Peter J. Stanlis, Cristianità n. 267-268 (1997)
Una nuova interpretazione del pensiero burkeano
Il mio interesse per il pensiero di Edmund Burke (1729-1797) risale al 1947, quando — studiando per il dottorato di ricerca all’Università del Michigan, in Ann Arbor — frequentai un seminario sulla letteratura inglese del secolo XVIII tenuto dal professor Louis I. Bredvold, direttore del Dipartimento di Inglese, ben noto studioso di storia delle idee nonché, specificamente, cultore di quel secolo. Il seminario era imperniato sul concetto di sensibility, di “sensibilità”, nel secolo XVIII, ossia su quel fenomeno filosofico assai complesso secondo cui l’emozione o il sentimento sono fonte, verifica e fine di tutti i valori umani e il cui più famoso volgarizzatore fu Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). Quando a ogni studente fu chiesto di scegliere uno scrittore inglese di rilievo, successivo al 1740, e di leggerne l’opera complessiva in relazione a tale concetto, scelsi gli scritti, i discorsi e la corrispondenza di Burke, e notai come egli criticasse decisamente la “sensibilità” pur tenendo in gran conto le emozioni e i sentimenti umani in quanto parte essenziale della natura dell’uomo.
In seguito, decisi di redigere la mia tesi di dottorato sulle sue idee politiche e lo feci appunto con la supervisione di Bredvold. La tesi, intitolata Edmund Burke and the Law of Nature, fu completata nel 1951, e nel 1958, in versione riveduta, venne pubblicata dalla University of Michigan Press con il titolo Edmund Burke and the Natural Law. Da allora ne sono uscite tre edizioni (1). Bredvold mi consigliò di leggere l’intera produzione burkeana prima di prendere in esame quanto scritto su di lui dagli studiosi e dai critici: in questo modo evitai di assorbire preconcetti che mi avrebbero impedito di percepire i caratteri originali poi colti nei suoi scritti: anzitutto e soprattutto il riferimento alla legge morale naturale.
Il primo studioso che rilevò l’appartenenza di Burke alla tradizione di pensiero che a tale legge fa riferimento fu, probabilmente, il professor Ross J. S. Hoffman, della Fordham University di New York, che ne fece menzione — di passaggio e senza fornirne prove — nell’introduzione all’antologia Burke’s Politics: Selected Writings and Speeches of Edmund Burke on Reform, Revolution, and War, da lui curata con Paul Levack (2). Dunque la pubblicazione della mia prima opera confermò l’affermazione di Hoffman, fornendo ampia dimostrazione fattuale del riferimento dello statista al diritto naturale e ai diritti naturali derivati dalla tradizione morale e giuridica che intendo prendere in considerazione.
Quanto a Bredvold, fu introdotto alla dimensione della legge morale naturale nel pensiero politico burkeano attraverso le mie ricerche. Il professore era un conservatore che riconosceva l’importanza del diritto naturale, ma il suo campo di studio specialistico riguardava principalmente l’inizio del secolo XVIII, in particolare John Dryden (1631-1700). Quando gli sottoposi il mio studio su Burke, spostò i propri interessi accademici dal poeta inglese allo statista angloirlandese e s’interessò tanto al suo pensiero da pubblicare diversi importanti studi, fra cui le introduzioni a due raccolte di saggi burkeani, che curai personalmente (3).
Anche padre Francis Canavan S.J. merita di essere ricordato come un altro eccellente studioso burkeano. Il suo The Political Reason of Edmund Burke (4) apparve due anni dopo il mio primo studio, estendendone la ricerca e incentrandosi sul concetto di “retta ragione”. Inoltre, il suo Edmund Burke: Prescription and Providence (5) illustra le importanti connessioni fra legge morale naturale, pensiero giuridico e religioso, e concezione della storia presenti nella filosofia dello statista.
Un altro studio importante, cronologicamente anteriore a quelli citati, è The Moral Basis of Burke’s Political Thought di Charles Parkin (6): l’autore individua correttamente la presenza di un fondamento morale alla base del pensiero politico dello statista angloirlandese, ma espone la morale in modo astratto e non la collega alla tradizione del diritto naturale.
La rinascita del conservatorismo statunitense
Alla fine degli anni 1950, gli archivi inglesi con i manoscritti di Burke furono resi disponibili per la prima volta dopo centocinquant’anni. Custoditi da privati e preclusi al pubblico, vennero inaspettatamente depositati presso diverse biblioteche dell’Inghilterra Settentrionale, come quella di Sheffield e quelle del Northamptonshire. Prese corpo anche il progetto — realizzato fra il 1958 e il 1978 (7) — di pubblicare l’intera corrispondenza dello statista, dato che ne era stata edita solo una decima parte circa.
Dunque, al termine della seconda guerra mondiale i testi burkeani suscitarono un grande interesse fra gli studiosi e particolarmente fra i conservatori che cercavano guide culturali per costruire un ordine sociale retto, cioè caratterizzato da equilibrio fra giustizia e libertà personale: infatti, il pensatore angloirlandese offriva molte importanti osservazioni sulla guerra, sulla Rivoluzione, sul colonialismo e su altri temi politici di grande interesse anche per il secolo XX. Nel 1953 The Conservative Mind: From Burke to Santayana di Russell Kirk (1918-1994) (8) indicò la “via burkeana” ai conservatori e, nel 1958, il mio Edmund Burke and the Natural Law — pubblicato con una premessa di Kirk — mise in relazione la filosofia politica dello statista con l’intero ordine della civiltà europea, dagli antichi fino ai nostri tempi. Nell’estate del 1959 iniziai la pubblicazione di The Burke Newsletter, sviluppatosi poi in un periodico quadrimestrale: Studies in Burke and His Time, uscito dal 1967 al 1971 (9). Molto fu fatto per diffondere la conoscenza del pensiero burkeano: durante gli anni 1950 e 1960 — e oltre — gli studiosi, negli Stati Uniti d’America e in Gran Bretagna, produssero una grande quantità di volumi e di articoli.
Personalmente, dopo il primo studio, pubblicai — scrissi o curai — altre sette opere dedicate al pensatore angloirlandese, incluse le raccolte di testi a cui ho accennato, derivate da convegni e da congressi realizzati presso vari college e università; a ciò si sono aggiunti altri ventisei saggi brevi, tanti quanti quelli dedicati da Kirk al medesimo tema.
Nel 1963 pubblicai un’antologia, Edmund Burke: Selected Writings and Speeches (10), destinata a studenti e a docenti. Con Clara I. Gandy ho curato una bibliografia burkeana di 1.016 titoli, commentandone personalmente quasi trecento (11), e nel 1991 ho pubblicato quella che, fra le mie opere, ritengo la più utile quanto allo studio dei fondamenti filosofici del pensiero dello statista angloirlandese: Edmund Burke: The Enlightenment and Revolution, pubblicato nella collana Library of Conservative Thought, diretta da Kirk (12).
Nel mondo di lingua inglese Burke è forse il pensatore politico più profondo e verso di lui si sono mostrati debitori sia studiosi conservatori che liberali. Inoltre, molti scrittori di talento lo considerano il principale maestro della prosa inglese. Ma, soprattutto negli Stati Uniti d’America, il suo fascino è dovuto all’essere stato l’iniziatore del conservatorismo moderno. Nel capitolo iniziale di The Conservative Mind: From Burke to Eliot — così s’intitolano, a partire dalla terza edizione del 1960, le versioni più volte rivedute e ampliate dell’originale The Conservative Mind: From Burke to Santayana del 1953 — Kirk definisce lo statista e pensatore angloirlandese come il fondatore del pensiero conservatore nell’età contemporanea perché vigorosa voce critica della Rivoluzione di Francia e delle sue conseguenze, peraltro viventi nel marxismo e in altre rivoluzioni ideologiche. Non a caso, nella bibliografia burkeana citata, la sezione più importante è dedicata allo statista come pensatore politico e, all’interno di questa, la parte più rilevante riguarda Burke e la Rivoluzione francese.
L’inesistente utilitarismo di Edmund Burke
Passando dai testi burkeani ai commentatori e ai critici, scoprii che, dall’inizio del secolo XIX alla metà del XX, l’angloirlandese era stato costantemente considerato un nemico, in nome dell’Utilitarismo, della legge morale e del diritto naturali. Ma l’interpretazione contraddiceva anche la lettera della sua filosofia politica.
Infatti, per quanto riguarda l’universo e la vita sociale del genere umano, nel suo pensiero è riscontrabile un rimando costante a un ordine morale superiore alla volontà o alla ragione degli uomini. Burke era saldamente ancorato alla visione cristiana di Dio, dell’uomo e della natura in un tempo in cui la filosofia empirista e razionalista inglese, seguendo Thomas Hobbes (1588-1679) e John Locke (1632-1704), faceva dipendere la conoscenza e i valori dalla percezione sensoriale, nonché dalla logica e dal ragionamento discorsivi o argomentativi. Tale visione rivoluzionaria dell’uomo si precisò ulteriormente con il sorgere — a opera dei philosophe e di Rousseau — della “sensibilità”. L’angloirlandese, nel corso di ventinove anni di carriera politica quale deputato alla Camera dei Comuni del Parlamento di Londra, si era frequentemente richiamato a un ordine della realtà comprendente sia lo spirito che la materia, nonché all’esperienza plurisecolare della storia, e non solo, quindi, a passioni contingenti.
Bredvold, con cui discussi di questo ipotetico conflitto fra interpretazione e lettera burkeane, mi incoraggiò a proseguire il nuovo approccio e a proporlo, quale tema centrale della mia ricerca, alla commissione di dottorato che, fra gli altri, comprendeva anche il professor Henry V. S. Ogden. Questi, nel 1936, aveva presentato una tesi di dottorato all’Università di Chicago dal titolo The Rejection of the Antithesis of Nature and Art in English Political Writings. 1760-1800, che conteneva un capitolo sull’”utilitarismo di Burke” e dove veniva pure trattata — cosa a quei tempi consueta presso la maggior parte degli studiosi — l’”avversione” dell’angloirlandese per la legge morale naturale. Da quello studio trassi affermazioni da aggiungere ad altri analoghi esempi di come si fosse spesso “usciti dal seminato” nell’interpretare il pensiero burkeano: in questo modo, riassunsi più di un secolo di letteratura utilitarista, facendovi per contro seguire le evidenti prove del frequente richiamo burkeano alla legge morale naturale (13).
Penso che la ragione di quest’erronea interpretazione da parte di validi studiosi sia da ascrivere a un’acritica sequela della lettura utilitarista proposta da John Morley, visconte di Blackburn (1838-1923), la grande autorità burkeana del periodo vittoriano. Questi scrisse due opere — Edmund Burke: a Historical Study e Burke (14) — nelle quali non menziona neppure una volta la legge morale naturale in relazione allo statista, dunque mancanti dell’elemento centrale del pensiero politico burkeano, pur notando che il presunto utilitarismo dell’angloirlandese si richiama anche alla religione.
Le ricerche burkeane del dopoguerra finirono dunque per convincere molti studiosi nordamericani della stretta relazione esistente fra legge morale naturale e pensiero politico burkeano. Dal canto suo, Kirk ha fatto molto per aiutare i nostri compatrioti a comprendere come la questione della legge morale naturale stia al centro del pensiero politico dello statista, ancor più del “precedente giuridico” e della prudenza, elementi a loro volta derivati dal diritto naturale.
I concetti fondamentali della filosofia politica burkeana
Il metodo di approccio burkeano alle problematiche sociali fu storico ed empirico per quanto riguarda l’apprendimento dei fatti, nonché normativamente etico nel giudizio sugli eventi e sul comportamento dei singoli; ovvero, completamente diverso dal razionalismo cartesiano e dalla teorizzazione speculativa e astratta di scrittori come Hobbes, Locke, François-Marie Arouet de Voltaire (1694-1778), Denis Diderot (1713-1784) e Rousseau, e — nel nostro tempo — di marxisti e di altri ideologi analoghi.
Burke fu essenzialmente un aristotelico inserito nell’ambito della tradizione cristiana e, per comprenderne la concezione politica assai complessa, è importante conoscerne, anzitutto, la visione sociale. In An Abridgment of English History, scritto nel 1757 ma pubblicato postumo nel 1811, egli descrisse la civiltà europea come fondata su tre elementi basilari. In primo luogo la cultura della Grecia antica e le leggi di Roma classica, che trasmisero all’Europa l’arte, la letteratura e il diritto del mondo antico. Il secondo elemento fu il cristianesimo, che a essa fornì le basi religiose e morali, nonché la propria peculiare visione trascendente dell’universo. Il terzo elemento giunse dalle tribù germaniche che travolsero l’impero romano e consistette nei loro costumi e nelle loro usanze. Burke sostenne che, in tutte le province e le nazioni d’Europa, queste tre grandi componenti si combinarono in modi e in gradi diversi, dando all’intero continente un modello sociale comune, nonostante la molteplicità di lingua e di caratteristiche nazionali. Al centro di tutte le nazioni d’Europa stavano questi tre elementi.
Tale descrizione delle basi della società europea è pressoché identica a quella proposta dallo storico inglese Christopher Dawson (1889 -1970). Il solo importante elemento che, da un punto di vista moderno, mancherebbe è costituito dalla scienza e dalla rivoluzione industriale, sviluppatesi dopo la morte dello statista angloirlandese. Se Burke fosse vissuto nel secolo XIX avrebbe senza dubbio dovuto prendere in considerazione anche questi importanti sviluppi.
La visione burkeana della storia si fondava sulla sua concezione metafisica ed era, relativamente al sistema di princìpi, essenzialmente provvidenzialistica, ma empirica quanto ai fatti. I suoi princìpi politici fondamentali erano la credenza nella legge morale naturale, nella prescription — gli antichi costumi giuridici e sociali considerati come autorevoli —, nella prudenza — prima fra le virtù politiche — e nelle forme di governo parlamentari, dove i diversi poteri sono articolati e dove ai governanti vengono poste limitazioni morali. È forte l’antitesi rispetto ai totalitarismi, dove il volere arbitrario dei governanti diviene un assoluto che ignora le norme morali e giuridiche tanto necessarie per una società giusta, libera e ben ordinata.
Non sistematico, il pensiero di Burke non è neppure astratto. Egli non scrisse mai un trattato analogo alla Politica di Aristotele (384-322 a. C.), o al Leviatano di Hobbes, oppure ai Due trattati sul governo di Locke, tutti tentativi teoretici sistematici per fornire leggi e princìpi sull’uomo come “animale”, come “essere vivente”, civile, sociale e politico. Burke fu un uomo politico pratico e si occupò di problemi concreti, applicando a essi princìpi generali. Come nel caso della “sensibilità”, fu sempre assai critico delle teorie basate su astrazioni.
Del resto, la sua critica a tale concetto roussoiano contempla anche il rifiuto del “primitivismo” diffuso nel secolo XVIII, ovvero dell’idea che il genere umano in cerca delle proprie origini debba risalire a una qualche condizione pre-storica, a uno “stato di natura” primitivo e pre-civile da cui, per “contratto sociale”, sorgerebbe la società. Secondo questa teoria, l’assoluta libertà che gli uomini si supponeva godessero in quella condizione diviene il metro per misurare la libertà nella società organizzata. Poiché nessuno Stato può garantire una libertà assoluta, chi la brama si fa rivoluzionario e tenta di distruggere lo Stato stesso. Burke considerava la teoria del “contratto sociale” derivato dallo “stato di natura” una pura invenzione, e una follia il tentativo di rendere questa falsità metro di giudizio della società europea, auspicando che l’autentica storia umana venisse studiata senza sovrastrutture ideologiche.
Peraltro, gli inventori dello “stato di natura” non riuscirono neppure ad accordarsi fra loro quanto alle presunte condizioni di vita dello “stato pre-civile”. Per Hobbes, si trattava di una condizione dove la vita dell’uomo era “breve, cattiva e brutale” così che la nascita delle società altro non sarebbe se non fuga dai mali di una giungla. Secondo Locke e Rousseau, lo “stato di natura” era molto più idilliaco e più simile a un Paradiso Terrestre. Locke fece da tramite fra le concezioni hobbesiana e roussoiana. Per Rousseau, la condizione primitiva dell’uomo, nella sua forma più evoluta, era essenzialmente buona, ma il filosofo ginevrino espresse anche incertezze sulla realtà dello “stato di natura”. In diverse opere ammise di non sapere nulla di tale condizione; neppure se essa fosse mai esistita. Benché ripetesse questa ambiguità nel Contratto sociale, continuò a scrivere come se davvero conoscesse tutto di quello “stato di natura” inventato e disseminò le proprie fantasie come fossero dottrina politica certa.
Speculazioni di questo tipo sono quanto chiamiamo ideologia e tutti i sistemi totalitari moderni — il fascismo, il nazionalsocialismo e il comunismo marxista — si basano su di essa: Burke, per contrastare queste astrazioni, fece costante riferimento alla storia.
Sempre relativamente alla “sensibilità” — una tematica che appassionò molto il Settecento —, lo statista e pensatore angloirlandese distingueva fra l’emozione intesa come un elemento costitutivo della natura umana e il modo come essa veniva utilizzata da Rousseau e da un’intera schiera di autori inglesi. Il fenomeno della “sensibilità” stava allora espandendosi in tutta Europa e se ne può rinvenire traccia in scrittori francesi, tedeschi e italiani: presto sarebbe divenuto il cuore di quanto in letteratura viene indicato come Romanticismo. Ma la teoria della completa affidabilità delle emozioni si fondava sulla credenza nella bontà naturale dell’uomo, una dottrina che contraddice quella cristiana sul peccato originale e che trasforma la “sensibilità” in una concezione decisamente rivoluzionaria della natura morale umana. La credenza nella bontà e nella completa affidabilità delle emozioni divenne l’assioma con cui giudicare il vero e il falso, quanto vale e quanto non vale, il buono e il cattivo: divenne, insomma, il fondamento di tutti i valori e di tutti i princìpi, che facessero riferimento a Dio, all’uomo e alla natura.
Burke, in quanto cristiano (15), riteneva che gli uomini tenessero in profonda considerazione il diritto naturale perché valido, mentre i sostenitori della “sensibilità” capovolgevano la relazione fra etica e sentimento sostenendo la moralità e la verità di una norma solo in ragione del gran numero di persone a essa riferentesi. Invece di ordinare i sentimenti ai princìpi morali normativi, la “sensibilità” erigeva il sentimento a norma della morale e di tutti gli altri valori. La rivoluzione nella concezione della natura morale dell’uomo, iniziata durante il secolo XVIII, venne trasmessa, attraverso il secolo XIX, al nostro tempo, e nel Novecento la si trova diffusa ed evidente nella scienza politica e in ogni altro aspetto della vita. Oggi, molte persone che si considerano cristiane sono in realtà inconsapevoli seguaci di Rousseau.
Ragione normativa e legge morale naturale
Per Burke il fondamento dell’azione morale poggiava sulle capacità della ragione normativa, ossia della “retta ragione”, fulcro della tradizione morale del giusnaturalismo classico. Adeguata illustrazione di questo concetto si trova nell’importante saggio The Meaning of the Concept of Right Reason in the Natural Law Tradition di Bredvold (16).
Come affermò Marco Tullio Cicerone (106-43 a. C.), la ragione normativa è lex caelestis in quanto recta ratio summi Jovis, la “giusta misura del sommo Giove”. Essa ha la propria origine in Dio, ma è presente anche in tutti gli uomini non radicalmente corrotti che, attraverso la grazia e la ragione, partecipano della natura divina. La dottrina della “retta ragione” fu richiamata nel preambolo del Codex Iuris Civilis, promulgato dall’imperatore Giustiniano I (482-565) e che — fatto proprio dal pensiero cristiano e armonizzato con l’idea della giustizia di Dio — divenne il diritto comune dell’Europa. L’espressione “retta ragione” come riferimento ciceroniano è più volte presente in Burke, e anche in teologi cattolici come san Tommaso d’Aquino (1225-1274) o anglicani come Richard Hooker (1553-1600). La definizione più famosa ed eloquente della ragione normativa fu elaborata da Cicerone attorno al 54 a. C., che parla di “una vera legge, la retta ragione conforme a natura, diffusa tra tutti, costante, eterna” (17).
Cicerone esercitò grande influenza su Burke, particolarmente per quanto concerne lo Stato come espressione indiretta del potere e della bontà di Dio, riposante sulla legge divina. Lo statista angloirlandese lesse Cicerone quand’era studente di college e da lui apprese il concetto di “retta ragione” nell’ambito della legge morale naturale, che veniva definito come un tipo d’intuizione dell’evidenza, alla quale ovviamente non necessitano elaborati processi di ragionamento per valutare il rispetto o la violazione di una legge morale fondamentale. Nel cristianesimo, la legge morale si esprime con una serie di comandi, di imperativi e di proibizioni: su ognuna delle prescrizioni del Decalogo si potrebbe comporre un volume intero, ma il principio rimarrebbe lo stesso.
Quando il futuro terzo presidente degli Stati Uniti d’America Thomas Jefferson (1743-1826) scrisse nella Dichiarazione d’Indipendenza nordamericana del 1776: “[…] riteniamo evidenti queste verità: tutti gli uomini sono creati uguali e sono dotati dal loro Creatore di certi diritti inalienabili, fra questi la vita, la libertà e la ricerca della felicità”, con l’espressione “evidenti” si riferiva in verità al concetto di ragione normativa. Se una verità è “evidente”, tutte le argomentazioni discorsive adducibili in suo favore non possono affatto renderla “più evidente”: essa è tale per l’intuizione morale umana. Questo è il genere di ragione implicata dalla legge morale naturale e su cui Burke si basò per la propria riflessione politica.
Completamente diverso dalla retta ragione è invece il ragionamento discorsivo della logica matematica. Fra gli autori inglesi del secolo XVII — per esempio sir Edward Coke (1552-1634) e John Milton (1608-1674) — questa differenza era chiaramente compresa. Uno scrittore minore, John Wilmot, conte di Rochester (1647-1680), distinse nettamente fra ragionamento speculativo individuale, che deprecava, e retta ragione, a cui ubbidiva. In A Satire Against Mankind, del 1675, ai versi 98-99, Wilmot scrisse: “Thus whilst against false reasoning I enveigh, / I owe right reason, which I would obey —”, “Così, mentre contro il falso ragionare inveisco, / sono debitore della retta ragione, a cui ubbidisco —”.
Burke giudicava “falso ragionare” il tentativo di applicare alla natura umana gli stessi metodi matematici della logica, laddove riteneva che tutti dovessero ubbidire alla “retta ragione” della legge morale. Kirk ha più volte fatto riferimento al concetto burkeano di “immaginazione morale”, ovvero alla medesima realtà espressa con diversa terminologia.
La tradizione della legge morale naturale a cui si riferisce la retta ragione risale all’antichità. La troviamo nella filosofia greca, nel diritto romano e fra gli stoici. John Ching Hsiung Wu (1899-1986) — ambasciatore della Cina presso la Santa Sede durante il governo di Chiang Kai-Shek (1887-1975) e famoso studioso di diritto e redattore con altri della Costituzione della Repubblica di Cina — affermava che anche il diritto e la giurisprudenza orientali presuppongono la legge morale naturale: non si tratta, infatti, di una realtà solo europea o solo moderna. Per questo motivo dedicai a Wu la mia prima pubblicazione, Edmund Burke and the Natural Law.
La legge morale naturale afferma che l’uomo è creato a immagine spirituale di Dio e che come tale è in grado di conoscere, attraverso la retta ragione, la differenza fondamentale fra bene e male. Per l’uomo radicalmente corrotto, però, la legge morale non ha più un significato normativo: egli è in grado di riconoscerla, ma la spregia.
Benché la prova della credenza di Burke nel diritto naturale sia molto forte e convincente, molti — come Ogden — l’hanno ritenuta un artificio retorico tipico del Settecento. Del resto, questa è stata la linea argomentativa assunta dai liberali nordamericani e britannici di fronte ai miei primi studi, una tesi a lungo termine insostenibile dal punto di vista scientifico: come se Burke non avesse inteso dire quanto disse.
Questi tipi di razionalismo sono assai comuni quando il discorso riguarda la religione, come nel caso della difesa burkeana del cristianesimo. Nel 1989, svolgendo una relazione alla Columbia University di New York — in occasione di uno dei convegni biennali organizzati da The North American Association for the Study of Jean-Jacques Rousseau, di cui sono membro —, il mio riferimento positivo alla concezione burkeana di un “commonwealth cristiano d’Europa” suscitò molte reazioni ostili: così succede di fronte a una concezione religiosa integrale o alla considerazione della legge morale naturale nell’ambito della riflessione politica e sociale. In una società secolarizzata ed epicurea, dove il piacere è il bene sommo, e la religione e la legge morale naturale non godono di molto rispetto.
Peter J. Stanlis
* Primo di tre saggi redatti per Cristianità a partire da un’articolata intervista più volte integrata e aggiornata in collaborazione con Marco Respinti, nel secondo centenario della scomparsa del pensatore angloirlandese.
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(1) Cfr. il mio Edmund Burke and the Natural Law, con una premessa di Russell Kirk, University of Michigan Press, Ann Arbor 1958; 3a ed., Huntington House, Shreveport-Lafayette (Louisiana) 1986.
(2) Cfr. Ross J. S. Hoffman e Paul Levack (a cura di), Burke’s Politics: Selected Writings and Speeches of Edmund Burke on Reform, Revolution, and War, Knopf, New York 1949.
(3) Cfr. The Relevance of Edmund Burke, da me curato e con un’introduzione di Louis I. Bredvold, Kenedy & Sons, New York 1964; ed Edmund Burke, the Enlightenment and the Modern World, sempre a mia cura e con una introduzione di L.I. Bredvold, University of Detroit Press, Detroit 1967. La prima opera raccoglie contributi presentati a un convegno tenuto presso la Georgetown University di New York; la seconda, saggi presentati a un congresso tenuto all’Università di Detroit, l’11 e il 12-11-1965.
(4) Cfr. Francis Canavan S.J., The Political Reason of Edmund Burke, Duke University Press, Durham (North Carolina) 1960.
(5) Cfr. Idem, Edmund Burke: Prescription and Providence, Carolina Academic Press-The Claremont Institute for the Study of Statesmanship and Political Philosophy, Durham 1987. L’opera burkeana più recente del padre gesuita è The Political Economy of Edmund Burke: The Role of Property in His Thought, Fordham University Press, New York 1996.
(6) Cfr. Charles Parkin, The Moral Basis of Burke’s Political Thought, Cambridge University Press, Cambridge 1956.
(7) Cfr. The Correspondence of Edmund Burke, a cura di Thomas W. Copeland et alii, University of Cambridge Press-University of Chicago Press, Cambridge e Chicago 1958-1978, 10 voll.
(8) Cfr. Russell Kirk, The Conservative Mind: From Burke to Santayana, Regnery, Chicago 1953. Il testo è giunto alla settima edizione: cfr. The Conservative Mind: From Burke To Eliot, con il saggio The Making of “The Conservative Mind”, di Henry Regnery, 7a ed. riveduta e accresciuta, Regnery Publishing, Washington 1993.
(9) Diressi la pubblicazione di circa 3.400 pagine su Burke e sugli studi dedicati al Settecento in Gran Bretagna e in Francia, nell’intera Europa e negli Stati Uniti d’America. Non furono tematizzati solo Burke e i suoi contemporanei, ma anche i lavori scientifici dedicati all’angloirlandese e alla sua epoca durante i secoli XIX e XX. Nonostante si trattasse di un periodico assai specialistico, non fu per nulla una pubblicazione angusta: circa mille fra lettori privati e biblioteche di college e di università si abbonarono. L’Università di Detroit, dove insegnavo, ne fu l’editore dalla primavera del 1959 alla primavera del 1967. Il periodico venne poi ceduto all’Università di Alfred, nell’omonima città dello Stato di New York, e lì fu pubblicato fino al 1975. Infine, passò alla Texas Tech University, di Lubbock nel Texas; negli ultimi anni fu trasformato in una pubblicazione — ora cessata — dedicata all’intero secolo XVIII, intitolata The Eighteenth Century.
(10) Cfr. Edmund Burke: Selected Writings and Speeches, a mia cura, Doubleday, New York 1963, reprint Regnery Gateway di Chicago.
(11) Cfr. Clara I. Gandy e P.J. Stanlis, Edmund Burke: A Bibliography of Secondary Studies to 1982, con una prefazione di William B. Todd, Garland, New York e Londra 1983.
(12) Cfr. il mio Edmund Burke: The Enlightenment and Revolution, con una premessa di R. Kirk, Transaction, New Brunswick (New Jersey) 1991.
(13) Cfr. i capitoli Natural Law and Revolutionary “Natural Rights” e Burke and the Natural Law nel mio Edmund Burke and the Natural Law, 3a ed. cit., rispettivamente pp. 15-28 e 29-84.
(14) Cfr. John Morley, Edmund Burke: a Historical Study, MacMillan, Londra 1867; e Idem, Burke, MacMillan, Londra 1879.
(15) Burke fu cristiano anglicano con un retroterra religioso estremamente complesso. Nacque in Irlanda e morì in Inghilterra; suo padre fu anglicano e sua madre cattolica. A quel tempo, stante la persecuzione inglese contro i cattolici irlandesi, era a volte costume, in una famiglia cattolica irlandese, educare i figli maschi come anglicani — in modo da permettere loro di “entrare in società” — e le figlie femmine come cattoliche. Lo stesso avvenne nella famiglia Burke.
(16) Cfr. Louis I. Bredvold, The Meaning of the Concept of Right Reason in the Natural Law Tradition, in University of Detroit Law Journal, vol. XXXVI, n. 2, dicembre 1958, pp. 120-129; si tratta di un numero dedicato al diritto, di cui fui il curatore.
(17) Marco Tullio Cicerone, De republica, III, 22. La stessa definizione, tratta dalla medesima fonte, è accolta nel Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1958, da cui è stata riportata la traduzione italiana citata.