Peter J. Stanlis, Cristianità n. 269 (1997)
L’illuminismo settecentesco e la Rivoluzione in Francia
L’”illuminismo” è una categoria astratta, bisognosa di disamine attente. Coniato nel secolo XIX nell’ambito della storia della letteratura tedesca e usato assai sporadicamente nel Settecento, il termine fu poi applicato retrospettivamente all’intero secolo XVIII.
La data d’inizio del periodo storico a esso sotteso, la sua natura e la sua influenza su eventi globali come la Rivoluzione francese costituiscono materia controversa, ma quanti considerano favorevolmente l’illuminismo, come il professor Peter Gay della Yale University di New Haven, nel Connecticut, individuano l’elemento cruciale del periodo nelle temerarie critiche di tipo razionalistico mosse all’intera eredità civile d’Europa, alla sua religione, alle sue leggi, alle sue strutture istituzionali, ai suoi usi e costumi e alla sua visione filosofica della realtà. François-Marie Arouet de Voltaire (1694-1778) e Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) sono generalmente considerati gli autori più rappresentativi dell’illuminismo e l’Encyclopédie di Denis Diderot (1713-1784) il suo più importante progetto culturale.
Ai tempi di Edmund Burke (1729-1797) i due elementi fondamentali dell’illuminismo erano il razionalismo discorsivo di René Descartes (1596-1650) e del secolo XVII, e la rivoluzione nella concezione morale dell’uomo, al meglio esemplificata dalla sensibility, la “sensibilità” roussoiana. Anche se assai diversi fra loro, il razionalismo e la “sensibilità” contribuirono entrambi e insieme a sovvertire l’ordine sociale tradizionale che l’Europa aveva ereditato dalle epoche precedenti: è significativo che, pur finendo per detestarsi l’un l’altro, Voltaire e Rousseau abbiano concorso alla medesima finalità distruttiva nei confronti di quanto Burke chiamava “commonwealth cristiano d’Europa”.
Lo statista angloirlandese può, peraltro, anche essere considerato come il principale critico dell’illuminismo, ma ciò è anche la base di uno dei grandi errori interpretativi del suo pensiero, dal momento che spesso si immagina che abbia semplicemente voluto difendere lo status quo. In realtà, egli non si opponeva affatto al “cambiamento”, che definiva una delle grandi leggi della natura, ma avversò la mutazione violenta e l’innovazione che si oppone alla riforma genuina. La sua difesa dell’ordine sociale del tempo si fondava sull’idea che questo costituisse l’estremo culmine storico — dal mondo antico e medioevale — del “commonwealth cristiano d’Europa”. Burke considerava lo sviluppo della civiltà europea come un processo lento e difficile, nel quale il diritto costituzionale aveva gradualmente limitato il potere dei monarchi assoluti e contribuito a migliorare l’ordinamento civile, estendendo la misura di giustizia, di libertà e di ordine. I princìpi di prudenza morale che ne ispiravano la prospettiva si opponevano al progetto di ridurre la società a una tabula rasa, cioè alle mire proprie della Rivoluzione francese.
Reflections on the Revolution in France di Burke (1), pubblicato nel 1790, suscitò in un breve lasso di tempo più di cento repliche, a cui seguirono altre risposte e altre difese per un totale, oggi, in Inghilterra, di oltre quattrocento repliche. Probabilmente nessun testo in lingua inglese ha provocato più commenti di quest’opera che, nel corso dell’ultimo secolo, è stata ristampata o riedita mediamente una volta ogni due anni. Durante il secolo XIX tutti gli storici interessati alla Rivoluzione francese hanno dovuto tener conto della critica burkeana, mentre quelli di estrazione marxista — la cosiddetta storiografia marxista è solo propaganda ammantata d’ideologia — l’hanno semplicemente ignorata, analogamente a quanto fatto nei confronti degli episodi contro-rivoluzionari.
Peraltro, la prima reazione di Burke alla Rivoluzione di Francia fu neutra, giacché sospese il giudizio in attesa di vedere la direzione che avrebbero preso gli avvenimenti; si tratta di un punto importante, perché spesso si pensa che l’angloirlandese si sia immediatamente scagliato contro la Rivoluzione. Dopo la convocazione degli Stati Generali, egli si accorse molto presto di come la Rivoluzione stesse incamminandosi verso la completa distruzione, con mezzi violenti, della Francia e, oltre a essa, dell’intero ordine sociale esistente in Europa. Lo statista potè così affermare che non si trattava affatto di una ribellione del popolo francese, ma di un moto d’intellettuali e d’ideologi dell’Assemblea Nazionale che, alla ricerca del potere, imponevano le proprie teorie rivoluzionarie alla nazione e, dunque, al resto d’Europa. Burke fece poi pressione sul primo ministro britannico, William Pitt il Giovane (1759-1806), affinché resistesse alla Rivoluzione di Francia, anche se non sono a conoscenza di documenti che provino un’influenza diretta e specifica dell’angloirlandese sulla politica del governo britannico contro la Francia.
Sul piano culturale, Burke attaccò tanto il razionalismo discorsivo quanto la “sensibilità” dei rivoluzionari, i due corni dell’illuminismo dominanti la loro ideologia. Da questa critica è derivata molta incomprensione. Numerosi studiosi moderni — anche specialisti del secolo XVIII — alimentano la confusione, perché trattano la “ragione” come un assoluto astratto e non ne distinguono le diverse formulazioni. Il pensatore angloirlandese distingueva in modo netto la ragione e la logica argomentative matematiche dalla retta ragione normativa della legge morale naturale. Nel secolo XVIII convivono almeno sei diverse tradizioni di pensiero razionale e, dato che alcune di esse si contraddicono o differiscono nelle applicazioni degli strumenti di ragione, è sempre molto fuorviante astrarle per costruire un concetto artificiale univoco. Burke non criticò la ragione in quanto tale, ma solo quella discorsiva logica, che comporta l’applicazione dei metodi della matematica, l’induzione e la deduzione sistematizzate, alla natura umana e al pensiero politico. Come Blaise Pascal (1623-1662), l’angloirlandese distinse fra esprit de géometrie ed esprit de finesse, escludendo che la natura umana e il pensiero politico potessero essere ridotti alla semplice analisi quantitativa razionale. Per lui, la natura umana era razionale in un senso completamente diverso, ossia in quanto dotata di riflessione normativa.
Contrapponendo ragione normativa e ragionamento discorsivo, Burke fondò la propria critica alla Rivoluzione francese sull’esperienza storica degli europei così come incarnata nelle loro leggi e nell’etica cristiana, e si oppose al tentativo dei rivoluzionari di trattare il pensiero politico come una scienza sociale puramente quantitativa, simile alle scienze fisiche.
La Rivoluzione francese, accadimento storico e processo attivo nella formazione del mondo moderno, veicola più un’ideologia che una forza filosofica, e la sua più ovvia e diretta conseguenza è certamente il marxismo. Il primo comunista della storia fu François-Noël “Gracchus” Babeuf (1760-1797): questi e Jean-Paul Marat (1743-1793) fornirono i modelli archetipici a Karl Marx (1818-1883), a Friedrich Engels (1820-1895) e a Vladimir Ilic’ Ulianov detto Lenin (1870-1924) per quanto concerne la confisca della proprietà privata e l’assassinio di massa di tutti gli oppositori. Nel famoso saggio Che fare?, del 1902, Lenin riecheggia il Contratto sociale di Rousseau là dove si afferma l’assoluta importanza di rifare la natura umana, ossia di rigenerare la natura morale dell’umanità (2). L’ideologo svizzero aveva sostenuto la necessità di distruggere la natura umana data per riplasmarla secondo la sua concezione di persona da lui vagheggiata. Con il Terrore (1792-1794) Maximilien de Robespierre (1758-1794), discepolo di Rousseau, era pronto a distruggere ogni critico della Rivoluzione francese che non si fosse conformato alla sua vagheggiata repubblica delle virtù. Servendosi degli spunti roussoiani Lenin elaborò il modello dell’”uomo nuovo sovietico”.
Rivoluzione francese e democrazia moderna
Nel mondo moderno, a partire dalla Rivoluzione francese, “democrazia” è divenuto un termine dalle caratteristiche “divine”: in suo nome si può giustificare tutto. Ma, a fronte del fatto che esistono tipi diversi di democrazia, sarebbe meglio interrogarsi su cosa specificamente s’intenda quando si utilizza tale espressione. Lo slogan della Rivoluzione francese — “libertà, uguaglianza e fratellanza” — presenta subito una contraddizione in termini. Se si ha la “libertà”, e ognuno è libero di progredire il più possibile, certamente non si avrà l’uguaglianza fattuale giacché le persone più capaci ed energiche sopravanzeranno di gran lunga le persone pigre e di pochi talenti. Se con “uguaglianza” s’intende invece pari opportunità — obiettivo non fattualmente realizzabile —, e se a tutti è permesso di progredire in ugual misura, allora si tratta semplicemente della libertà indicata con altro nome. Per quanto concerne la “fratellanza”, tutto dipende dal fatto se l’esser fratelli e il dar vita a legami umani stretti sia il frutto di scelte libere o se è lo Stato a dover rendere obbligatoria la benevolenza sociale. Se non incarnate in princìpi specifici e in misure concrete, le formule tipiche della Rivoluzione francese restano parole astratte di scarso peso. A mio avviso, la democrazia rivoluzionaria francese è essenzialmente incentrata su un’idea di uguaglianza fattuale che lo Stato deve imporre alla società con la forza. Secondo la teoria democratica giacobina tutte le differenze e le distinzioni specifiche devono essere ignorate in nome dell’unità nazionale; essa, infatti, pretende di possedere la sanzione della maggioranza e d’incarnare la “volontà generale” dell’intera nazione anche quando esprime solo il potere e l’autorità di un piccolo partito che controlla il governo. Burke, per contro, attaccò la teoria giacobina della sovranità popolare e difese l’idea di un governo costituzionale severamente limitato nei suoi poteri, ritenendo che gli scopi autentici di un governo — la libertà, l’ordine e la giustizia — venissero onorati pienamente quando la volontà personale e quella collettiva dei governanti sono controllate da restrizioni costituzionali e morali.
Nella democrazia di tipo giacobino il partito dominante — o quello che riesce a mostrare di detenere effettivamente il potere — possiede una sovranità totale, priva di qualsiasi controllo: The Origins of Totalitarian Democracy, che Jacob L. Talmon (1916-1980) scrisse nel 1952 (3), mostra come la democrazia giacobina sia solamente “tirannia popolare”, ovvero totalitarismo, perché suscettibile di facili degenerazioni in “governo della plebe”. Questo accadde con Robespierre durante il Terrore, la cui “anarchia giacobina” sfociò poi nel dispotismo militare di Napoleone Bonaparte (1769-1821), succeduto al governo del Direttorio rivoluzionario: fu Napoleone il vero erede della Rivoluzione francese, uno sconvolgimento che gettò l’Europa in più di quindici anni di continue guerre. Burke — sia detto per inciso — predisse l’intero corso della Rivoluzione, inclusi il processo-farsa e l’esecuzione di re Luigi XVI (1754-1793), il Terrore, l’ascesa di Napoleone e le guerre di aggressione rivoluzionaria francese contro le nazioni europee.
Ovviamente, i liberali hanno attaccato sia l’opera di Talmon, sia i miei studi in materia (4), dato che non sopportano chi identifica il loro astrattismo democratico con il totalitarismo. Così, analogamente, i marxisti che, per ragioni propagandistiche, vorrebbero mettere in ombra il concetto marxiano di dittatura del proletariato.
La repubblica costituzionale nordamericana
Burke avrebbe approvato il sistema nordamericano di governo costituzionale, istituito dai Padri Fondatori della Repubblica statunitense. La concezione di democrazia a esso sottesa è totalmente diversa dal dispotismo popolare — totalitario — della democrazia giacobina. La democrazia negli Stati Uniti d’America è incentrata sulla libertà del singolo soggetta al diritto costituzionale, non sull’uguaglianza fattuale in nome del volere popolare. I fondatori del governo nordamericano preferirono il termine “repubblica” a “democrazia” e inaugurarono un sistema rappresentativo basato in parte sui numeri e in parte sul territorio, dove il potere è suddiviso fra i singoli Stati e il governo federale centrale, e ancora all’interno di ogni Stato; i diritti e i doveri del presidente federale, del Congresso, dei governatori e delle singole assemblee legislative statali vengono così definiti in modo chiaro.
Nei suoi saggi sulla costituzione statunitense Russell Kirk (1918-1994) (5) descrive correttamente l’influenza della filosofia e del costituzionalismo burkeani sui Padri Fondatori della Repubblica statunitense. In qualche modo, il middle path inglese — la “via mediana” e il “giusto mezzo” —, moderato, equilibrato e rappresentativo, fu adottato anche in America con la cultura sociale gerarchica e il cristianesimo. Il sistema costituzionale nordamericano scaturisce, infatti, da una mentalità e in un periodo storico precedenti la Rivoluzione francese, così che gli Stati Uniti d’America, almeno in parte, presentano caratteristiche premoderne: il sistema costituzionale nordamericano ha molte analogie con il sistema parlamentare del governo britannico, ma non con il sistema rivoluzionario giacobino. È inoltre necessario distinguere fra Dichiarazione d’Indipendenza, adottata nel 1776, e Costituzione degli Stati Uniti d’America, entrata in vigore nel 1789 (6). Burke, peraltro, non fece mai riferimento agli eventi che portarono all’indipendenza delle Colonie chiamandoli “rivoluzione americana”; li indicò sempre come “guerra” o come “guerra americana” e giudicò il conflitto con la Gran Bretagna alla stregua di un contenzioso civile interno all’Impero, culminato in uno scontro armato e nell’indipendenza delle Colonie. Ossia, non si trattava di una rivoluzione ideologica perché non era basata su teorizzazioni astratte.
Ancora, la democrazia nordamericana è fondata sulla totale eredità della cultura europea e del suo cristianesimo, inclusi i lasciti della Grecia e di Roma antiche: tutti elementi costantemente e in ugual misura attaccati dagli ideologi dottrinari tanto nella società statunitense, quanto in quella europea. Insomma, il sistema nordamericano presenta analogie con il modo tradizionale, classico e cristiano, di fare politica, e intende quest’ultima come l’arte di governare per il bene comune. Come la diffusione delle leggi antiche e del cristianesimo in Europa, il sistema nordamericano non si è sviluppato attraverso una teoria preconcetta: crebbe storicamente attraverso l’esperienza, i tentativi e i fallimenti.
Uno dei migliori scritti sul sistema statunitense è The American Republic: Its Constitution, Tendencies, and Destiny di Orestes Augustus Brownson (1803-1876). Questi considera la società nordamericana come niente affatto scaturita da un “contratto sociale”, prodotto di uno “stato di natura”, e insiste sull’esistenza di fatto di “due” costituzioni nordamericane: la Costituzione scritta, redatta e adottata dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna, e una “costituzione non scritta”, eredità storica complessiva che rende la popolazione degli Stati Uniti d’America quale essa è. Infatti i nordamericani sono europei trapiantati, con alcuni elementi africani e nativi a formare importanti minoranze. Quando gli europei giunsero in America Settentrionale, i britannici portarono le proprie tradizioni analogamente a quanto fecero i francesi, gli italiani, i tedeschi e così via. L’America Settentrionale non fu un foglio di carta bianca su cui si è potuto scrivere quanto si è voluto.
Detto di passaggio, l’idea degli Stati Uniti d’America come tabula rasa è una delle fantasie insegnate dai docenti progressisti di molti dipartimenti di Scienze Politiche nei college statunitensi: si tratta, negli Stati Uniti d’America, di un problema assai serio, ma ignorare la storia e indulgere in teorie astratte è solo uno dei molti errori commessi dai liberali e dai rivoluzionari; e questo errore non è limitato solamente all’America Settentrionale.
Secondo Brownson la Costituzione nordamericana scritta si fonda completamente sulla “costituzione non scritta”, ossia sull’esperienza storica complessiva del popolo degli Stati Uniti d’America e sulle caratteristiche proprie della natura umana: Burke sarebbe stato d’accordo così come sembra esserlo il conte Joseph de Maistre (1753-1821) (7). Brownson era molto versato nella filosofia europea: attraversò diverse fasi culturali e religiose, legandosi anche a molte ideologie rivoluzionarie, finché — finalmente — si tolse di dosso tutte le illusioni progressiste e, vent’anni prima della Guerra Civile statunitense (1861-1865), giunse a maturare un proprio pensiero compiuto sulla natura umana, sulla politica e sulla società. The American Republic: Its Constitution, Tendencies, and Destiny fu scritto e pubblicato nel 1866, appena dopo la Guerra Civile, e guardava indietro all’esperienza complessiva dell’ordine sociale e politico nordamericano.
Il pensiero brownsoniano, importante per comprendere l’America Settentrionale e le sue tradizioni conservatrici, è oggi purtroppo assai negletto negli Stati Uniti d’America e ancor di più in Europa. In anni recenti si sono svolti diversi convegni di analisi; io stesso ne organizzai uno all’Università di Detroit nel 1953, a cui prese parte anche Kirk, che più tardi, nel 1955, curò un’antologia di saggi del pensatore intitolata Orestes Brownson: Selected Essays (8). Un altro importante convegno dedicato a Brownson fu organizzato a New York dalla Fordham University nel 1978 (9).
Nel 1955 Kirk curò anche la pubblicazione della traduzione in lingua inglese — compiuta da John Quincy Adams (1769-1848), poi sesto presidente degli Stati Uniti dal 1824 al 1828 — di articoli pubblicati in Europa da Friedrich von Gentz (1764-1832), fra l’altro consigliere del cancelliere austriaco Klemens Wenzel Lothar principe di Metternich-Winnenburg (1773-1859) nonché traduttore in lingua tedesca di Reflections on the Revolution in France di Burke. In quest’opera, nota in inglese come The French and American Revolutions Compared (10), von Gentz descrive — forse per primo — le differenze sostanziali esistenti fra la Rivoluzione francese e il processo che portò all’indipendenza le Colonie britanniche d’America, la principale delle quali è che il secondo non fu basato su un’ideologia come invece lo fu la prima.
Nell’Ottocento si occupò di questa problematica anche Alexis de Tocqueville (1805-1859), mentre quelle sostanziali differenze sono state ribadite nel secolo XX da Ross J. S. Hoffman in The Spirit of Politics and The Future of Freedom (11).
Nel 1991 il professor Claes G. Ryn — nato in Svezia, è ora impegnato presso il Department of Government dell’Università Cattolica d’America di Washington ed è uno dei principali animatori del National Humanities Institute della capitale federale — ha pubblicato The New Jacobinism: Can Democracy Survive? (12): trattando della differenza fra concezione democratica nordamericana e concezione giacobina francese, evidenzia l’importanza del riconoscimento pubblico di questa verità storica.
Infine, il professor Raymond English, scomparso nello stesso 1991, ha fatto buon uso di Tocqueville in Constitutional Democracy vs. Utopian Democracy (13), un opuscolo in cui sono messe in luce le grandi differenze fra governo rappresentativo costituzionale nordamericano e sistema democratico ideologico francese.
Insomma, quanto Burke sottolineava e i rivoluzionari francesi negavano è la minor rilevanza della forma di governo rispetto ai limiti morali e giuridici che si devono porre al suo potere.
Benché lo statista angloirlandese criticasse il 1789 francese poggiando più sulla concezione di “commonwealth cristiano d’Europa” — tutto quanto aveva plasmato, per più di duemila anni, la civiltà del Vecchio Continente — che non sul precedente della Rivoluzione inglese del 1688, la Rivoluzione Gloriosa, questo avvenimento costituì il punto di riferimento immediato che lo spronò a redigere Reflections on the Revolution in France. I club radicali e rivoluzionari londinesi paragonavano il 1789 con il 1688 — quest’ultimo privo di spargimenti di sangue —, sostenendo che la Rivoluzione di Francia si poneva nella medesima linea degli accadimenti che costrinsero re Giacomo II d’Inghilterra e VII di Scozia della dinastia Stuart (1633-1701) ad abdicare, e su queste basi esortavano gli inglesi a sostenerla. Il dottor Richard Price (1723-1791), un noto pastore protestante non aderente alla Chiesa d’Inghilterra, diede voce a quest’idea con un sermone per The Revolution Society di Londra.
Burke giudicava invece le due rivoluzioni come completamente diverse e riteneva che, a differenza del 1688 inglese, la Rivoluzione francese minacciasse le fondamenta della società civile europea. Lo statista interpretò il 1688 come un seguito della restaurazione di re Carlo II Stuart (1630-1685), avvenuta nel 1660, ovvero come una risposta alla rivoluzione ideologica puritana e repubblicana guidata dal Lord Protettore Oliver Cromwell (1559-1658) negli anni 1640 e 1650. Per Burke, il 1688 completava quanto era stato restaurato nel 1660 e realizzava un pieno ritorno ai princìpi originari del sistema politico inglese basato sulla monarchia costituzionale limitata. Secondo l’angloirlandese, re Giacomo II — esautorato nel 1688 da Guglielmo principe d’Orange, poi re d’Inghilterra con il nome di Guglielmo III (1650-1702) — era un sovrano legittimo, che tentava d’instaurare un potere assoluto e arbitrario. Come egli sostenne, Giacomo II “[…] era un pessimo re insignito di un titolo legittimamente ineccepibile, e non già un usurpatore” (14). Burke riteneva che la pretesa di Giacomo II di poter sospendere qualsiasi legge d’Inghilterra in virtù del proprio potere regale stesse conducendo il sovrano ad atti arbitrari, che violavano la Costituzione e minacciavano le libertà dei sudditi, atti che finirono poi per costringerlo ad abdicare. Secondo il pensatore angloirlandese, il passaggio dinastico del 1688 impedì al re di sovvertire la Costituzione. Dunque, poiché era il sovrano a ribellarsi alla legge fondamentale del paese, quella “gloriosa” non fu una rivoluzione, ma una rivoluzione impedita.
Come il futuro terzo presidente statunitense Thomas Jefferson (1743-1826) Burke riteneva che resistere alla tirannia fosse ubbidire a Dio: dunque, l’aristocrazia inglese, il clero e i militari ribellatisi a Giacomo II ubbidivano a Dio e alla Costituzione consuetudinaria, e, preservando le proprie libertà, riportarono il governo del sovrano, dei Lord e dei Comuni al proprio corso costituzionale. Sempre per Burke il 1688 conservò e corresse la Costituzione inglese, rigenerando la monarchia su fondamenta tradizionali.
I whig e i tory — il “partito del Parlamento” e il “partito del re” — accettarono, gradualmente e allo stesso modo, l’insediamento pacifico del 1688 e del 1689 come buono e necessario, e l’argomentazione burkeana è, sostanzialmente, l’interpretazione tipica proposta sulla questione dai whig conservatori.
Burke, poi, concesse aperture ai sostenitori di Giacomo II — i giacobiti —, incontrandoli sul loro terreno: propose una sua articolazione del principio di legittimità — difeso dai giacobiti —, sostenendo che, dopo re Giacomo I d’Inghilterra e VI di Scozia (1566-1625), la dinastia degli Stuart fosse stata preservata — in linea maschile diretta — da re Carlo I (1600-1649), da re Carlo II e da re Giacomo II, ma che — per necessità morali e giuridiche — essa avesse deviato nel 1688 per poi proseguire indirettamente attraverso i discendenti in linea femminile di Giacomo I. Il principe Guglielmo d’Orange, il destitutore di Giacomo II, discendeva dagli Stuart attraverso la madre, figlia maggiore di Carlo I, e nel 1677 sposò la futura regina Maria II Stuart (1662-1694), figlia del sovrano deposto. Ai due sovrani insediatisi sul trono, poiché erano privi di eredi, nel 1688 succedette la regina Anna (1665-1714), figlia di Giacomo II e sorella di Maria II, la quale diede nuova continuità alla dinastia degli Stuart. Dopo la scomparsa di costei, la corona passò alla dinastia dei Brunswick-Hannover, tramite una nipote di Giacomo I: la contessa palatina Sofia Stuart — moglie di Ernesto Augusto (1629-1698), principe elettore di Hannover ed erede del casato dei Brunswick — fu la madre di re Giorgio I d’Inghilterra (1660-1727).
Così il 1688 diede la corona a un re protestante e costrinse l’ultimo re cattolico d’Inghilterra ad abdicare; ma per Burke la questione cruciale non era la religione di un sovrano o dell’altro, quanto la causa costituzionale del governo del diritto contro il potere arbitrario assoluto. Parte della mia più recente opera di argomento burkeano, Edmund Burke: The Enlightenment and Revolution (15), s’addentra in questa materia forse più dettagliatamente di quanto sia mai stato fatto.
Per un cattolico conservatore il 1688 inglese — fra Costituzione e protestantesimo — appare quasi un paradosso. L’unità dell’Europa nella medesima fede avrebbe eliminato ogni fraintendimento sulle motivazioni religiose della Rivoluzione Gloriosa, favorendo la comprensione della vera posta in gioco. Si tratta di uno dei molti guai prodotti — per utilizzare un’espressione di Christopher Dawson (1889-1970) — dalla divisione della Cristianità (16).
Del 1688 Burke elaborò una difesa idealizzata: certamente vi furono fanatici che vollero cacciare Giacomo II dal trono semplicemente perché cattolico, senza attenzione per il suo modo di governare; ma il fondamento della critica burkeana fu costituzionale, non religioso. Tuttavia, anche giudicando gli effetti positivi in Inghilterra anziché i mezzi dubbi di quell’avvenimento, la descrizione burkeana presenta alcune evidenti contraddizioni. Burke sostenne che la Rivoluzione Gloriosa produsse uno straordinario rafforzamento della struttura anglicana — egli aveva creduto alle accuse di tentato sovvertimento della Chiesa di Stato rivolte a Giacomo II —, ma ciò fu vero solo per l’Inghilterra, giacché in Scozia, con la tacita approvazione di Guglielmo III, le conseguenze del 1688 distrussero la Chiesa episcopaliana in favore del presbiterianesimo. A questo proposito lo storico inglese Lord John Emerich Edward Dalberg Acton (1834-1902) scrisse: “Convenzionalmente, sul Continente, s’intendeva il 1688 come un’insurrezione di non-conformisti e si riteneva che, fino alla morte della regina Anna, un whig fosse un presbiteriano” (17). Inoltre, in Irlanda, si ebbe un effetto opposto rispetto all’insediamento del nuovo sovrano a Londra, assicurando, più fortemente che mai, il dominio assoluto, arbitrario e persecutorio della dinastia protestante sui cattolici irlandesi, ossia su più del 90% della popolazione. Burke ammise che in Irlanda il 1688 non fu una rivoluzione, ma una conquista. Ironicamente, gran parte della carriera politica parlamentare dello statista angloirlandese fu impiegata nel tentativo di rimuovere gli impedimenti civili e religiosi instaurati e mantenuti dalla Rivoluzione Gloriosa — da lui tanto ammirata — sui cattolici irlandesi, suoi compatrioti.
Seppur, dunque, altamente selettivo nella sua difesa del 1688 contro Richard Price e i “nuovi whig” liberali, sostenitori della Rivoluzione francese, Burke ebbe assolutamente ragione insistendo sulla totale diversità del 1688 inglese rispetto al 1789 francese: il primo fu limitato a questioni politiche nazionali e non distrusse la monarchia, la nobiltà, il clero, le leggi e i costumi del paese così come, invece, il secondo fece e tentò di fare in tutta Europa.
In Considerazioni sulla Francia, de Maistre trascrive passi di David Hume (1711-1780) sulla Rivoluzione puritana di Cromwell per mostrarne le similitudini con il 1789 francese (18). Fra la ribellione guidata dal Lord Protettore e la Rivoluzione francese vi furono importanti somiglianze, ma anche grandi differenze. La Rivoluzione puritana non fu atea, mentre fondamentalmente lo fu, come affermava Burke, quella di Francia. Cromwell volle operare un mutamento istituzionale e le denominazioni protestanti del Dissenso — i non-conformisti — vollero liberarsi della struttura anglicana, che ai loro occhi conservava ancora troppi elementi mutuati dal cattolicesimo e dalla struttura romana. La Rivoluzione francese, invece, fu molto più violenta, sanguinosa e distruttiva e si tentò di esportarla in tutta Europa: ma, soprattutto, fu ideologica. Peraltro, agli eventi inglesi e a quelli francesi fu comune un certo fanatismo: in Inghilterra, la Rivoluzione fu un accadimento religioso che cercò di distruggere anche l’ordine politico, mentre in Francia si trattò di una sovversione politica che tentava innanzitutto di distruggere il cristianesimo.
Peter J. Stanlis
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*Secondo di tre saggi redatti per Cristianità a partire da un’articolata intervista più volte integrata e aggiornata in collaborazione con Marco Respinti, nel secondo centenario della scomparsa del pensatore angloirlandese Edmund Burke (1729-1797).
(1) Cfr. Edmund Burke, Reflections on the Revolution in France, in Idem, Works, Little, Brown, Boston 1904, vol. 3; cfr. le trad. it. Riflessioni sulla Rivoluzione francese, con una prefazione di Domenico Fisichella, Ciarrapico, Roma 1984; e Riflessioni sulla Rivoluzione francese e sulle deliberazioni di alcune società di Londra ad essa relative: in una lettera destinata ad un gentiluomo parigino, in E. Burke, Scritti politici, a cura di Anna Martelloni, UTET, Torino 1963, pp. 144-443.
(2) Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Contratto sociale, libro II, capitolo 7, Il legislatore.
(3) Cfr. Jacob L. Talmon, The Origins of Totalitarian Democracy, 1952; trad. it. Le origini della democrazia totalitaria, il Mulino, Bologna 1967.
(4) Su questa tematica, cfr. il mio Burke, Rousseau, and the French Revolution, in Steven Blakemore (a cura di), Burke and the French Revolution: Bicentennial Essays, The University of Georgia Press, Athens e Londra 1992, pp. 97-119.
(5) Cfr. Russell Kirk, The Conservative Constitution, Regnery Gateway, Washington D.C., 1991.
(6) Il professor Melvin E. Bradford, noto studioso ed esponente del “conservatorismo sudista” scomparso nel 1993, ha contribuito in modo decisivo all’acclaramento di certi aspetti conservatori presenti anche nel pensiero di Thomas Jefferson, del resto assai pertinenti al dibattito e all’interpretazione della Dichiarazione d’Indipendenza e della Costituzione statunitensi. Sul presidente nordamericano, mi trovo d’accordo con Bradford: non tutto in Jefferson è liberale o radicale. Il pensiero di Bradford e quello di Kirk — che ha invece evidenziato gli aspetti non conservatori del pensiero jeffersoniano — non sono, comunque, necessariamente contraddittori.
(7) Brownson, difendendo la “costituzione non scritta” degli Stati Uniti d’America giunse a conclusioni analoghe a quelle di Joseph de Maistre nel Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane (trad. it., con una introduzione di Roberto de Mattei, Il Falco, Milano 1982), un autore profondamente influenzato dalle riflessioni burkeane sulla Rivoluzione di Francia. Kirk, in The Conservative Mind: From Burke to Eliot (7a ed. cit.), a questo proposito, nota: “Le costituzioni non possono essere fatte, sostiene Brownson, in accordo con de Maistre: esse o sono il prodotto di lenta crescita ed espressione dell’esperienza storica di una nazione, o sono semplice carta” (p. 248).
(8) Cfr. R. Kirk, Orestes Brownson: Selected Essays, Gateway, Chicago 1955. Quest’antologia è stata riedita nella collana “Library of Conservative Thought” con il titolo Selected Brownson Essays, con una nuova introduzione dello stesso R. Kirk, Transaction, New Brunswick (New Jersey) 1990.
(9) Cfr. Leonard Gilhooley (a cura di), No Divided Allegiance: Essays in Brownson’s Thought, Fordham University Press, New York 1980.
(10) Cfr. Friedrich von Gentz, The French and American Revolutions Compared, a cura di R. Kirk, Regnery, Chicago 1955.
(11) Cfr. Ross J. S. Hoffman, The Spirit of Politics and The Future of Freedom, Bruce, Milwaukee (Wisconsin) 1951.
(12) Cfr. Claes G. Ryn, The New Jacobinism: Can Democracy Survive?, National Humanities Institute, Washington D.C. 1991.
(13) Cfr. Raymond English, Constitutional Democracy vs. Utopian Democracy [serie Ethics and Public Policy Essays, n. 42], The Ethics and Public Policy Center, Washington D.C. 1983.
(14) E. Burke, Reflections on the Revolution in France, in Idem, Works, Little, Brown, Boston 1904, vol. 3, p. 261; trad. it. Riflessioni sulla Rivoluzione francese, cit., p. 50.
(15) Cfr. il capitolo Burke and the Revolution of 1688, nel mio Edmund Burke: The Enlightenment and Revolution, con un’introduzione di R. Kirk, Transaction, New Brunswick 1991, pp. 216-254.
(16) Cfr. Christopher Dawson, The Dividing of Christendom, con una premessa di Douglas Horton, Sheed & Ward, New York 1965.
(17) Lord John Emerich Edward Dalberg Acton, The Background of the French Revolution, in Idem, Essays on Freedom and Power, a cura di Gertrude Himmelfarb, The Free Press, Glencoe 1949, p. 258.
(18) Cfr. David Hume, Frammenti di una Storia della rivoluzione francese, trascrizione parziale in Joseph de Maistre, Considerazioni sulla Francia, trad. it. a cura di Massimo Boffa, Editori Riuniti, Roma 1985, pp. 97-112.