Mauro Ronco, Cristianità n. 4 (1974)
La sola possibilità dello scioglimento del vincolo matrimoniale, lungi dal porsi come rimedio per i matrimoni “riusciti male”, impoverisce, fin dall’origine, il contenuto di tutti i matrimoni, perché l’eventuale serietà di intenti dei nubendi non è presa sul serio dalla società che, nelle sue leggi, non riconosce e non ritiene degno di protezione il patto. In altri termini, la legge, disposta a ratificare tutti gli intenti non illeciti che la volontà delle parti pone a oggetto dei negozi giuridici, si rifiuta di ratificare l’intento dei nubendi di costituire una comunione di vita che, per le sue caratteristiche di esclusività e di definitività, risponde alle più profonde aspirazioni della natura umana.
Tuttavia la violenza che l’uomo compie nei confronti della legge naturale trova sempre la sua sanzione, tanto più grave quanto più radicale è il rovesciamento dei fini e più sottile la malizia con cui esso è compiuto.
Il riconoscimento legislativo del divorzio ha un duplice effetto corrosivo sulla vita dei coniugi: anzitutto sul piano psicologico accresce il senso di insicurezza e di vuoto affettivo che è tipico dell’uomo moderno; in secondo luogo, indebolisce la stabilità della famiglia, rendendo impossibile il superamento delle crisi, delle difficoltà e delle tensioni familiari.
Per quanto riguarda il primo punto, si può osservare che il “matrimonio dissolubile” condanna i coniugi alla condizione psicologica di persone ridotte a una promiscuità sessuale regolamentata e “contingentata” da regole esterne di convenienza sociale e da regole interne, tacite ma non meno oppressive, derivanti dal compromesso tra i capricci affettivi, la subordinazione economica del coniuge più debole rispetto al più forte e le disponibilità finanziarie necessarie per creare una nuova famiglia.
Il divorzio sostituisce un equilibrio meccanico di forze a quella realtà superiore all’individuo, che soltanto il matrimonio indissolubile riesce a fondare, nella quale e per la quale l’individuo è sottratto in una certa misura al fluttuare delle contingenze.
Infatti, poiché il “matrimonio dissolubile” non riesce a creare nulla che sia superiore alla mutevolezza della volontà individuale, i coniugi sono costretti in ogni momento della loro vita a dare la prova del permanere delle qualità esistenti al momento del matrimonio, come se soltanto per esse si fossero reciprocamente scelti, e non, soprattutto, per il valore irripetibile della persona, immutabile nonostante il variare delle circostanze.
Il divorzio sostituisce a una scelta definitiva una scelta da farsi di giorno in giorno, sottoposta ai dubbi che le contingenze della vita ingigantiscono, la libertà della quale è turbata dalle difficoltà della vita coniugale e dalle tentazioni di soddisfazione sentimentale ed erotica che il mondo circostante offre.
Una situazione siffatta di incertezza e di insicurezza, lungi dal favorire lo sviluppo armonico della persona, è fonte di preoccupazione, di angoscia e, talvolta, di disperazione, soprattutto allorché le qualità che sorreggevano la persona del coniuge al momento del matrimonio sono scomparse, o per il naturale decorrere del tempo, o per circostanze imprevedibili.
L’assenza di una reale apertura affettiva in questo tipo di convivenza è causa non ultima, anche se non esclusiva, dell’abnorme diffusione della tendenza dei coniugi moderni a ottenere una soddisfazione psicologica compensativa con l’immersione incondizionata nell’attività lavorativa.
Questa proiezione indiscriminata dei coniugi in interessi esterni alla vita familiare, compiuta al fine di compensare l’insicurezza interiore con una pretesa affermazione della personalità nel lavoro e per il lavoro, ingigantisce e moltiplica ogni incrinatura dell’armonia familiare, perché rende possibile l’incontro tra i membri della famiglia soltanto in condizioni di stanchezza fisica, di tensione nervosa e di distrazione psicologica.
La semplice possibilità del divorzio provoca una serie di reazioni a catena che conducono alla scomparsa della famiglia stessa, nel suo valore di ambito normale di formazione della personalità dei coniugi e di educazione dei figli: il passaggio, infatti, dalla condizione psicologica di insicurezza alla pretesa compensativa di autoaffermazione esclusiva nel lavoro, e il successivo passaggio da quest’ultima situazione alla trascuratezza e all’abbandono degli obblighi familiari, pur non verificandosi simultaneamente e immediatamente per tutte le coppie, avvengono ineluttabilmente, a breve o a lungo termine, essendo contenuti implicitamente nel principio divorzistico.
Il divorzio, inoltre, indipendentemente dai riflessi psicologici negativi che induce sulla mentalità dei coniugi e dagli effetti collaterali che provoca, consistenti, a lungo termine, nell’eliminazione della famiglia stessa come cellula primaria della società, ha immediatamente l’effetto di raggiungere uno scopo opposto a quello che i suoi sostenitori più ingenui osano sostenere.
Taluno argomenta in questi termini: il divorzio non attenta alla stabilità familiare, come è dimostrato dal fatto che chi non vuole divorziare non è obbligato a farlo; esso ha semplicemente la funzione di rimediare ai fallimenti coniugali, di sanare la condizione dei figli illegittimi e di ridurre le convivenze concubinarie. Così, oltre allo scopo umanitario di “spezzare le catene” dei “forzati del matrimonio”, il divorzio avrebbe uno scopo sociale, consistente nel diminuire la piaga dei figli illegittimi e, addirittura, uno scopo morale, consistente nel ridurre gli scandali derivanti dalle unioni illecite.
Ora, le statistiche che i paesi divorzisti offrono al proposito, nonché l’analisi ragionevole delle conseguenze implicite nel principio divorzistico, rivelano in maniera inequivocabile che il divorzio, lungi dal permettere il raggiungimento degli scopi indicati, aggrava ciascuna delle tre malattie sociali e si trasforma in una macchina senza freni, appositamente costruita per impedire il conseguimento del bene comune e per soddisfare l’arbitrio e l’egoismo individuali.
Se il divorzio fosse il rimedio estremo dei fallimenti matrimoniali e non, al contrario, uno strumento che scalza alla radice la stabilità familiare, la frequenza della sua applicazione nei paesi divorzisti dovrebbe corrispondere, in primo luogo, alla frequenza dei fallimenti matrimoniali nei paesi non divorzisti, e, in secondo luogo, conservare un valore percentuale immutato con il trascorrere degli anni.
La verifica statistica mostra inequivocabilmente, invece, sia che il numero dei divorzi nei paesi divorzisti è incomparabilmente maggiore delle rotture dell’unità familiare nei paesi non divorzisti, sia che il numero dei divorzi aumenta di anno in anno in misura molto più sensibile dell’aumento dei matrimoni.
Per documentare l’aumento progressivo dei divorzi nei paesi divorzisti riportiamo alcuni dati riferentisi a una serie di paesi divorzisti, ritenuti tra i più “civili” e “avanzati” (1):
Per alcune regioni all’avanguardia nel processo di dissoluzione della famiglia, i dati sono ancora più preoccupanti. Per la Contea di Dallas nel Texas, ad esempio, valgono i dati che indichiamo nella seguente tabella (2):
Il raffronto tra l’indice di separazione valido per l’Italia fino all’apparizione della legge Fortuna-Baslini e l’indice di divorziabilità dei paesi divorzisti mostra ancora più chiaramente in quale misura la possibilità del divorzio sia fattore di rottura della stabilità familiare.
In Italia la percentuale delle separazioni rispetto ai matrimoni oscillava tra l’1% e il 2%. Infatti, l’Annuario Statistico Italiano dava i seguenti dati (3):
Ora, mentre in Italia neppure 2 matrimoni su 100 finivano con una separazione, finivano con il divorzio 1 matrimonio su 12 nel Messico, 1 su 10 in Francia, 1 su 4 negli Stati Uniti.
Rispetto ai paesi dell’Europa orientale, dominati dal giogo comunista, che, secondo i dirigenti comunisti, creerebbe condizioni di vita favorevoli alla stabilità familiare, di contro all’instabilità dei paesi a regime “borghese e capitalista”, le statistiche offrivano i seguenti eloquenti dati (4):
Anche se gli indici di separazione validi per l’Italia non corrispondessero perfettamente a tutti i casi di separazione effettiva del nucleo familiare, perchè la impossibilità di creare un nuovo legame giuridicamente valido poteva distogliere alcuni coniugi dal sancire legalmente la separazione di fatto (anche se, però, essendo in quegli anni in discussione varie proposte divorziste al Parlamento, molti coniugi tendevano a precostituirsi una dichiarazione giudiziale che accertasse la separazione di fatto nella previsione dell’introduzione del divorzio; il che spiega anche l’aumento delle separazioni che si può rilevare per gli anni 1965-1966 e 1967), tuttavia è tale la distanza tra gli indici di divorzio e di separazione, che fondatamente si può concludere nel senso di una elevata incidenza del divorzio sulla stabilità familiare. Inoltre, nel confronto tra separazione e divorzio, bisogna tener conto del fatto che la separazione, a differenza del divorzio che sancisce la morte della famiglia, ha per scopo la cura delle crisi coniugali, evitando le conseguenze nocive di una convivenza intollerabile e lasciando una speranza di conciliazione, che la legge italiana facilita al massimo, non richiedendo per essa alcuna formalità.
Per concludere su questo punto, è necessario notare che il fenomeno dei separati non risultanti ufficialmente esiste anche nei paesi divorzisti, come è dimostrato dal fatto che, nonostante il divorzio, in essi il numero dei figli illegittimi è superiore al numero degli illegittimi dei paesi non divorzisti.
Le statistiche dimostrano, infatti, che il presunto secondo scopo del divorzio, consistente nel sanare la piaga dei figli illegittimi, non è stato raggiunto neppure dai paesi a lunga tradizione divorzistica.
Secondo i dati degli annuari demografici dell’ONU per gli anni 1957 e 1963 in Inghilterra e nel Galles gli illegittimi su 100 nati vivi erano nel 1950 il 5,02% e nel 1962 il 6,55%. In Svizzera, nel 1950 il 3,79% e nel 1962 il 4,22%. Negli Stati Uniti, nel 1950, il 3,88% e, nel 1963, il 6,35%. In Svezia, nel 1950, il 9,32%, nelle zone rurali, il 9,75%, nelle zone urbane, mentre nel 1963 la percentuale era del 12,24%. In Francia, la percentuale rimane costante, dal 1950 al 1963, sul 6%. In Italia, invece, le percentuali sono del 3,40% nel 1953 e del 2,20% nel 1963. Nella Spagna, analogamente non divorzista, nel 1960, il 2,3% e, nel 1963, l’1,9% (5).
Se si pensa, poi, a quella che i divorzisti chiamano la “scarsa educazione demografica” degli italiani rispetto all’uso diffuso dell’aborto e degli anticoncezionali nella maggior parte dei paesi che ammettono da lungo tempo il divorzio (Svezia, Inghilterra) le cifre precedenti assumono un valore estremamente significativo, mostrando da quale parte stia la “paternità responsabile” e indicando quali siano gli effetti del divorzio sulla formazione di una mentalità responsabile nella procreazione dei figli.
La percentuale degli illegittimi dei paesi divorzisti non tiene naturalmente conto dei figli legittimi che si vengono a trovare senza famiglia con il divorzio.
Sul piano dell’educazione e della formazione della personalità del minore, infine, il divorzio spiega i suoi effetti più deleteri.
Il frutto dell’amore dell’uomo e della donna è tra tutti gli esseri colui che nasce più vulnerabile e più bisognoso di protezione.
I parti degli animali nascono quasi immediatamente attrezzati per le lotte della vita, mentre l’essere umano ha bisogno di un lungo periodo di assistenza e di educazione prima di raggiungere una autonomia effettiva.
L’assenza di una vita familiare ferisce profondamente l’uomo nel suo sviluppo. Il bambino non ha soltanto bisogno di nutrimento, ma anche e soprattutto di affetto e di amore. Come ha posto in luce il De Menasce: “La coppia (padre e madre) è in qualche modo inviscerata nelle pieghe affettive del bambino. La concordia dei genitori intorno al fanciullo non gli offre soltanto un “buon esempio” nè la discordia soltanto un “cattivo esempio”; è dentro di lui che la concordia dei suoi esercita la sua influenza. Un focolare frantumato mette il ragazzo in contraddizione con se stesso; lo dilania. L’unità dei genitori non è vissuta dal bambino come una realtà puramente sociale e giuridica; è l’unità del suo stesso essere che è minacciata dalla divisione tra i genitori” (6). Il figlio dei divorziati si vede frutto di una mera situazione di fatto ed effetto dell’incontro casuale di cause non finalizzate. E questo perchè il bambino, divenuto estraneo a una vera famiglia, avverte di “non essere stato il fine voluto e amato dei propri genitori” e sperimenta di non possedere “valore e amabilità“.
Nello studio dei problemi della delinquenza minorile, è stato calcolato (7) che la probabilità di vedere un minore delinquente provenire da una famiglia ben strutturata è nel rapporto di uno a quattro rispetto alla probabilità di vedere un delinquente provenire da una famiglia disgregata dalle separazioni o dai divorzi.
Il divorzio, rendendo irreversibile la separazione, diminuendo il senso di responsabilità dei nubendi al momento del matrimonio, affievolendo l’intensità degli obblighi dei coniugi durante il matrimonio, e offrendo un crisma di legalità a situazioni in cui il diritto naturale dei figli è stato violato, si rivela nel senso più completo del termine una vera piaga del corpo sociale.
MAURO RONCO
Note:
(1) FRANCO LIGI, Divorzio – dibattito all’italiana. CEDAM, Padova 1968.
(2) Ibidem, p. 82.
(3) Annuario Statistico Italiano, Istituto Centrale di Statistica, Roma 1996, p. 37.
(4) La tabella è pubblicata in La famiglia italiana, dicembre 1966, pp. 56-57.
(5) Cfr. FRANCO LIGI, op. cit., pp. 85-86.
(6) DE MENASCE, Persona e famiglia, in Persona e famiglia, Quaderno di Justitia, 1966, pp. 12-13.
(7) Cfr. Young offenders – An Enquiry Into Juvenile Delinquency, Cambridge University Press, New York, 1944.