CRISTINA SICCARDI, Cristianità n. 352 (2009)
Il cardinale Guglielmo Massaja O.F.M. Cap. (1809-1889), di cui cade nel 2009 il bicentenario della nascita, partì per l’Africa con l’ansia di chi è in ritardo sul comando del Figlio di Dio: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno” (Mc. 16, 15-18). Partì per conquistare più anime possibili a Cristo Salvatore e per civilizzare le genti. La sua può essere, a ragione, definita una vera e propria epopea missionaria, una leggenda eroica e a suo modo mitica, oggi purtroppo dimenticata a causa di una precisa volontà di relegare questa grande figura nella polvere delle biblioteche, essendo stato non certo un uomo politicamente corretto e “buonista”: non ha mai partecipato a marce della pace, ma ha sempre combattuto, vero soldato di Cristo, in nome della fede, per portare la vita, anche materialmente sana, agli africani e per indicare loro la via per la salvezza eterna.
1. Sulle colline del Monferrato
Lorenzo Antonio Massaja, settimo di otto figli, nasce l’8 giugno 1809 nella frazione “La Braja” di Piovà d’Asti, ora Piovà Massaia. Suo padre, Giovanni (1774-1853), è un piccolo proprietario rurale e sua madre, Maria Bertorello (1774-1837), una casalinga. Trascorre l’adolescenza sotto la guida del fratello Guglielmo (1795-1833), parroco di Pralormo (1821-1828), e frequenta il Collegio Reale di Asti come seminarista dal 1824 al 1826.
La vocazione religiosa arriva presto e il 6 settembre 1826, a Madonna di Campagna in Torino, indossa il saio cappuccino, al quale rimarrà legato sempre con profondo amore, cambiando il nome di battesimo in quello del fratello sacerdote. Dopo aver ricevuto il presbiterato a Vercelli, il 16 giugno 1832, e aver terminato gli studi, è cappellano dell’Ospedale Mauriziano di Torino dal 1834 al 1836, cosa che gli consente di apprendere preziose nozioni elementari di medicina e chirurgia, le quali gli torneranno molto utili durante il suo apostolato in Africa.
La realtà ospedaliera mauriziana permette a san Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842) di venire in contatto con padre Guglielmo al quale si lega con profonda stima, fino a divenire sua guida, confessore e consigliere. Nel decennio 1836-1846 padre Guglielmo insegna filosofia e teologia nel convento di Moncalieri-Testona. Proprio in questo periodo re Carlo Alberto di Savoia (1798-1849) lo sceglie in qualità di direttore spirituale dei due figli, Ferdinando (1822-1855) e Vittorio Emanuele (1820-1878). Quando, nel 1845, si trasferisce al Monte dei Cappuccini in Torino, diventa direttore spirituale del letterato Silvio Pellico (1789-1854), che dopo la prigionia nella fortezza dello Spielberg, a Brno, in Moravia, aveva subito una profonda trasformazione di coscienza, aggrappandosi fortemente alla fede, anche grazie alla benefica influenza che su di lui avevano avuto i marchesi Giulia (1785-1864) e Carlo Tancredi Falletti di Barolo (1782-1838). Pellico entra nell’alta considerazione di padre Massaja, che lo accoglie con grande affetto.
Re Carlo Alberto si adopera affinché venga nominato vescovo, ma il padre cappuccino non vuole saperne, essendo troppo umile per ambire alle cariche che voleva tenere ben distanti da sé. Tuttavia in Vaticano il suo nome ormai circola. Ha 37 anni quando Papa Gregorio XVI (1831-1846) lo chiama a Roma per comunicargli che dovrà assumere il Vicariato di una nuova missione all’estero, fra la popolazione galla, in Etiopia. Massaja, pur a malincuore, non per l’incarico, ma per il titolo di vescovo, accetta: “Ora, come sia andata la cosa non lo so, sono caduto nella rete […]. Per non far ragazzate, farò ogni possibile, e vedrò se mi riesce cavar sangue da una rapa, tanto che basti a sostener la forma come vescovo” (1), commenterà in una delle sue innumerevoli lettere, ricchissime di cronache, aneddoti, commenti e dallo spirito sempre ironico. Dall’epistolario (2) emerge il vero Massaja: l’immediatezza degli scritti, compilati di getto, spesso dettati dall’emergenza delle situazioni in cui veniva a trovarsi, sono documenti preziosissimi perché rivelano la libertà e la disinvoltura dell’autore, e riflettono un temperamento schietto, forte e deciso, ancorato alla verità, a qualunque costo, anche al prezzo di pagare di persona. Appassionato e instancabile propugnatore del Vangelo, non si cela dietro paraventi o scudi, e le sue parole non sono mai misurate e calibrate: scrive le lettere, utilissime per comprendere questa personalità tanto schietta e genuina, dalla lucidità e sicurezza impressionanti. Anche le memorie, I miei trentacinque anni di missione nell’Alta Etiopia (3), che Papa Leone XIII (1878-1903) gli ordina di compilare e che l’autore distribuisce in dodici volumi, sono carte altrettanto importanti, ma comunque prive di quell’immediatezza e spontaneità di cui le lettere sono imbevute.
Il 1846 è determinante per la diffusione del cattolicesimo in Etiopia. Con Breve del 4 maggio, Papa Gregorio XVI, il Pontefice che ebbe un’attenzione particolarissima per le missioni, istituisce il Vicariato Apostolico dei galla, chiamando a reggerlo come vescovo titolare di Cassia proprio monsignor Massaja, che viene consacrato nella chiesa di San Carlo al Corso, in Roma, il 24 maggio, giorno di Maria Ausiliatrice.
Lascia l’Italia il 4 giugno 1846 per raggiungere “le ridenti contrade situate fra le sorgenti del Nilo azzurro e quelle del Nilo bianco” (4) insieme ai suoi quattro compagni di ventura: padre Giusto da Urbino (1814-1856), padre Cesare da Castelfranco (1818-1860), padre Felicissimo Cocino da Cortemilia (1816-1878) e fra Pasquale da Duno (1803-ca. 1873). Arriveranno a destinazione soltanto sei anni dopo, il 21 novembre 1852, superando inaudite sofferenze, pericoli e avventure dal fascino romanzesco, degne di Emilio Salgari (1862-1911) o di un regista del calibro di George Lucas con il suo personaggio di saga epica Indiana Jones.
La sua missione si svolge prevalentemente in Etiopia, allora chiamata Abissinia, lo stato considerato il più antico del continente e che si trova nel Corno d’Africa. L’Etiopia è morfologicamente molto disordinata, con montagne disconnesse e altopiani divisi dalla Valle del Rift, che percorre la parte sud-orientale e nord-orientale del paese ed è circondata da bassopiani, steppe e semi-deserto. La grande varietà del territorio determina una corrispettiva differenziazione di clima, fauna e flora. Diversificata risulta anche la composizione etnica, a causa dell’integrazione razziale e linguistica che ebbe inizio fin da tempi remoti. I principali gruppi sono gli amhara, o abissini, una popolazione di origine camitica presente sull’altopiano, a nord di Addis Abeba; i galla, od oromo, nella zona centro-meridionale; i somali, a oriente, nella regione dell’Ogaden; i sidama, che risiedono principalmente nelle regioni sud-occidentali; i danachili, o afar, stanziati nelle pianure semidesertiche della zona nord-orientale del Paese.
Otto traversate del Mediterraneo, dodici del Mar Rosso e quattro pellegrinaggi in Terra Santa; quattro assalti all’impenetrabile fortezza abissina dal Mar Rosso, dall’Oceano Indiano e dal Sudan; quattro esili, altrettante prigionie e ben diciotto rischi di morte costituirono il bilancio di quella sua leggendaria missione, che lo annovera fra i più grandi apostoli della Chiesa.
Giunge ad Alessandria d’Egitto pronto a iniziare l’opera di evangelizzazione. Subito rileva e registra l’incontro di “tutta la civilizzazione europea” (5) e di “tutta la barbarie araba” (6). Egli afferma che i quartieri europei erano degni di Torino e di Roma, ma a pochi metri “uomini che non son uomini, ma bestie: vestono come le bestie, mangiano come le bestie, abitano tane da bestie” (7). Ma chi li riduce così? Egli non ha dubbi: esprimendosi nel modo tipico del tempo — che si potrebbe definire, sulla scia delle parole di Papa Benedetto XVI a Ratisbona quando gli capitò di citare un testo analogamente duro, “brusco al punto da essere per noi inaccettabile” (8) e nello stesso tempo capace di sollevare una “domanda centrale” (9) — “[…] è il maledetto Corano” (10) che favorisce “l’infame vizio del senso” (11). E la vecchia Europa politica di fronte a questo come si comporta? Sembra non avvedersene, inviando consoli impreparati: “dovrebbero essere persone laureate di carriera, e che non fossero lasciati tanto fermi nel medesimo luogo” (12), altrimenti instaurano relazioni e amicizie contrarie all’opera di giustizia e, influenzati dai costumi del luogo, “diventano la pietra dello scandalo” (13).
2. L’Africa dell’Abuna Messias
Quale Africa trova al suo arrivo? Per organizzazione sociale, moralità e spiritualità molto simile a quella visitata da Papa Benedetto XVI dal 17 al 23 marzo 2009, e descritta anche dal documento che il Papa è andato a presentare, l’Instrumentum laboris della Seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi che si terrà a Roma nei giorni 4-25 ottobre 2009 (14).
Gli aspetti positivi della cultura africana che trova Massaja sono quelli illustrati dal Papa: il senso religioso, l’amore per la vita e l’attaccamento alla famiglia. Grandissimo è, infatti, il senso religioso, come ha affermato il Sommo Pontefice durante il suo viaggio: “in Africa il problema dell’ateismo quasi non si pone perché la realtà di Dio è così presente, così reale nel cuore degli africani che non credere in Dio, vivere senza Dio non appare una tentazione” (15).
La cultura africana tradizionale e pre-cristiana presenta al tempo di padre Massaja, come oggi, anche i risvolti deteriori dei tre punti precedenti e le “credenze e pratiche negative delle culture africane” (16) che non devono essere nascoste in nome del relativismo. Il senso religioso comporta anche un elemento oscuro: la paura degli spiriti, dei poteri nefasti da cui molti africani si dicono minacciati, arrivando a compiere azioni terribili per esorcizzare quel terrore. “La stregoneria lacera le società dei villaggi e delle città” (17) e i legami esaltati dalle tribù arrivano a generare i “frutti feroci del tribalismo e delle rivalità etniche” (18), come ha ancora dichiarato Papa Benedetto XVI in Africa.
Il Vangelo è la risposta sicura alla “grande sete di Dio” (19) che percorre, ovunque, l’Africa. Al di là dei problemi sorti a partire dalla decolonizzazione, a causa della massiccia presenza dell’AIDS, di una cattiva gestione della sessualità, e da alcuni aspetti della globalizzazione economica, l’Africa, come dimostra con la sua evangelizzazione il cardinale Massaja, rimane un continente non solo pronto a ricevere la Buona Novella e con essa la civilizzazione, ma anche desideroso di conoscerla, come ebbe a dire un’africana a suor Gian Paola Mina (1917-2000), missionaria della Consolata, nonché giornalista e scrittrice. Un giorno lontano, nella boscaglia africana del Kenya, arredata da qualche capanna, suor Gian Paola stava concludendo la sua ora di catechesi a una piccola folla di persone sedute per terra. Fra loro una donna: piedi scalzi, mani rugose e ruvide, occhi scrutatori e acuti che tormentavano suor Gian Paola. Ascoltava, rapita, senza proferire parola. Alla fine, conclusa la lezione, si alza in piedi e parla forte: “Se tutte le cose che hai detto sono vere, se quel Gesù di cui parli è veramente anche il nostro Salvatore, perché hai aspettato tanto a venircelo a dire?” (20). Nella sua voce c’era il sentimento misto di chi è stata vittima di un grande torto, ma anche di chi finalmente vede uno squarcio di luce nelle tenebre. Scriverà suor Gian Paola nel 1984: “Ora, ogni volta che qui in Italia partecipo a raduni dove giovani e adulti discutono se in questo mondo così pieno di atroci urgenze materiali e sociali, le missioni abbiano ancora ragion d’essere o se si debbano ancora evangelizzare i poveri, a me balza vivo alla memoria l’accorato rimprovero e il dito puntato di quella donna che, se fosse lì, griderebbe a tutti: “Se è vero che Gesù solo è il Salvatore e in lui sola la liberazione, perché invece di discutere non vi muovete a dirlo a chi non lo sa? Sapeste come è triste la vita senza di lui! Non abbiamo anche noi, i poveri, il diritto per primi di conoscere la sua misericordia?”” (21).
Ebbene, duecento anni fa il cardinale Massaja ha operato la Verità e la liberazione fra i popoli africani in cui visse e ha operato, presentando le distorsioni non solo politiche, ma anche delle realtà cristiane nel continente nero: “Cristiani di varie razze e di tutti i riti; ma staccati dal corpo della Chiesa Cattolica: “in molti punti della loro morale son caduti più in basso degli stessi musulmani”: prendono il contagio delle fedi estranee; giungono a gloriarsi della circoncisione ebraica, e a sostituire alla confessione cattolica la purificazione maomettana. La loro fede non è più che orgoglio di razza, amor proprio nazionale, gioco d’interessi; e perciò non ha più né radici né continuità. E il clero orientale è più estraneo del popolo allo spirito evangelico: il sacerdozio è per essi un mestiere; il missionario cattolico un concorrente pericoloso […]. “Una tale decadenza non nacque dallo scisma, ma piuttosto questo nacque da quella” (22).
Rimane ad Alessandria tre settimane, poi raggiunge Il Cairo dove ammira le Piramidi. Intanto, a Roma, sul trono di san Pietro, alla morte di Papa Gregorio XVI, succede alla guida della Chiesa il beato Papa Pio IX (1846-1878). Papa Gregorio XVI, nel suo testamento, aveva destinato una somma consistente al vescovo Massaja. Con questa donazione, sommata ai 3.000 scudi romani che la Congregazione di Propaganda Fide gli aveva dato, in aggiunta ai 15.000 franchi ricevuti dal Consiglio Centrale dell’Opera della Propagazione di Lione, il vescovo coraggioso e traboccante di fede si muove verso Suez.
Il taglio dell’istmo non era ancora stato realizzato — il canale sarà progettato più tardi dall’ingegnere italiano Luigi Negrelli (1799-1858) e aperto nel 1869 —, perciò mons. Massaja attraversa il deserto caldo e ostile a dorso di un cammello e sui traballanti mezzi di trasporto inglesi.
Giunto sul Mar Rosso, con l’occhio dell’uomo di scienza — che avversava lo scientismo positivista ed era fortemente contrario alle teorie del naturalista inglese Charles Darwin (1809-1882) —, si entusiasma nel vedere di persona la fallacia delle teorie positiviste che investono le scienze religiose, constatando come sia inverosimile l’ipotesi scientifica secondo cui non sarebbe stata la mano di Dio a dividere le acque, bensì il fenomeno delle maree — “onde spiegarlo col riflusso e schivare il miracolo” (23) — contestando quanti nel secolo XIX — e anche nel XX — si sono impegnati a negare o a sminuire l’intervento divino nella circostanza. Inoltre, studia con attenzione e perizia, anche psicologica, il carattere che distingue greci, armeni e copti, dei quali ricostruirà, nei suoi appunti, dopo tanti viaggi per mare e per terra insieme a tante persone, le diverse tipologie etniche, culturali e religiose, mostrandosi molto critico di fronte alle chiese scismatiche d’Oriente.
S’imbarca sotto la protezione della bandiera francese. Il mare è agitato, arriva la burrasca. Lui e i suoi compagni missionari attendono il naufragio e allora, “raccomandataci l’anima a Dio ed amministrataci reciprocamente la santa assoluzione, stavamo aspettando ogni momento la fine della nostra carriera e Missione” (24). Ma all’alba il mare si placa. Approdano a Gedda, sulla costa asiatica del Mar Rosso. Prima Tor, poi Jambo, poi Rabbo. A Jambo Massaja, insultato dai musulmani algerini che si recano in pellegrinaggio alla Mecca, per proteggere sé e i suoi compagni, fa alzare la bandiera francese. Tuttavia viene a crearsi ancor più forte agitazione, perciò si affretta a farla ammainare. Nelle sue memorie, commenta: “Quanto avrebbe fatto meglio la Francia se, invece di limitarsi a favorire la religione degli indigeni, avesse aiutati i missionari a redimere le turbe ignoranti. Non si sentirebbe ora vilipesa da quelli stessi che ha tanto aiutati e agevolati” (25).
Suo obiettivo è quello di raggiungere Aden, al di là dello stretto di Bab-el-Mandeb, per tentare di penetrare nelle terre della popolazione galla per la via di Zeila, divenuta poi Gibuti, che considerava la vera porta dell’Etiopia. Ma la strada era ancora assai lunga e gl’imprevisti sempre in agguato. Attraversa il Mar Rosso per poi approdare alle isolette Dahal e il 25 ottobre 1846 getta l’ancora a Massaua, allora sotto il dominio dei turchi e abitata da soli arabi. È il primo vescovo, dopo tre secoli, che si azzarda a metter piede in questa terra, bagnata dal martirio di antichi pastori e poi “abbandonata da Dio” (26). Qui trova a operare don Giustino De Jacobis (1800-1860), della congregazione di San Vincenzo de’ Paoli (1581-1660) — canonizzato da Papa Paolo VI (1963-1978) nel 1975 —, che aveva già dato sviluppo a una missione molto feconda a Gualà e, facendo la spola fra l’altopiano e la costa, aveva convertito interi villaggi. Ma ormai, privo di ogni tipo di comunicazione con l’Europa, era giunto all’esaurimento dei mezzi economici e grande era il suo bisogno di sacerdoti, che Massaja si appresta ora a ordinare.
Per giungere al cuore della missione di don De Jacobis a Gualà, presso la chiesa abissina di San Giovanni, occorrono cinque giorni di faticosa marcia in montagna, fra le tribù dei soho musulmani. Mons. Massaja marcia a piedi e la notte dorme tra i fuochi per allontanare le belve feroci. Ode con “spavento” (27) i ruggiti dei leoni e dei leopardi. Notti fredde, trascorse all’addiaccio con “una pelle conciata da stendere per terra, una coperta abissina di doppia tela, e per capezzale un piccolo sacco con dentro la muta delle camicie” (28).
Sale fra Hallài e Tukùnda, sulla vetta del monte, e di lassù è colto dalla meraviglia e dalla maestà del panorama del vasto piano dell’Etiopia: “Quando l’Abissinia fu creata dal Signore unitamente a tutto il resto del globo, non dubito che fosse la più bella parte della terra […] un sorprendente teatro ed un ricchissimo tesoro […]. Provai la sensazione di chi, recatosi sul colle di Superga, scopre l’orizzonte di Torino, Chieri e tutto il Monferrato” (29). Ma invece di case, cascine, vigneti, animali domestici, pecore, ecco leoni, tigri, pantere, iene e indigeni, armati di lancia, dallo sguardo “che fa tremare” (30), ma in realtà buoni e ospitali. I padri missionari che accompagnavano il vescovo, padre Cesare e padre Felicissimo, di fronte a quella magnificenza, intonano un salmo.
Ha “la testa rotta in mille faccende” (31) mons. Massaja, eppure, non si sa come, trova tempo e modo di studiare la lingua amarica, che impara velocemente, tanto che può presto accostarsi a quella dei galla. In loco operano i cristiani ortodossi copti e la gente non riesce a comprendere la differenza dei riti, perciò mons. Massaja, per spirito di tolleranza, acconsente alle funzioni con il rito etiopico. Mancano però gli arredi sacri per le funzioni e allora s’industria per procurarli: “Io con le mie stesse mani taglio pianete, le cucisco, le benedico, e poi consacro i Sacerdoti che le dovranno portare” (32).
Quando il vescovo italiano entra in Etiopia trova una situazione religiosa più o meno simile all’attuale. La religione predominante era quella copta, che vantava una certa tolleranza nei confronti delle altre forme cristiane, ma quella cattolica non era ben vista dal clero locale. La differenza principale tra la religione copta e le altre cristiane sta nel fatto che i copti sono monofisiti, negano cioè la doppia natura, umana e divina, di Gesù Cristo (33). Il monofisismo è una delle principali cause di frattura all’interno del cristianesimo ed è stato condannato come eresia dal Concilio di Calcedonia del 451. Da allora gran parte dei copti, riuniti nelle Chiese copte rispettivamente siriaca, armena, egizia ed etiope, non riconoscono l’autorità del Papa.
La Chiesa Copta è diventata in Etiopia il pilastro su cui poggiava il potere dei Negus. La stretta connessione con il potere temporale, la forte carica conservatrice, il suo isolamento dal mondo esterno, hanno fatto sì che questa Chiesa divenisse come un gigante ripiegato su se stesso, con la funzione di conservare l’universo chiuso fra gli altopiani. La Chiesa Copta etiope conta da sempre un clero quantitativamente numeroso; oggi esistono circa ottocento monasteri in cui, fra l’altro, si pratica ancora l’arte della copiatura dei testi sacri.
La dinastia che ha retto le sorti dell’Etiopia è detta salomonica. Fa risalire le sue origini alla figura, per alcuni storici mitica, di Menelik I, figlio del re Salomone e della Regina di Saba, ed è terminata con il Negus Hailè Selassiè (1892-1975), che si proclamava ultimo discendente diretto di Menelik, e in questo senso avrebbe chiuso la dinastia dopo duecentoventicinque generazioni. L’evangelizzazione della dinastia etiopica e di tutto il popolo dell’altopiano inizia a partire dal IV secolo ad opera di Frumenzio, monaco siriano che viaggiava a bordo di una nave di ritorno dall’India assalita dalla flotta del Regno di Axum. Condotto prigioniero nella capitale Axum, Frumenzio entra nelle grazie del Negus Ella Amida, vissuto tra la fine del secolo III e i primi decenni del secolo IV, e alla morte del re viene invitato dalla regina a prendersi cura del figlio Ezana (321 ca.-360), ancora in fasce. Il suo potere a corte e la sua ascendenza sul giovane sovrano determinano la conversione del re. Frumenzio venne consacrato vescovo nel corso di un viaggio ad Alessandria d’Egitto e chiamato Abuna Salama, che significa “Padre della pace”: nome con cui viene ricordato dalla tradizione etiopica e con il quale si continuano a definire i vescovi copti.
In questo contesto di fortissima presenza copta (34), mons. Massaja si trova in una situazione difficilissima, divenendo oggetto di feroce odio: il vescovo copto, Abuna Salama, in ottimi rapporti con le autorità di governo, tenta di tutto per far espellere il “nemico” e, non riuscendo nell’intento, gli dichiara guerra aperta e progetta disegni di morte su di lui. La situazione è davvero grave, ma mons. Massaia l’affronta sorretto dal Credo e dalla mano di Dio. Quei “regnicoli” (35), divisi da un “dispotismo stravagante” (36), come egli stesso affermava, ostacolano continuamente la strada percorsa dall’uomo dalle mille risorse, pronto a qualsiasi cosa pur di testimoniare e mettere a dimora sul nuovo terreno la fede. Predispone quindi un piano strategico: “Per poter penetrar presto in quei paesi di mezzo è di tutta necessità prenderli da due lati” (37). Nasce l’idea principe di creare un clero indigeno. Così i preti africani, da soli o in compagnia dei missionari bianchi, scenderanno più facilmente da Nord, entrando più liberamente in Abissinia, mentre lui percorrerà le vie da Sud, partendo dal Mar Rosso. “Comincia un anno di inquietudini, di lotte con se stesso, di tentativi affannati, in cui arerà il Mar Rosso in tutti i sensi come un disperato: in poco più di dieci mesi lo traverserà otto volte, e ne esplorerà due volte tutte le coste occidentali; deciso a trovare comunque una strada per lo Scioa, e obbligato a curarsi della Missione di Aden” (38).
Le guerre fra le tribù etiopiche vengono a più riprese a disturbare l’opera missionaria di mons. Massaja, che si appresta a diventare alpinista con ascensioni anche su roccia viva e su pareti verticali. Commenta, con l’umorismo che gli è proprio e che non perde occasione di esternare: “[…] mi han tirato su come una secchia dal pozzo: bella figura che fece il povero Vescovo di Cassia con tutto il suo Vicariato […]. Dormendo non faceva che sognar precipizi; vegliando, li vedeva” (39).
Il vescovo ha la fortuna d’incontrare Antoine Thomson d’Abbadie d’Arrast (1810-1897), viaggiatore, naturalista, esploratore e cartografo francese di madre irlandese, autore scrupoloso di cartine africane. Rimangono insieme otto giorni, durante i quali mons. Massaja, con la sua formidabile capacità di apprendimento, ha modo di acquisire molteplici conoscenze. Non si contano le peripezie e i sacrifici affrontati da questo intrepido banditore della fede e conquistatore d’anime, prima ancora che dei territori africani, perché di vere e proprie conquiste si tratta a causa della non facile penetrazione di un uomo europeo fra genti estranee, a volte tanto ostili quanto la natura esuberante, prorompente e violenta del Continente Nero. L’epica e straordinaria vita del vescovo è talmente abbondante di rischi affrontati, di atti eroici, d’invincibile fede che denota un chiaro sostegno divino a quell’impresa missionaria che lo ha visto protagonista indiscusso per tanti anni, vincitore d’insidie e di pericoli mortali.
L’attività di mons. Massaja si articola in periodi ben definiti: le missioni dei galla, dal 1852 al 1863, con la fondazione di stazioni nel Gudrò, nel 1852, nell’Ennèrea, nel 1854, nel Kaffa, in Lagàmara, nel 1855, e nel Ghera, nel 1859. Dopo una permanenza in Europa — dove torna cinque volte — per riorganizzare la missione e fondare il collegio San Michele a Marsiglia, nel 1866, costituisce la Missione dello Scioa, dal 1868 al 1879, dove re Menelik II (1844-1913) lo trattiene come consigliere, e nel 1868 fonda molte case missionarie a Fekerié-Ghemb e Finfinni, poi elevata nel 1889 a capitale di tutta l’Etiopia con il nome di Addis-Abeba. L’esilio decretato dall’imperatore Joannes IV (1831-1889), il 3 ottobre 1879, tronca definitivamente l’azione del vescovo, costringendolo alla rinuncia, che sarà redatta a Smirne il 23 maggio 1880.
Massaja, intrepido e determinato, chiama a raccolta molti cattolici in Italia e in Europa, li infiamma e li ammonisce, invitandoli a contribuire alle missioni che stava fondando in Abissinia. Scrive lettere su lettere per chiedere soccorso e, nei primi anni, riceve qualche aiuto. Poi più nulla. Nonostante le difficoltà, questo paladino di Cristo non sembrava fermarsi di fronte a niente, perché ogni cosa compiva in nome di Cristo, in quanto si sentiva “tutto fuoco per le Missioni” (40) e, dunque: “Fin che avrò fiato e voce — scrive — accompirò il dovere che per tremendo decreto di Dio sta sulle mie spalle” (41).
Abuna Salama, che fece di tutto per allontanarlo, obbligandolo anche alla ritirata, mai alla fuga, e bruciandogli perfino le capanne, definisce beffardamente e con irrisione mons. Massaja Abuna Messias, il “Vescovo Messia”, con allusione al suo cognome; ma lui, come scrive nelle sue memorie, intenderà “[…] essere così chiamato per l’avvenire, tenendomi troppo onorato di un tal nome” (42), trasformando l’appellativo di vilipendio in suggello di gloria.
Il 7 gennaio 1849 a Massaua, di notte, come un ladro e dentro un tugurio, consacra vescovo De Jacobis, primo vicario apostolico dell’Abissinia, in una cornice di fuoco e di sangue, mentre infuria la guerra fra abissini ed egiziani. I due missionari hanno un solo pastorale e un solo pontificale per la consacrazione, perciò se li devono passare di mano in mano. Fuori risuonano le urla di battaglia, con gli abissini che tumultuano contro i cristiani per i quali il governatore non ha potuto garantire alcuna incolumità. Intanto fra Pasquale da Duno attende alla Messa e gira di qua e di là con due pistole infilate nel suo cingolo di cappuccino, e alla finestra alcuni fedeli europei vigilano sul mare, mentre le barche sono pronte a salpare al primo allarme. Casse d’imballaggio per altari e per seggi, un cerchietto d’argento con una pietra falsa come anello episcopale. Per officianti due sacerdoti indigeni che non sanno servire la Messa in rito latino e che sono stati istruiti nella notte sotto il rumore del martello di fra Pasquale, che inchioda le casse per fabbricare l’altare. Al Prefatio i due vescovi piangono nella commozione generale della piccola assemblea.
Gli abissini di Ubiè hanno messo a ferro e fuoco tutti i paesi dipendenti da Massaua, percorrendo le coste, lasciando traccia di orrori e vittime su vittime e fra gli uccisi moltissimi evirati. Nelle sue memorie il vescovo esprime considerazioni di carattere politico: se gli europei, invece di frivoli interessi e “fanciulleschi puntigli”(43), si fossero occupati seriamente del vero bene e dello sviluppo dell’Africa, non avrebbero mai permesso all’Impero Ottomano il possesso di Massaua; invece l’Europa insorge contro la tratta soltanto a parole, chiudendo gli occhi davanti ai mercanti di schiavi. Afferma: “L’Abissinia, resa indipendente, civile e veramente cristiana, e costituita in regno sotto la protezione di qualche potenza europea, sarebbe stato l’unico mezzo per portare la vera civiltà nell’Africa centrale, e per abolire seriamente la tratta” (44). Invece a proposito dell’Abissinia, con parole profetiche, dichiara: “[…] abbandonata alla scimitarra turca e ai partiti che la dilaniano e la dissanguano […] cammina a gran passi verso la sua rovina, per difetto di principio vitale e di ordine sociale” (45).
Affronta sacrifici, lotte, privazioni di ogni sorta, che gli procurano gravi problemi di salute, tutto per amore di Cristo e dei galla, che lo ricambiano di affetto e di ammirazione senza misura, tanto che la sua memoria in quei territori permane ancora oggi. Non vi sono medici, l’unica terapia sono i salassi con le sanguisughe e arriva ad applicarsene duecento in quattro giorni. È un uomo che non riposa mai, né con la mente, né con il corpo. La preghiera è il suo unico rimedio.
3. Il vescovo dai mille volti e dall’unica fede
Fra leoni e coccodrilli, spie dell’Abuna Salama e guerriglieri, mons. Massaja cerca di farsi strada fra le giungle della terra, le acque dei fiumi e dei laghi maestosi. I suoi racconti di viaggio sono puntellati di vivace intelligenza e di sagacia. Nell’ammirare la bellezza del lago Tana ripensa al Sud dell’Italia. Clima meraviglioso, vegetazione rigogliosa, limoni, aranci, peschi, nuvole di smaglianti uccelli, arcipelaghi lussureggianti: “Oh, se invece di quella gente oziosa e inerte, vi fosse un popolo operoso e industrioso che ne coltivasse il fertilissimo terreno, e una compagnia che, con piccoli piroscafi, avvicinasse le varie popolazioni dell’esteso litorale, e le unisse come in una grande continuata città…” (46). Nel leggerlo sembra di riascoltare il missionario Clemente Vismara (1897-1988), del PIME, il Pontificio Istituto Missioni Estere, vissuto per 65 anni in Birmania e fautore dell’operosità e del progresso che soltanto il cristianesimo arreca all’umanità: “La gente qui è povera proprio perché vuol rimanere povera o meglio miserabile. La pigrizia è come incarnata in loro, a volte vien persino lo scrupolo ad aiutarli, spesso aiutarli vuol dire renderli ancora persino più pigri […]. Non se la scaldano per nulla. Se hanno da mangiare per due giorni, si fermano un giorno. Il risparmio è sconosciuto: se s’ammalano o capitano infortuni, vengono a piangere. Dicano pure che il buddismo è una buona religione, da rispettare. Io sono persuasissimo: ricevano pure miliardi e miliardi dall’America e dall’Europa, ma se non cambiano religione saranno sempre allo stesso punto […]. La colpa è della cattiva religione che hanno, che li riduce così. La formazione spirituale cristiana produce da sé, come conseguenza, anche il benessere materiale” (47).
L’epopea massajana fu caratterizzata da una pastorale efficacissima: la formazione saggia della gioventú; la costituzione di un clero autoctono compatto e fedele; la consacrazione di tre vescovi missionari; l’adattamento all’ambiente e alla sensibilità religiosa, in particolare ai numerosi e severi digiuni abissini. Riesce ad abbinare all’evangelizzazione un’autentica promozione umana con la profilassi contro malattie endemiche, particolarmente contro il vaiolo, per cui viene acclamato “Padre del Fantatà (vaiolo)”. Inoltre, s’impegna per l’abolizione della schiavitú e per la diffusione dell’alfabetizzazione, scrivendo, di suo pugno, libri didattici. Crea centri assistenziali per fronteggiare le emergenze nei tempi, peraltro frequentissimi, di belligeranza e di carestia; si fa mediatore di pace nelle lotte tribali e interprete magistrale di sviluppo di quei popoli: favorisce missioni diplomatiche e scientifiche, tanto da essere nominato dal governo italiano, il 1° marzo 1879, ministro plenipotenziario nel trattato di amicizia e commercio fra l’Italia e lo Scioa, la regione centrale dell’Etiopia i cui sovrani hanno dato origine alla dinastia dei re etiopici, i Negus, estendendo nel secolo XIX la loro sovranità sulle regioni vicine.
Colpisce nel padre Massaja lo stile di vita non solo semplice, ma poverissimo. Arriva a compiere lunghi viaggi a piedi nudi, anche per sfuggire alla cattura dei nemici, travestito spesso da mendicante, da mercante o nelle fogge più strane. È schiacciato dal lavoro materiale e diplomatico, tanto da stabilire proficue relazioni fra capi africani, autorità romane ed europee. Eroico poi il suo coraggio nel dire la verità ai potenti, accompagnato però da una prudenza cristiana oculatissima, necessaria in quel mondo così complesso, dagli equilibri imponderabili. Le sue capacità organizzative e di governo gli assicurano una grande autorità morale, strappandogli l’ammirazione persino dei nemici. I silenzi di Roma e la mancanza di direttive lungamente attese; i momenti, ripetutisi varie volte, in cui tutto sembrava perduto e la missione in rovina avrebbero affossato chiunque, ma non mons. Massaja che, come leone reso indomito dalla grazia, non si arrende mai.
Dalla Francia egli ottiene aiuti per le missioni di Aden e dei galla, ma più ancora dall’Inghilterra, dove si reca nel 1851 con passaporto falso del governo francese con l’identità di Antonio Bartorelli, un nome che utilizza molto, anche in Africa, per non essere riconosciuto. Va in incognito e non come vescovo per non essere ghermito dalle manovre di potere, ma il mondo politico lo accoglie con ogni onore. Lo ricevono il ministro degli Interni Henry John Temple, visconte di Palmerston (1784-1865), “che la faceva più da Re che da Ministro” (48), il ministro della Marina, sir Francis Thornhill Baring, barone di Northbrook (1796-1866), e il ministro della Guerra, conte Henry Gorge Grey (1802-1894).
In Italia lo reclamano: con le sue eccezionali doti avrebbe potuto servire la Chiesa in Occidente. Eminenti prelati lo pretendono: mons. Massaja è una delle più potenti intelligenze della Chiesa. Ma la missione in Etiopia, senza la sua presenza, sta perdendo terreno, dunque afferma: “Prima però di morire la Missione Galla, devo morire io; tali sono le mie idee e le mie risoluzioni a qualunque siasi costo” (49); perciò “Io parto per l’Africa perché là è il mio cuore ed il mio dovere” (50). Così, dopo molta preghiera, nell’aprile del 1851 salpa per Alessandria d’Egitto, senza neppure passare per Roma, allo scopo di non subire tentazioni. Parte pur sapendo di essere atteso dal Superiore generale dei Cappuccini e perfino dal Papa.
Tornato fra i suoi galla, riedifica la chiesa di Aden che è crollata e fa evadere un giovane di nome Michelangiolo — che poi diverrà sacerdote con il nome di Abba Potros —, allievo di Propaganda Fide, imprigionato dai copti nel monastero di Sant’Antonio. Si accorcia la barba, si sporca il volto con il nitrato d’argento e si presenta come il signor Bartorelli. Scopre che sulle pareti del monastero è stato dipinto il suo ritratto, con le corna sulla testa: “per fortuna”, egli scrive, “so che non son buoni pittori” (51). La sporcizia è così tanta, con le cimici che infestano le celle, che egli prega i monaci di lasciarlo dormire nel sepolcro di sant’Antonio Abate (251-357), accanto alle sue ossa — anche se è probabile che queste, poste originariamente nella chiesa di San Giovanni in Alessandria d’Egitto e poi traslate a Costantinopoli, siano state divise fra vari centri e monasteri —, dove vi è una relativa pulizia.
Nota, registra, memorizza tutto, tanto che se ne ricorderà ormai ultrasettantenne quando scriverà, con dovizia di particolari, le sue memorie. Ammira l’abilità con cui i beduini interloquiscono con i cammelli, che imparano così bene le strade, le direzioni, le operazioni di carico e scarico, che basta uno sguardo per comunicare un ordine e, a volte, non è necessario neppure quello. Persona fortemente concreta, offre suggerimenti a chi lo leggerà: bisogna che il viaggiatore si affidi al cammelliere e, se non ha fiducia, finga di averla, per evitare amare sorprese. Affronta tempeste di sabbia, pugni e schiaffi dai musulmani, febbri gialle e malariche, malattie tropicali e, oltre a indossare i panni del mercante di forbici e di aghi per sviare i nemici, diventa scienziato e medico nel tentativo di risolvere i problemi delle tre malattie più diffuse dell’Etiopia: la lue, la febbre gialla, il vaiolo. Previene insegnando l’igiene, vaccina le persone e cura con le erbe, un’arte appresa dai frati.
Nel paese di Asàndabo, sulle sponde del Nilo Azzurro, nel 1853 trova una popolazione pronta a tendergli le braccia. È certo che nella regione di Gudrù potrà diffondere il Vangelo ed erigere molte chiese che con le sue stesse mani progetterà ed edificherà divenendo sia architetto sia muratore. Disciplina, rigore e gerarchia. La regola è determinante per il vescovo; ecco allora che pone ordine alle giornate di tutti: neofiti, missionari, se stesso — Santa Messa, preghiera in comune, catechismo, scuola, lavori materiali. La minaccia a Gudrù è grave: i maghi indigeni temono la concorrenza dei missionari e sobillano il popolo. I preti, dicono, non devono essere uccisi per non sporcarsi le mani del loro sangue, piuttosto devono essere bruciati vivi, nelle loro capanne. Le minacce sono tante e le “condanne a morte” fioccano a dirotto sul pastore dei galla.
Naturalista e agronomo, pianta la vite e anche le patate: si fa spedire per posta mezza patata e poi la semina, ricavandone quattro bulbi. Ne sorge un grande campo, finché i porcospini non lo distruggono. Linguista e glottologo, si mette sulle orme degli evangelizzatori santi Cirillo (827-869) e Metodio (815 ca.-885), componendo, come fecero loro per le terre slave, l’alfabeto del galla, fino ad allora lingua soltanto orale, traducendo ogni suono in alfabeto latino, perché adatto a trascrivere la “sillaba rotonda” della pronuncia galla. Lavoro enorme che consentirà di comporre la grammatica amarica e oromonica. Lavoro enorme è anche quello di trascrivere, di sua mano, catechismi e libri d’istruzione in più copie e in stampatello: tanto è il suo scrivere in tal modo che non tornerà più al corsivo.
Il missionario, una notte, al chiarore della luna, lascia andare avanti la carovana e cammina fra i bambù alti e recita a bassa voce le litanie; a un tratto gli si presenta un leopardo e, con il lenzuolo che usa per mantello, si avvolge il capo, lasciando scoperto soltanto un occhio. Afferra il crocifisso che porta al collo, s’immobilizza e prega mentalmente. Il leopardo lo fissa a lungo e poi, lentamente, scende a valle (52). È il 1856, sono trascorsi dieci anni ormai dalla sua partenza e ora sembra che tutti gli siano indifferenti. Scrive ai cappuccini, a Propaganda Fide, a Roma, ma non riceve nessun soccorso. Il cappuccino pioniere non s’illude di fare tutto in breve, perché crede che la rigenerazione di una nazione non possa avvenire in due o tre anni, bensì nei secoli, ma le necessità sono tante, troppe. Lui è in miseria, ha dato fondo a tutto. Gli anni passano ed è sempre più stanco, solo e isolato. Approfitta di ogni mercante che scenda alla costa per spedire in Europa le sue richieste di soccorso e si priva anche dei pochi denari che gli restano per inviare corrieri espressi. Perfino i preti gli vengono a mancare; la messe abbonda, ma cade e marcisce, perché mancano operai nella vigna del Signore. Le fatiche e le croci del suo episcopato l’hanno fortemente invecchiato e il suo cuore è divenuto “come la schiena del riccio, tutto spine” (53).
Fa richiesta a Roma di un coadiutore, che sappia capirlo e ubbidirlo: appartenga pure a Propaganda Fide, ma sia cappuccino e teologo, un uomo solido, senza stravaganze giovanili. “Sappia dunque che io tratterò la causa della mia Missione con libertà propria del Vescovo, il quale deve essere, fino alla morte, servo di Dio, di Pietro e di nessun altro” (55).
Fa lo stampatore, il sarto, il ciabattino, tutti i mestieri sono suoi e, dopo aver lavorato indefessamente, arriva la fame: “Qui il Vescovo si chiama Guglielmo, Guglielmo il segretario, Guglielmo si chiamano tutti i curialisti, Guglielmo il medico, il maestro di scuola; non basta: Guglielmo è il muratore, il sarto, il falegname, il fabbro ferraio con tutto il resto…“ (55). Guglielmo è sì il missionario dai mille volti, ma allo stesso tempo è il pastore da un’unica e invincibile fede in Cristo crocifisso e risorto per amore.
L’apostolo dei galla ispira numerosissimi missionari e influisce mirabilmente su fondatori di congregazioni religiose, come san Daniele Comboni (1831-1881) e il beato Giuseppe Allamano (1851-1926), fondatore dell’Istituto Missioni Consolata. Oggi nel mondo cattolico si parla sempre meno dei missionari, quasi ci si vergognasse a parlarne per non fare la figura di chi fa “proselitismo”, quasi fosse diventata una colpa vergognosa l’evangelizzazione, ordinata da Cristo Gesù agli apostoli, in ossequio a un presunto, spesso fallace, rispetto verso tutti. “La crisi della missione alle genti testimonia la crisi di fede nella Chiesa del nostro tempo. Se non c’è la fede o è una fede vacillante, la missione alle genti non si capisce. Infatti è logico dire: “ma perché andate a portare Gesù Cristo ad altri popoli che hanno già la loro religione e non restate qui in Italia dove stiamo perdendo la fede?”. È un modo di ragionare comune, di buon senso. Ma la fede va oltre il buon senso e va contro la logica del mondo. La Chiesa continua a mandare i missionari fra i non cristiani (anzi i Papi ne chiedono sempre di più) per almeno due motivi. Il primo è che Gesù Cristo ha fondato la Chiesa missionaria e se non fosse più missionaria non sarebbe più la sua Chiesa” (56); “[…] il secondo motivo è che, se noi crediamo che Cristo è il Figlio di Dio venuto a salvare tutti i popoli, essi hanno il diritto di conoscere che è nato il Messia, il Salvatore. Noi che abbiamo avuto il dono della fede, abbiamo il dovere di donarlo agli altri […]. Noi crediamo che il Vangelo “abbia ragione”, cioè corrisponda alle aspirazioni più profonde di tutti gli uomini, perché è la rivelazione di Dio all’uomo e solo Dio conosce il cuore dell’uomo e sa come renderlo felice. Per lo sviluppo dei popoli l’educazione è indispensabile, ma l’educazione secondo il Vangelo, altrimenti rimane un fatto tecnico come l’alfabetizzazione o l’arte del meccanico, del falegname. Senza contenuti diversi da quelli della cultura tradizionale, si può arricchire un popolo, ma non umanizzarlo, non svilupparlo in modo davvero umano” (57).
Papa Leone XIII lo promuove arcivescovo titolare di Stauropoli il 2 agosto 1881 e lo crea cardinale il 10 novembre 1884, rivolgendogli questo meritato elogio: “E voi, umile figlio di s. Francesco [d’Assisi (1182-1226)], il cui nome fecero glorioso e venerando le diuturne e immense fatiche sostenute fra barbare genti per la propagazione della fede, collo splendore della romana Porpora diffonderete più viva la luce di quella vita apostolica, di cui foste nobilissimo esempio; mostrando al mondo, che lo disconosce, quanto bene possa meritare della vera civiltà anche un umile alunno del chiostro, animato dal soffio della carità di Gesù Cristo” (58).
Tornato in Italia, anziano, ma ancora vivace e battagliero, come si evince dalle sue memorie, si reca, nell’estate del 1889, nella città di San Giorgio a Cremano, alle falde del Vesuvio, a Villa Amirante, per trascorrere qualche giorno di riposo, dopo due ictus cerebrali subiti. Assistito dal suo segretario e dal fedele cameriere maltese, si dedica alla correzione e alla stesura della sua monumentale opera biografica, di cui vedrà stampati i primi cinque volumi, mentre gli altri sette saranno pubblicati post mortem.
Muore di collasso cardiocircolatorio proprio in quell’estate, il 6 agosto 1889. Dopo i solenni funerali, il corpo viene tumulato a Roma nella cappella della Congregazione di Propaganda Fide al Verano e, per suo esplicito volere, traslato l’11 giugno 1890 a Frascati, in provincia di Roma, nella chiesa dei cappuccini. In questo convento vi è un interessante Museo Etiopico con molti oggetti che ricordano il servo di Dio, fra cui il leggendario bastone che portava sempre con sé.
La sua tomba è sovrastata da una statua del 1892 che lo rappresenta seduto, intento a riguardare i volumi dei suoi ricordi. Il processo di beatificazione inizia nel 1914. Il 18 ottobre 1993 il vescovo di Frascati nomina i due censori per l’esame degli scritti del Servo di Dio, lavoro portato a termine nel 1994. Una commissione storica sta preparando la sua relazione.
Nel 1939 la San Paolo Film produce il suo primo lavoro cinematografico raccontando, con un kolossal da cineteca, Abuna Messias (59), la storia di un martire, rimasto più e più volte miracolosamente in vita; un martire per l’Africa, che ha fatto di tutto per portare a compimento le parole del Salmo 86, ai versetti 9 e 10: “Tutti i popoli che hai creato verranno e si prostreranno davanti a te, o Signore, per dare gloria al tuo nome; grande tu sei e compi meraviglie: tu solo sei Dio”.
Note
(1) Cit. in Ettore Cozzani (1884-1971), Vita di Guglielmo Massaia, 2 voll., vol. I, Vallecchi, Firenze 1943, p. 38; sul card. Massaja, cfr. anche A. M. (a cura di), Dossier Fides. Il Cardinale Guglielmo Massaia “vero Apostolo del Cristo e Scienziato ad un tempo”. Nel bicentenario della nascita (1809-2009), in Agenzia Fides. Agenzia della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, Roma 6-6-2009.
(2) Cfr. [Cardinale] Guglielmo Massaja, O.F.M. Cap., Lettere e scritti minori, a cura di padre Antonino Rosso, voll. I-V (di cui il primo di Bibliografia e Iconografia, mentre i voll. II-V contengono le lettere), Istituto Storico dei Cappuccini, Roma 1978. Cfr. pure Idem, I miei trentacinque anni di missione nell’alta Etiopia. Il primo volume è pubblicato dalla Tipografia Poliglotta di Propaganda Fide e dalla Tipografia S. Giuseppe, Roma-Milano 1885. La Tipografia S. Giuseppe di Milano pubblica i volumi seguenti: vol. II-III nel 1886; vol. IV nel 1887; vol. V nel 1888; vol. VI-VII nel 1889; vol. VIII nel 1890; vol. IX nel 1891; vol. X nel 1892; vol. XI nel 1893; vol. XII nel 1895.
(3) Cfr. Idem, Memorie storiche del vicariato apostolico dei Galla, a cura di padre A. Rosso, voll. I-VI, Edizioni Messaggero, Padova 1984.
(4) E. Cozzani, op. cit., p. 4.
(5) Ibid., p. 11.
(6) Ibidem.
(7) Ibidem.
(8) Benedetto XVI, Discorso ai rappresentanti del mondo scientifico nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg, del 12-9-2006, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. II, 2, 2006, pp. 257-267 (p. 259).
(9) Ibidem.
(10) E. Cozzani, op. cit., p. 11.
(11) Ibidem.
(12) Ibid., pp. 11-12.
(13) Ibid., p. 12.
(14) Cfr. Sinodo dei Vescovi, II Assemblea Speciale per l’Africa. La Chiesa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. “Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 13-14). Instrumentum laboris, del 19-3-2009; cfr. anche Massimo Introvigne, La sua Africa. Il magistero di Papa Benedetto XVI sull’Africa e il viaggio in Camerun e in Angola, in questo stesso numero di Cristianità, pp. 5-20.
(15) Benedetto XVI, Intervista concessa dal Santo Padre ai giornalisti durante il volo verso l’Africa, del 17-3-2009, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 19-3-2009.
(16) Sinodo dei Vescovi, doc. cit., n. 32.
(17) Ibidem.
(18) Benedetto XVI, Omelia durante la Santa Messa con i Vescovi dell’I.M.B.I.S.A. (Interregional Meeting of Bishops of Southern Africa) nella Spianata di Cimangola a Luanda, del 22-3-2009, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 23/24-3-2009.
(19) Sinodo dei Vescovi, doc. cit., n. 10.
(20) Cit. nel mio Vivere e narrare la missione, Gian Paola Mina, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2003, p. 199.
(21) Ibid., p. 200.
(22) E. Cozzani, op. cit., p. 12.
(23) Ibid., p. 18.
(24) Ibid., p. 21.
(25) Ibid., p. 22.
(26) Ibid., p. 23.
(27) Ibid., p. 25.
(28) Ibidem.
(29) Ibid., p. 27.
(30) Ibidem.
(31) Ibid., p. 29.
(32) Ibidem.
(33) Cfr. Christian Cannuyer, I Copti, trad. it., Interlogos, Schio e Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994.
(34) Secondo l’ultimo censimento, del 2007, le religioni dell’Etiopia sono oggi così suddivise: 43,5% Chiesa Ortodossa Copta; 18,6% protestanti; 0,7% cattolici; 33,9% musulmani; 2,6% religioni tradizionali (un tempo chiamati animisti), 0,6% altri (Federal Democratic Republic of Ethiopia, Population Census Commission, Summary and Statistical Report of the 2007 Population and Housing Census. Population Size by Age and Sex, Central Statistical Agency, Addis Abeba 2008, p. 111, tavola 6).
(35) E. Cozzani, op. cit., p. 49.
(36) Ibidem.
(37) Ibid., p. 50.
(38) Ibid., p. 51.
(39) Ibid., p. 32.
(40) Ibid., p. 46.
(41) Ibidem.
(42) Ibid., p. 47.
(43) Ibid., p. 60.
(44) Ibid., p. 61.
(45) Ibidem.
(46) Ibid., p. 70.
(47) Piero Gheddo PIME, Hottanta fiducia. 80 anni in 80 domande al missionario più famoso d’Italia, con Prefazione di Roberto Beretta, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2009, p. 135.
(48) E. Cozzani, op. cit., p. 88.
(49) Ibid., p. 90.
(50) Ibid., p. 91.
(51) Ibid., op. cit., p. 101.
(52) Cfr. ibid., p. 79.
(53) Ibid., p. 265.
(54) Ibid., p. 266.
(55) Ibid., p. 267.
(56) P. Gheddo, op. cit., pp. 184-185.
(57) Ibid., p. 189.
(58) Anselmo Dalbesio O.F.M. Cap. (1934-1996), Guglielmo Massaja, Bibliografia-Iconografia 1846-1967, Centro Studi Massajani, Torino 1973, p. 331, n. 1920.
(59) Cfr. Abuna Messias (Italia 1939). Regista: Goffredo Alessandrini (1904-1978). Interpreti principali: Camillo Pilotto (1890-1963), Enrico Glori (1901-1966) e Mario Ferrari (1894-1974).