. F. Mantovani, Diritto penale. Parte Speciale, vol. I, Delitti contro la persona, cit., pp. 1-36, che ha particolarmente insistito sulla contrapposizione fra la concezione utilitaristica dell’uomo, con il suo corollario della disponibilità dell’essere umano, e la concezione personalista, con l’opposto corollario dell’indisponibilità. Dalla concezione personalista Mantovani ricava i limiti oggettivi e soggettivi agl’interventi sull’essere umano, segnati, i primi, dai princìpi della salvaguardia della vita, integrità fisica, salute, della dignità umana, dell’uguaglianza e pari dignità dei soggetti umani e, i secondi, dal principio del consenso del soggetto.
(24) Cfr. la delineazione del movimento per l’autonomia, in Edmund Pellegrino, Decisions at the end of life: the use and abuse of the concept of futility [Decisioni alla fine della vita: l’uso e l’abuso del concetto di futilità], in Pontificia Academia Pro Vita, The dignity of the dying person, cit., pp. 219-241.
(25) Cfr. Giovanni Paolo II, enciclica cit., n. 19.
(26) Cfr. E. Pellegrino, art. cit., pp. 234-235.
(27) Cfr. Consulta di Bioetica, Documento sulle cure palliative e sull’eutanasia approvato dal Consiglio Direttivo del 15-5-2000, <www. consultadibioetica.org/documenti/eutanasia00. HTM>, visitato il 27-6-2007.
(28) Cfr. Idem, Documento sull’eutanasia. Documento approvato dall’Assemblea Ordinaria dei soci in data 30/01/93, in <www.con sultadibioetica.org/documenti/eutanasia93. HTM>, visitato il 27-6-2007.
(29) Cfr. Consiglio d’Europa, Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, emendata dal Protocollo n. 11, Roma, 4 novembre 1950, <http://conventions.coe.int/Treaty/ita/Treaties/Html/005.htm>.
(30) Cfr. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo), Caso Pretty c. Regno Unito. Sentenza del 29 aprile 2002, <www.dirittiuomo. it/Corte%20Europea/Regno%20Unito/2004/Pretty.htm>, visitato il 22-8-2007. A commento della sentenza, cfr. Giovanni Francolini, Il dibattito sulla eutanasia tra Corte Europea e giurisprudenza interna, in Il diritto di famiglia e delle persone. Rivista trimestrale, vol. XXXI, n. 4, Milano ottobre-dicembre 2002, pp. 813-823.
(31) Sul cosiddetto “accanimento terapeutico” e sulla legittimità morale della rinuncia a mezzi straordinari od oggettivamente sproporzionati di cura, cfr. Giovanni Paolo II, enciclica cit., n. 64; nonché Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia “Iura et bona“, cit., IV, p. 50. Sul tema vedi anche il paragrafo 13 di questo scritto.
(32) Cfr. Consiglio d’Europa, Convenzione per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti dell’applicazioni della biologia e della medicina : Convenzione sui Diritti dell’Uomo e la biomedicina, Oviedo, 4 aprile 1997, <http://conventions. coe.int/Treaty/ITA/Treaties/Html/164.htm>. L’Italia ha provveduto alla ratifica e all’esecuzione della Convenzione di Oviedo, nonché del Protocollo addizionale alla Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti delle applicazioni della biologia e della medicina, sul divieto di clonazione di esseri umani, Parigi, 12 gennaio 1998, <http://conventions. coe.int/Treaty/ITA/Treaties/Html/168.htm>, con legge 28 marzo 2001, n. 145. Cfr. un esame dei rapporti fra diritto penale e attività medico-chirurgica alla luce della Convenzione, in Francesco Dassano, Il consenso informato al trattamento terapeutico tra valori costituzionali, tipicità del fatto di reato e limiti scriminanti, in AA.VV., Studi in onore di Marcello Gallo. Scritti degli allievi. Giappichelli, Torino 2004, pp. 341-457.
(33) Cfr. Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Codice di Deontologia Medica, del 16-12-2006, <http://portale.fnomceo.it/Jcmsfnomce o/cmsfile/attach_3819.pdf>.
(34) Giovanni Paolo II, enciclica cit., n. 64; sul rapporto con la morte, cfr. G. Miranda L.C., The meaning of life and the acceptance of death [Il significato della vita e l’accettazione della morte], in Pontificia Academia Pro Vita, The dignity of the dying person, cit., pp. 297-312; Bartholomew Kiely S.J., Il senso della sofferenza e della morte umana, in Pontificia Academia Pro Vita, Commento interdisciplinare alla “Evangelium Vitae”, cit., pp. 683-693.
(35) Manfred Lütz, La religione della salute e la nuova visione dell’essere umano, in Pontificia Academia Pro Vita, Qualità della vita ed etica della salute. Atti dell’undicesima Assemblea generale della Pontificia Accademia per la vita (Città del Vaticano, 21-23 febbraio 2005), edito da E. Sgreccia e I. Carrasco de Paula, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, pp.126-133 (p. 127). Cfr. altresì l’importante volume dello stesso Lütz, Lebenslust-Wider die Diätsadisten, den Gesundheitswahn und den Fitness-Kult [Gioia di vivere. Contro i sadici della dieta, il delirio salutistico e il culto della Fitness], Pattloch Verlag, Monaco di Baviera 2002, nonché, sul piano antropologico, Maurizio Faggioni, La qualità della vita e la salute alla luce dell’antropologia cristiana, in Pontificia Academia Pro Vita, Qualità della vita ed etica della salute, cit., pp. 20-30.
(36) Cfr. M. Lütz, La religione della salute e la nuova visione dell’essere umano, cit., p. 127.
(37) Ibid., p. 128.
(38) Ibidem.
(39) Ibidem.
(40) Ibidem.
(41) Ibidem.
(42) Ibid., p. 129.
(43) Ibidem.
(44) Ibidem.
(45) Sulla terapia del dolore e sulle cure palliative, cfr. Comitato Nazionale per la Bioetica, La terapia del dolore: orientamenti bioetici, del 30-3-2001, <http://www.governo.it/bioetica/testi/300301.html>; sulle cure palliative in generale, cfr. Joannes Lelkens, Pain control in terminally ill patients [Terapia del dolore nei malati terminali], in Pontificia Academia Pro Vita, The dignity of the dying person, cit., pp. 242-251; e Luke Gormally, Palliative treatment and ordinary care [Cura palliativa e cura ordinaria], ibid., pp. 252-266. Cfr. altresì Gonzalo Herranz Rodríguez, Deontología médica y vida terminal. Eutanasia y medicina paliativa en los Códigos de Ética y Deontología Médica de Europa y América, in Medicina e Morale. Rivista Internazionale bimestrale di Bioetica, Deontologia e Morale Medica, nuova serie, anno XLVIII, n. 1, Roma gennaio-febbraio 1998, pp. 91-117.
(46) Cfr. la definizione forse migliore del “paternalismo”, in Gerald Dworkin, Paternalism, in Richard A. Wasserstrom (a cura di), Morality and the law [Morale e legge], Wadsworth Publishing Co., Belmont (California) 1971, p. 108, cit. in James F. Childress, Who Should Decide? Paternalism in Health Care [Chi dovrebbe decidere? Paternalismo nella cura della salute], New York-Oxford 1982, che definì nel 1971 il paternalismo come “l’interferenza con la libertà d’azione di una persona, giustificata da ragioni riferite al benessere, al bene, alla felicità, ai bisogni, agli interessi, o ai valori della persona su cui si fa pressione” (p. 113). Cfr. la storia del “paternalismo” dell’etica medica occidentale, che trova il suo fondamento etico e giuridico più importante nel “giuramento” d’Ippocrate, in D. Gracia Guillén, op. cit., pp. 32-119.
(47) Cfr. D. Gracia Guillén, op. cit., pp. 122-123, che focalizza nella stesura dei Principles of Medical Ethics del 1957 da parte dell’American Medical Association la fine del “paternalismo”, esplicitamente dichiarata con la revisione dei medesimi princìpi avvenuta nel 1980. L’abbandono del “paternalismo” segue in Europa il processo avvenuto negli Stati Uniti d’America e trova un momento importante nella stesura dei Principi Europei di Etica Medica da parte della Comunità Europea nel 1987 (ibid., p. 123).
(48) Sul “consenso informato”, cfr. la fondamentale opera di Ruth R. Faden e Tom L. Beauchamp, A History and Theory of Informed Consent [La storia e la teoria del consenso informato], Oxford University Press, New York 1986; nella dottrina penalistica, cfr. F. Mantovani, Diritto Penale Parte Speciale. I, cit., pp. 56-65; Idem, La responsabilità del medico, in Rivista Italiana di Medicina Legale. Dottrina, casistica, ricerca sperimentale, giurisprudenza e legislazione, anno II, n. 1, Milano 1980, pp. 16-29 (pp. 23-28); Idem, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova 1974, passim; e Francesco Dassano, Il consenso informato al trattamento terapeutico, cit., pp. 341-457, con la bibliografia ivi indicata.
(49) Brunella Marniga, Per una revisione critico-filosofica ed epistemologica della medicina contemporanea, in Medicina e Morale. Rivista di Bioetica e Deontologia Medica, nuova serie, anno XLVIII, n. 5, Roma settembre-ottobre, 1998, pp. 989-1006 (p. 999).
(50) Ibidem.
(51) Sull’inaccettabilità dell’assolutizzazione del principio autonomistico e sulla visione riduttivistica e contrattualistica della medicina che consegue a tale assolutizzazione, cfr. Luciano Eusebi, Il diritto penale di fronte alla malattia, in Medicina e Morale. Rivista Internazionale bimestrale di Bioetica, Deontologia e Morale Medica, nuova serie, anno LI, n. 3, Roma maggio-giugno, 2001, pp. 905-927, ora in Laura Fioravanti (a cura di), La tutela penale della persona. Nuove frontiere, difficili equilibri, Giuffrè, Milano 2001, pp. 119-142; L. Eusebi, Note sui disegni di legge concernenti il consenso informato e le dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari, in Criminalia. Annuario di Scienze penalistiche, Pisa 2006, pp. 251-289; Idem, Il principio di autonomia. Prospettive di una ricostruzione non orientata in senso eutanasico, relazione svolta al convegno per il XV anniversario di istituzione del Comitato Nazionale per la Bioetica, Roma 2005, in Medicina e Morale. Rivista Internazionale bimestrale di Bioetica, Deontologia e Morale Medica, nuova serie, anno LV, n. 6, Roma novembre-dicembre 2005, pp. 1147-1161.
(52) Il rischio della rottura dell’”alleanza terapeutica” è ben descritto da Angelo Fiori, La figura del medico e le aspettative dei cittadini: continuità e condizionamenti, in Pontificia Academia Pro Vita, Qualità della vita ed etica della salute, cit., pp. 134-141 (p. 140).
(53) Josef Pieper (1904-1997), La prudenza, 1936, trad. it., con Prefazione di Giovanni Santambrogio, Morcelliana-Massimo, Brescia/Milano 1999, p. 32.
(54) Sulla nozione di res iusta, che si determina nel caso concreto con riferimento al vero della legge morale e al bene che costituisce il fine dell’uomo, cfr. Juan Berchmans Vallet de Goytisolo, Las definiciones de la palabra derecho y los múltiples conceptos del mismo. Discurso leído el día 16 de noviembre de 1998 en la sesión inaugural del curso académico 1998-1999, Real Academia de Jurisprudencia y Legislación, Madrid 1998, passim e, in particolare, per il richiamo alla definizione classica, romana e cristiana del diritto, allo stesso tempo come res iusta e arte per determinarlo, pp. 183-196.
(55) Cfr. M. Ronco, Il controllo penale degli stupefacenti, Jovene, Napoli 1990, p. 380.
(56) Proprio con riferimento al testamento biologico cfr. Marina Casini, Maria Luisa Di Pietro e Carlo Casini, Testamento biologico e obiezione di coscienza, in Medicina e Morale. Rivista Internazionale bimestrale di Bioetica, Deontologia e Morale Medica, nuova serie, anno LVII, n. 3, Roma maggio-giugno 2007, pp. 473-490.
(57) Attribuiscono all’articolo 32, comma 2, della Costituzione una valenza fondativa di una sorta di “diritto” costituzionale di rifiutare le cure Fausto Giunta, Il morire tra bioetica e diritto penale, in Politica del diritto, vol. XXXIV, n. 4, Firenze dicembre 2003, pp. 553-580 (p. 563); Idem, Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione problematica, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, nuova serie, anno XL, n. 1, Milano 1997, pp. 74-125 (pp. 90-113); Stefano Canestrari, Le diverse tipologie di eutanasia: una legislazione possibile, in Rivista italiana di Medicina Legale. Dottrina, casistica, ricerca sperimentale, giurisprudenza e legislazione, anno XXV, n. 5, Milano 2003, pp. 751-775 (p. 763); Diana Vincenzi Amato, Il 2° comma dell’art. 32, in Commentario della Costituzione a cura di Giuseppe Branca [1907-1987]. Rapporti etico-sociali. Artt. 29-34, Zanichelli, Bologna-Roma 1976, pp. 167-204; e Luca Monticelli, Eutanasia, diritto penale e principio di legalità, in Indice penale. Rivista fondata da Pietro Nuvolone [1917-1985], nuova serie, anno I, n. 2, Padova maggio-agosto 1998, pp. 463-517 (pp. 477-482).
(58) Cfr. Comitato Nazionale per la Bioetica, L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente, del 30-9-2005, <http://www.palazzochigi.it/bioetica/testi/PEG.pdf>; il Comitato, costituito presso la presidenza del Consiglio dei Ministri, considera l’idratazione e la nutrizione di pazienti in stato vegetativo persistente — SVP — come un sostentamento vitale di base, la cui sospensione “[…] è da considerarsi eticamente e giuridicamente illecita tutte le volte che venga effettuata, non sulla base delle effettive esigenze della persona interessata, bensì sulla base della percezione che altri hanno della qualità della vita del paziente” (9. e). L’importanza di questa dichiarazione è notevolissima, in quanto ribadisce che “[…] la vita umana va considerata un valore indisponibile, indipendentemente dal livello di salute, di percezione della qualità della vita, di autonomia o di capacità di intendere e di volere” (9. a) e che “[…] l’idratazione e la nutrizione di pazienti in SVP vanno ordinariamente considerate alla stregua di un sostentamento vitale di base” (9. c).
(59) Cfr. L. Eusebi, Sul mancato consenso al trattamento terapeutico: profili giuridico penali, in Rivista Italiana di Medicina Legale. Dottrina, casistica, ricerca sperimentale, giurisprudenza e legislazione, anno XVII, Milano 1995, pp. 727-740 (p. 734); e Idem, Il diritto penale di fronte alla malattia, cit., pp. 131-137; nello stesso senso Gianfranco Iadecola e A. Fiori, Stato di necessità medica, consenso del paziente e dei familiari, cosìddetto “diritto di morire”, criteri per l’accertamento del nesso causale, in Rivista Italiana di Medicina Legale. Dottrina, casistica, ricerca sperimentale, giurisprudenza e legislazione, anno XVIII, Milano 1996, pp. 302-318; e Idem, Il trattamento medico-chirurgico di emergenza e il dissenso del paziente, in Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Potestà di curare e consenso informato. IV. Il rischio in medicina oggi e la responsabilità professionale. Atti del convegno di studio. Roma, 26 giugno 1999, Giuffrè, Milano 2000, pp. 71-96 (p. 83).
(60) Sulle aberrazioni nazionalsocialiste, in un quadro storico ampio e articolato, che mette in luce anche la responsabilità di altri Stati nella sperimentazione medica, cfr. Raffaella De Franco, Nel nome di Ippocrate. Dall’olocausto medico nazista alla sperimentazione contemporanea, Franco Angeli Editori, Milano 2001; sulle manipolazioni e selezioni genetiche praticate in Svezia, con impiego dell’aborto, della sterilizzazione e della castrazione come misure eugenetiche, cfr. Luca Dotti, L’utopia eugenetica del “welfare state” svedese (1934-1975). Il Programma Socialdemocratico di sterilizzazione, aborto e castrazione, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2004.
(61) Resoconto sommario. Seduta di martedì 28 gennaio 1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente. Volume VI. Commissione per la Costituzione, Camera dei Deputati-Segretariato Generale, Roma 1970, p. 204.
(62) Ibidem.
(63) Ibidem.
(64) Ibid., pp. 204-205.
(65) Ibid., p. 205.
(66) Cfr. ibidem.
(67) Resoconto stenografico. Seduta pomeridiana di martedì 22 aprile 1947, ibid., vol II, p. 1133.
(68) Ibidem.
(69) Ibidem.
(70) Ibidem.
(71) Resoconto stenografico. Seduta di giovedì 24 aprile 1947, ibid., p. 1222.
(72) Ibidem.
(73) Cfr. Costantino Mortati (1891-1985), La tutela della salute nella costituzione italiana, ora in Idem, Raccolta degli scritti, vol. III, Giuffrè, Milano 1979, pp. 433-446; Cristina Montanaro, Considerazioni in tema di trattamenti sanitari obbligatori (a proposito delle ordinanze sindacali impositive di trattamento sanitario “non obbligatorio”), in Giurisprudenza Costituzionale, anno ventottesimo, 1983, parte prima, pp. 1155-1177 (pp. 1173-1177); e Donatella Morana, La salute nella Costituzione italiana. Profili sistematici, Giuffrè, Milano 2002, p. 201.
(74) Cfr. F. Mantovani, Biodiritto e problematiche di fine della vita, in Criminalia. Annuario di scienze penalistiche, cit., pp. 57-90 (p. 60).
(75) L. Eusebi, Il diritto penale di fronte alla malattia, cit., p. 127.
(76) Ibid., pp. 128-129.
(77) D. Gracia Guillén, op. cit., p. 134.
(78) Le tematiche circa l’introduzione delle direttive anticipate di trattamento dell’ordinamento italiano sono ben esposte da M. Casini, M. L. Di Pietro e C. Casini, Profili storici del dibattito italiano ed esame comparato dei disegni di legge all’esame della XII Commissione (Igiene Sanità del Senato), in Medicina e Morale. Rivista Internazionale bimestrale di Bioetica, Deontologia e Morale Medica, nuova serie, anno LVII, n. 1, Roma gennaio-febbraio 2007, pp. 19-60; e da Davide Tassinari, Gli attuali progetti di legge sul così detto “testamento biologico”: un breve sguardo d’insieme, in Criminalia. Annuario di Scienze penalistiche, cit., pp. 265-289.
(79) Sulla condizione del morente, sulle domande di fine vita e sugli atteggiamenti da assumere nei suoi confronti, cfr. Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari, Carta degli operatori sanitari, Città del Vaticano 1995, cap. III, Il morire, nn. 114-150, pp. 89-114.
(80) Cfr. R. R. Faden e T. L. Beauchamp, op. cit., p. 240.
(81) Cfr. ibid., pp. 261-262.
(82) Il richiamo acritico e disinformato alla Convenzione di Oviedo è presente nella maggior parte dei disegni di legge presentati al Senato nel corso della XV legislatura, soprattutto di quelli a più forte impronta e determinazione eutanasica. Cfr., per esempio, il disegno di legge n. 357, presentato il 17 maggio 2006 a iniziativa del sen. Giorgio Benvenuto (Ulivo); il disegno di legge n. 542, presentato il 31 maggio 2006 a iniziativa della sen. Anna Maria Carloni (Ulivo); il disegno di legge n. 665, presentato il 20 giugno 2006 a iniziativa del sen. Natale Ripamonti (Insieme con l’Unione-Verdi-Comunisti Italiani); e il disegno di legge n. 818, presentato il 18 luglio 2006 a iniziativa del sen. Alfredo Biondi (Forza Italia).
(83) Cfr. Comitato nazionale per la Bioetica, Dichiarazioni anticipate di trattamento, Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, Roma 2003; e, su di esso, Adriano Bompiani, Dichiarazioni anticipate di trattamento del Comitato nazionale per la Bioetica: l’ispirazione alla convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, in Medicina e Morale. Rivista Internazionale bimestrale di Bioetica, Deontologia e Morale Medica, nuova serie, anno LIV, n. 6, Roma novembre-dicembre 2004, pp. 1115-1130; e Claudio Sartea, “Dichiarazioni anticipate di trattamento”: la prospettiva del Comitato Nazionale per la Bioetica, in Iustitia. A cura dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, anno LVII, n. 1, Roma gennaio-marzo 2004, pp. 109-116.
(84) Relazione al disegno di legge presentato il 7 luglio 2006 dalle senatrici Paola Binetti (Ulivo) ed Emanuela Baio Dossi (Ulivo), in Atti Parlamentari, XV legislatura, Senato della Repubblica, Atto n. 773, p. 2.
(85) Ibidem.
(86) Disegno di legge n. 687 presentato al Senato il 27 giugno 2006 dai senatori Ignazio Roberto Marino (Ulivo) e Anna Finocchiaro (Ulivo), p. 10.
(87) Ibid., p. 11.
(88) Ibid., p. 6.
(89) Cfr. Robert Spaemann, Death-suicide-euthanasia [Morte, suicidio, eutanasia], in Pontificia Academia Pro Vita, The dignity of the dying person, cit., pp. 123-131 (p. 129).
(90) Cfr. Pio XII, Risposte ad importanti quesiti sulla “rianimazione”, del 24-11-1957, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XIX, pp. 613-621.
(91) Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia “Iura et bona”, n. IV, cit., p. 50.
(92) SIAARTI-Commissione di Bioetica, Le cure di fine vita e l’Anestesista-Rianimatore: Raccomandazioni SIAARTI per l’approccio al malato morente, in Minerva anestesiologica. Rivista di Anestesia, Rianimazione, Terapia Antalgica e Terapia Intensiva, vol. 72, n. 12, Torino dicembre 2006, pp. 927-963 (p. 963); cfr. l’impostazione teorica del problema, in E. Pellegrino, art. cit., p. 219-241.
(93) Cfr. tale insegnamento ribadito con forza in Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione “Donum Vitae” su il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione (22 febbraio 1987), con Presentazione di S. Em. il Cardinale Joseph Ratzinger e Commenti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1990.
(94) Cfr. G. Herranz Rodríguez, Cultural and thematic of pro-euthanasia movements. The situation outside the Netherlands [Movimenti culturali e tematici. La situazione fuori dai Paesi Bassi], in Pontificia Academia Pro Vita, The Dignity of the dying person, cit., p. 91.
(95) Cfr. ibid., pp. 91-92.
(96) Giovanni Paolo II, enciclica cit., n. 52.
(97) Ibidem.