Dal 31 agosto all’8 settembre 1991, invitata dal Forum per i Diritti Umani, capeggiato dal professor Arben Puto, si è recata nel paese balcanico una missione, guidata dal cav. Zef Margjinaj, esule da oltre quarantacinque anni in Italia, segretario generale del movimento per i diritti umani in Albania, e composta da Lucilla Del Zotto, della Caritas di Cividale del Friuli, dall’avvocato Gianpaolo Sabbatini, di Alleanza Cattolica e della CIRPO-Italia, dal giornalista Andrea Biavardi e dal cineoperatore Giorgio Zuppello.
GIAMPAOLO SABBATINI, Cristianità n. 197-198 (1991)
Il soffio della libertà è arrivato quasi all’improvviso in Albania e la sua notizia è passata in un istante di bocca in bocca. Il 20 febbraio 1991, preceduto da massicce manifestazioni studentesche e da uno sciopero generale — particolarmente efficace lo sciopero dei minatori, rimasti per dodici giorni nel sottosuolo — vi è stato l’abbattimento della statua di Enver Hoxha, il “padre” dell’Albania comunista.
Fino al 23 febbraio hanno avuto luogo anche massicce dimostrazioni di forza da parte comunista, con qualche scontro: il 2 aprile vi furono quattro morti a Scutari; fonti bene informate dicono esservi stati venticinque morti nelle principali città.
I comunisti cambiano nome ma mantengono il potere: durante la campagna elettorale vi è stato un notevole impiego di “strategia della tensione”. Dopo le elezioni e la vittoria del nuovo partito comunista, nuove manifestazioni di forza, con la creazione della Società intitolata a Enver Hoxha, la cui tomba continua a permanere nel monumentale cimitero dei Caduti.
La libertà, tuttavia, si impone nei fatti: la gente comune non ha più paura; i comunisti cominciano ad averla e associano al potere il Partito Democratico Albanese, per una politica “di emergenza”.
Dopo il grigio-azzurro dell’Adriatico, l’Albania appare verde, con la sua costa irregolare, dai finestrini del bimotore turboelica che collega Roma con Tirana. A bordo tutti i posti sono occupati: numerosi gli uomini d’affari, qualche giornalista, qualche gruppo familiare di lingua albanese e anche un profugo rimpatriato, con le sue poche cose in una borsa di plastica e la barba lunga. A Roma era stato accompagnato da un poliziotto fino ai primi scalini di accesso all’aereo: giunto a metà della scala si era voltato per dare un ultimo sguardo triste verso l’Italia, subito premuto e sospinto fin dentro da chi doveva salire.
Il nostro piccolo gruppo accompagna Zef Margjinaj, che può parlare la sua lingua e narrare che rivede l’Albania dopo quarantasette anni, con un permesso speciale e l’invito del Forum per i Diritti Umani di Tirana, poiché non è ancora stata approvata una legge per il ritorno degli esuli.
Atterrati su una pista di blocchi di cemento, che rende piuttosto sobbalzante il percorso terrestre dei velivoli, la piccola aerostazione appare linda e ben curata, con un posto doganale minimo, servito da poliziotti giovani e cortesi, che tendono a dare la precedenza agli stranieri, imitati, in ciò, da molti degli stessi albanesi in attesa. Ci si renderà conto poi che tale atteggiamento nasce dalla innata cortesia di quel popolo, che considera doveroso cedere il posto all’ospite. Appena fuori dall’aerostazione un gruppetto di bambini attornia i nuovi arrivati per chiedere, non senza una certa dignità e sorridendo, gomma da masticare, penne biro, sigarette o qualche spicciolo. Toccante l’incontro fra Zef Margjinaj e la sua numerosa parentela, accorsa in forze da Tirana e dalla montagna settentrionale: alcune donne anziane portano l’antico costume — ancora in uso un po’ in tutto il paese — di fattezze balcanico-bizantine. Tirana ci viene incontro dopo un breve percorso in taxi attraverso una campagna che appare abbastanza curata, ma abitata da gente dall’aspetto molto povero. Tutti, però, sembrano desiderosi di comunicare e sorridono salutando con il segno anticomunista della vittoria. Ovunque si nota la presenza di bunker ormai abbandonati, fatti costruire in numero spropositato da Enver Hoxha — uno ogni cinque abitanti — durante il delirio da “paese assediato”: quando erano in uso e dunque presidiati, anche se saltuariamente, dai militari, non vi erano porzioni di territorio, se non minime, nelle quali non ci si sentisse osservati dalle feritoie.
Dopo le prime impressioni e il pernottamento all’Hotel Tirana — uno dei due più eleganti della città ma che, anche così, ha sempre qualcosa che non funziona, in camera o nei servizi —, il nostro gruppo ha preso contatto con le più significative realtà albanesi: un vero e proprio viaggio fra emozioni forti, tra lo sconvolgente e il commovente. Più che del diario di viaggio, è opportuna la descrizione — per quanto possibile — di alcuni quadri: la città di Tirana, al di fuori di due grandi viali e della piazza principale — ancora disegnano, secondo alcuni, il gladio fascista e sono decisamente piacevoli e armoniosi —, mostra la visione di edifici molto poveri, talvolta poverissimi e quasi fatiscenti. Alcuni edifici plurifamiliari di abitazione costruiti dal regime comunista appaiono tetri e opprimenti. I negozi, assai obsoleti e poco curati, sono solitamente vuoti ed espongono un orario di apertura molto ristretto. Il traffico, non intenso, è formato dai taxi, da alcune autovetture private, da camion di costruzione cinese, da qualche vecchio autobus — spesso privo dei vetri lungo le finestrature laterali —, da carri a trazione animale, da biciclette e da numerosi pedoni. Sembra una nazione “congelata” agli anni Trenta da una forza mostruosa e brutale, che ha ora allentato la presa, lasciando evidenti i segni della sua stretta, nelle rovine materiali e psicologiche. “Il comunismo è stato inventato dal diavolo”, esclamava un esponente del sindacato libero, una delle forze più sane ed entusiasmanti incontrate in Albania, quello che con coraggio sovrumano ha saputo sfidare il regime organizzando gli scioperi e costringendolo a una parziale capitolazione.
“La povertà non è il principale problema — afferma un altro sindacalista, un minatore che con gli altri minatori è rimasto dodici giorni a scioperare in fondo alla miniera e che da sei mesi non riceve il salario —; vogliamo una vita degna di essere vissuta e nella quale un po’ di benessere consenta di vivere anche i valori spirituali, che sono i più importanti !”. Un altro minatore ci mostra una medaglia della Madonna, che ha sempre avuto con sé, anche quando la cosa poteva costargli cinque anni di carcere : è musulmano, “ma noi albanesi — sottolinea — siamo musulmani molto superficialmente, perché sappiamo tutti che eravamo cristiani”.
La sede del sindacato è continuamente boicottata: il telefono è stato isolato e non funziona, come pure l’apparecchio fax, avuto in dono dall’Occidente; il visto per recarsi all’estero e prendere contatto con forze amiche è sempre stato loro negato: cercano un formale invito dagli amici dell’Ovest — ma a quale delusione andrebbero incontro, se venissero a contatto con certe forze sindacali!
“Ciò che il comunismo non è riuscito a distruggere della nostra tradizione — afferma un altro albanese — lo restaureremo e lo conserveremo gelosamente per le generazioni future”.
La frase era la risposta alla mia osservazione che la generosità e il senso di ospitalità albanesi — proverbiali fin dall’antichità — mi sembravano ancora intatti: vi era infatti da schermirsi continuamente per evitare di essere, mattina e sera, ospiti di questa o quella persona, anche appena conosciuta, ma con la quale si era intrattenuto un amichevole colloquio; fra questi il cameriere stesso che serviva a tavola in albergo e che ci voleva ospiti almeno una volta a casa sua.
Estremamente sintonizzato con la dottrina sociale della Chiesa, sullo specifico punto, è il discorso del dottor Salì Berisha, presidente del comitato provvisorio direttivo del Partito Democratico Albanese, quando parla della proprietà: il governo non deve graziosamente concederla, bensì riconoscerla come realtà naturale che, alla stessa stregua della persona e della famiglia, viene prima dello Stato, che dal rispetto di tali realtà naturali trae legittimazione, e non viceversa. Lo stesso dottor Salì Berischa — un cardiologo originario del nord dell’Albania, molto alto di statura e dai modi cordiali, ma decisi — ci parla della necessità della sollecita approvazione di una legge generale per il rientro degli esuli e per il riconoscimento della iniquità delle persecuzioni operate all’interno dai comunisti.
Il risarcimento — che pur sarebbe doveroso — è praticamente impossibile: i carcerati, i condannati al campo di lavoro, i confinati in zone controllate — e si parla soltanto dei viventi — che attualmente si trovano sradicati dal proprio paese, senza lavoro e con la vita rovinata, sono oltre cinquecentomila; l’intera popolazione albanese raggiunge a stento i tre milioni di persone e non è pertanto in grado di provvedere a un dignitoso ristoro civile di una così grande massa di perseguitati. Pare che gli Stati Uniti d’America e alcune organizzazioni internazionali si accingano a esaminare il problema. Lo stesso on. Salì Berisha, con il suo valentissimo collaboratore, l’on. Petrit Llaftiu — un insigne ittiologo, che ad Ancona ha trovato i giusti collaboratori per migliorare la flotta da pesca albanese e introdurre l’acquacoltura — hanno formulato sollecitazioni in tal senso.
Non si può non ricordare, fra le cose che più si stampano nella memoria, la straordinaria accoglienza riservataci dai parenti di Zef Margjinaj, sulla montagna albanese, raggiunta con un fuoristrada, date le condizioni della rete viaria: una pecora era stata uccisa per fare onore agli ospiti e un abilissimo macellaio in poco tempo provvedeva a scuoiarla, a eviscerarla e a prepararla per il pranzo, per il quale tutte le donne si affannavano. Nell’attesa, un giovane ci mostrava con fierezza l’appezzamento di terreno ottenuto in affidamento — una quasi-proprietà che dovrà essere formalizzata con legge di rilievo costituzionale: tutto appariva curatissimo e coltivato con competenza. Lungo i percorsi di trasferimento l’incontro con la storia albanese meno conosciuta: lo stesso Zef Margjinaj indicava il luogo ove il principe Gjomarkaj era stato ferito dai comunisti e quello dove aveva voluto essere abbandonato, per coprire combattendo la ritirata dei suoi uomini e infine morire. Lungo la strada per Scutari la tomba di Skanderbeg, ad Alessio, Lezha: un sobrio colonnato coperto racchiudente le mura perimetrali di una chiesetta in cui vi è la tomba e lungo le pareti della quale vi sono scudi di bronzo recanti i nomi delle battaglie. Poiché il monumento è stato risistemato dal governo di Enver Hoxha non vi è alcun segno religioso, ma non vi è neppure la stella comunista sulla grande bandiera albanese in mosaico, nello sfondo.
Nei pressi, i ruderi delle antiche mura veneziane, bianche come quelle in pietra d’Istria, con i vecchi cannoni puntati verso l’Adriatico, contro i turchi.
Allorché salivamo verso i monti di Lura, passando in una gola di straordinaria bellezza, in mezzo alla quale si erge uno sperone roccioso recante sulla cima i resti di uno dei principali castelli di Skanderbeg, mi veniva alla mente il passo dell’Ultimo canto di Bala, il poema scritto da un ufficiale di Skanderbeg, già rifugiatosi in Sicilia, a Palazzo Adriano, dopo la morte del condottiero e il prevalere delle armi turche. In esso Bala ricordava la montagna albanese e, in particolare, un momento felice nel quale il capo, con gli ufficiali, stava attorno al fuoco, acceso per cuocere il cibo. La foresta, nelle gole di Lura, è costituita da faggi secolari, che poco alla volta cedono spazi alle conifere, quanto più si sale, e restano con esse a lungo frammisti: il paesaggio boschivo è molto suggestivo, poiché gli enormi faggi, talvolta contorti, dal tronco grigio chiaro che spicca sul fondo scuro delle conifere, creano uno scenario che sembra disegnato da Gustave Doré. Giunti sotto le cime, il panorama si apre, si fa ameno e mostra una serie di sette laghi — delle dimensioni circa del lago di Misurina —, pittorescamente collocati a livelli diversi, nei pressi l’uno dell’altro, contornati da prati e da conifere.
Vicino al primo — il “lago dei fiori”, così chiamato poiché stagionalmente si copre di ninfee — i montanari della zona avevano acceso un fuoco per noi e uno di essi stava cuocendo un grosso agnello. Nell’attesa del pranzo, un biondo cavaliere locale si esibiva in evoluzioni con un cavalluccio nero, anzi persino con due, cavalcandoli perigliosamente davanti alla sella e tenendoli uniti per la criniera. Idilliaco il panorama, incantevole il posto — anche per le evocazioni letterarie così vivamente affiorate —, ma non immune dalle tracce di quella forza mostruosa e brutale che aveva attanagliato — e in parte ancora trattiene — l’Albania: un montanaro sui sessant’anni, dal portamento tranquillo e dallo sguardo mite e buono, si avvicinava e ci raccontava di essere stato recluso cinque anni nel famigerato carcere di Burrel, mentre due suoi fratelli erano stati fucilati.
Fra le cose più sconvolgenti la visita negli ospedali: in essi si trovano medici di ottimo livello scientifico, formatisi anche all’estero, i quali, per un corrispettivo irrisorio, si prodigano fra mille difficoltà per curare i degenti. Manca quasi tutto: dai guanti chirurgici — quelli che ci sono, ci diceva un medico, vengono utilizzati fino a sette volte, lavandoli e sterilizzandoli alla meglio —, alle lampadine speciali per illuminare il lettino in sala operatoria, ai medicinali nella farmacia. Il personale generico lamentava anche la carenza di sapone e detersivi. Disperante, poi, la situazione degli ausili tecnici come, per esempio, gli appositi veicoli per i motulesi: anche per le strade si incontrano persone — talvolta assai distinte — sistemate su carrettini costruiti artigianalmente e sospinte da parenti di buona volontà. Le attrezzature, quando ci sono, si mostrano obsolete e necessitanti di sostituzione. Si nota ovunque la discreta presenza delle suore di Madre Teresa di Calcutta — che è albanese —, giunte in forza per sovvenire alle necessità dei più disperati.
In tanto contrasto di situazioni e di sentimenti, la cosa di gran lunga più commovente con la quale si è venuti in contatto in Albania è stata la rinascenza della Chiesa. Le unghiate del mostro sono ancora visibili: la chiesa del Sacro Cuore di Tirana, per esempio, ha la facciata coperta dall’anonimo muro che ne aveva fatto un cinema; all’interno vi è la parete sulla quale si proiettavano i film; sono però ancora bene in vista le antiche strutture, le fughe verso l’alto dei motivi in mattoni rossi a formare le volte neogotiche, è ben visibile l’abside e se anche i vetri cattedrale non ci sono più e al loro posto troneggiano occhiaie vuote, la domenica, affollatissima, si celebra nuovamente la Messa: è giunto dal Brasile un padre gesuita che celebra in lingua italiana, coadiuvato da un laico, il giovane studente di architettura Josef, che traduce frase per frase la predica e gli avvisi. In tutti vi è grande entusiasmo e desiderio di diffondere la fede. Tutti vorrebbero possedere un rosario, che è merce ancora rara in Albania. “È nostro compito — dice il padre gesuita — formare le nuove aristocrazie dell’Albania. Abbiamo però bisogno di borse di studio per l’estero, per la scuola media superiore, l’università, la specializzazione. È perciò necessario che i ragazzi albanesi trovino all’estero amici fidati, che li affianchino ed evitino che essi divengano materialisti”.
La Santa Sede sta restaurando la cattedrale e il palazzo arcivescovile di Scutari, che erano stati trasformati in impianti sportivi. E a Scutari incontro don Mazreku, rimasto in prigione lunghissimi anni e infine liberato: le sofferenze non hanno piegato la sua tempra, il suo pensiero è chiaro e acuto, il suo portamento pieno della dignità sacerdotale. Anche qui i laici, fra i quali numerosissimi i giovani, sono molto attivi. Sebbene colti e preparati, pochi di essi possiedono titoli accademici, poiché il governo comunista era soprattutto attento a togliere importanza sociale ai cattolici, impedendo loro l’accesso alle scuole superiori. Assai significativo l’incontro con un gruppetto di intellettuali, decisi ad agire per riportare l’Albania nell’orbe cattolico. Fra di essi Enrik, che ha ripreso la pratica del cattolicesimo, ha due figli catecumeni e vuole collaborare con Alleanza Cattolica per il regno sociale di nostro Signore. “I comunisti ci sono ancora e sono pericolosissimi — afferma — nonostante attualmente siano essi ad avere paura“. Racconta come sia stato arrestato sotto il regime comunista, onde ottenere una confessione distorta, che avrebbe dovuto permettere l’arresto di altri cristiani, e ciò dietro promessa di immunità e di riconoscimenti per lui. Rinchiuso in una cella di un metro per uno, senza possibilità di distendersi in alcun modo per poter riposare, durante la prigionia pregò Dio di farlo uscire pulito da quel luogo e promise che per cinque anni non avrebbe toccato, il venerdì, né cibo né acqua. Narra che venne esaudito e che per cinque anni consecutivi, ogni venerdì, egli… non provò mai il minimo stimolo di fame o di sete.
L’Albania è una realtà coinvolgente: fu proprio Enrik a chiedermi, quando stavamo per partire, se consideravo raggiunto lo scopo del viaggio: “Certamente — potei rispondere — soprattutto perché ho incontrato persone come voi”.
Gianpaolo Sabbatini