Marco Tangheroni, Cristianità n. 165 (1989)
«Nei sentieri delle loro Accademie grandeggia di lontano l’ombra del patibolo» (1). Quando Edmund Burke scrive queste parole, nel 1790, esse sono insieme una constatazione del sangue già versato dalla Rivoluzione francese, iniziata l’anno precedente, e la precisa intuizione di un binomio, «Rivoluzione-patibolo», divenuto, a partire dagli anni immediatamente successivi, inscindibile nella coscienza collettiva prima e nella memoria storica poi. Tale binomio doveva presto precisarsi con l’identificazione del patibolo con una nuova macchina, la ghigliottina. Anche se già inventata nel 1790, il suo uso viene introdotto da un voto dell’Assemblea Legislativa soltanto nel 1792; e l’accostamento nato allora — e non ancora scomparso nell’immaginario collettivo dei popoli — fra la nuova macchina per mettere a morte e la Rivoluzione non è affatto casuale: lo prova brillantemente Daniel Arasse nel suo La ghigliottina e l’immaginario del Terrore, una storia dello strumento di morte non soltanto interessante e ricca di sorprese, ma anche estremamente istruttiva e soprattutto fondante — oltre la ricchezza dei particolari — la tesi enunciata. (2).
Joseph Ignace Guillotin — che darà il nome alla macchina per ammazzare — è un ex gesuita, uscito dalla Compagnia di Gesù nel 1763 per studiare la medicina del corpo, che a molti cominciava a sembrare assai più interessante di quella dell’anima. Nel 1789, a circa cinquant’anni, viene eletto agli Stati Generali — poi trasformatisi in Assemblea Nazionale — come rappresentante del Terzo Stato di Parigi, la città dove esercita l’arte medica. In tale veste, nel novembre dello stesso 1789, egli presenta un progetto di legge che comprendeva, fra l’altro, l’introduzione di un nuovo sistema di morte e il cui articolo 6 recitava: «Il criminale sarà decapitato: lo sarà per effetto di un semplice meccanismo» (3). Ma il progetto viene accantonato: in un certo senso, infatti, era prematuro, dal momento che, in quegli anni, lo stesso Maximilien Robespierre si dichiarava favorevole all’abolizione della pena di morte …
Estendere la decapitazione a tutti, eliminando così un privilegio nobiliare e sopprimendo l’impiccagione e altre forme di supplizio, rendere tutti i «cittadini» uguali anche di fronte alla morte legale, resta comunque una viva preoccupazione del regime rivoluzionario. Ma il boia Charles Henri Sanson fa professionalmente osservare che una simile decisione era di difficile applicazione, anzitutto perché la lama avrebbe dovuto essere di eccellente qualità per ottenere un risultato immediato, e quindi costosissima; in secondo luogo, come garantirsi che l’esecutore e la sua vittima siano all’altezza del loro ruolo, e che il nobile vittima non si dimostri più fermo del popolano boia?
Di fronte a queste difficoltà rispunta la proposta del dottor Joseph Ignace Guillotin, ottima per far fronte al numero crescente delle esecuzioni e per garantire uniformità, ripetitività e uguaglianza a un atto altrimenti troppo individualizzato e troppo sottoposto al ruolo dell’agente umano. Perciò l’Assemblea Legislativa incarica il dottor Louis — un medico, naturalmente, anzi, il segretario a vita dell’Accademia di Chirurgia — di mettere a punto la nuova macchina. Dopo non piccole difficoltà burocratiche, la nuova macchina — per la quale è anche proposto il nome di Louison o di Louisette — viene finalmente inaugurata il 25 aprile 1792, con l’esecuzione di un bandito da strada, Nicolas Jacques Pelletier.
Con questa inaugurazione, preparata e attesa con le cure di una vera e propria «prima», «la Rivoluzione mette qui fine, d’un tratto, ad abitudini e pratiche secolari. L’esecuzione di Nicolas Jacques Pelletier rivela pubblicamente e indubbiamente la volontà che ha l’assemblea di porre un termine all’Ancien Régime; questa nuova invenzione in effetti segue di poco una duplice soppressione, altamente significativa: il 5 aprile è stata soppressa la Sorbona e, il 6 aprile, è il turno di tutte le congregazioni religiose» (4).
Sulle prime il popolo resta deluso: lo spettacolo riesce troppo breve. Ma, a parte la perfetta rispondenza alla richiesta di efficacia tecnica, propria dei tempi, sopprimendo ogni sofferenza — «La testa vola, l’uomo non è più», secondo le parole dello stesso Joseph Ignace Guillotin (5) —, la ghigliottina sopprimeva ogni possibilità di riscatto dell’anima del condannato attraverso le sofferenze del corpo, potendo il supplizio essere inteso come un appello lanciato alla misericordia divina: «folgorante, essa proibisce ogni appello, essa è una risposta: risposta laica della Legge al Crimine», nota acutamente Daniel Arasse (6). Tuttavia, all’epoca del Grande Terrore si sentirà l’esigenza di circondare l’esecuzione con un cerimoniale appropriato.
Questo cerimoniale viene consapevolmente introdotto il 21 gennaio 1793, in occasione della messa a morte del re Luigi XVI, dopo che Maximilien Robespierre aveva sostenuto, il 3 dicembre 1792, che «la punizione di Luigi» doveva avere «il carattere solenne di una vendetta pubblica» (7): infatti, non si tratta semplicemente di mettere a morte un individuo qualunque, ma il corpo sacro del re che, nella teoria monarchica, pretende di incarnare il corpo di tutta la nazione. I montagnardi non negano, in un certo senso, questa eccezione all’uguaglianza di tutti, ma la trasformano in mostruosità. Nel suo discorso del 21 settembre 1792 l’abbé Henri Gregoire afferma: «I re sono nell’ordine morale ciò che i mostri sono nell’ordine fisico» (8); Maximilien Robespierre oppone un argomento ferreo ai repubblicani che non volevano la morte del re: «Luigi non può dunque essere giudicato: egli è già condannato o la Repubblica non è affatto assolta» (9); e Louis Saint-Just sentenzia che «non si regna innocentemente […]. Ogni re è un ribelle e un usurpatore» (10).
Quindi, la morte del re era qualcosa di più dell’abolizione della monarchia, cioè un autentico sacrificio fondatore; e la propaganda rivoluzionaria e quella monarchica si trovano d’accordo su questa interpretazione; e la ghigliottina, che dà all’esecuzione un carattere specificamente rivoluzionario, dal momento che, attraverso l’uguaglianza della macchina, re Luigi XVI rientra nella legge comune, ne viene consacrata definitivamente.
Da allora le quotidiane riunioni in piazza della Rivoluzione assumono aspetti quasi religiosi: del resto, il comitato rivoluzionario in Angers non esita, scrivendo al proprio rappresentante alla Convenzione, a parlare di «sacram sanctam Guillotinam» (11); e alla canonizzazione della macchina di morte rivoluzionaria si accompagna la comparsa di litanie blasfeme e di canti grotteschi in suo onore: «Santa Ghigliottina, protettrice dei patrioti, pregate per noi./Santa Ghigliottina, terrore degli aristocratici proteggeteci./Macchina amabile, abbiate pietà di noi», e così via, sull’aria della Marsigliese (12).
Dal punto di vista politico la ghigliottina diventa lo strumento fondamentale di governo, dal momento che aumentano in modo spaventoso le esecuzioni appunto per ragioni politiche. Essa esprime, secondo Louis Saint-Just, «la veemenza di un governo puro» che vuole «fortificare l’uguaglianza» (13). In essa il governo giacobino vede ed esalta lo strumento esemplare di una giustizia democratica, espressione di un governo rivoluzionario: Maximilien Robespierre la definisce «spada che brilla nelle mani degli eroi della libertà» (14); essa è lo strumento che rigenera il popolo nel suo corpo collettivo mediante successive amputazioni: «smascherato e ghigliottinato — nota Daniel Arasse —, il colpevole rivela di essere uno dei molteplici parassiti la cui estirpazione rigenera il corpo politico e sociale» (15).
Non mi sembra che vi sia forzatura nella interpretazione dei testi contemporanei. Essi sono generalmente assai espliciti: per esempio, quando un giornalista, che doveva essere ghigliottinato, propone, da buon illuminista, che il suo sangue venga utilizzato per esperienze di trasfusione, i buoni repubblicani inorridiscono di fronte a quella che viene considerata una trappola, per far sì che un sangue impuro e corrotto infetti il corpo collettivo della nazione (16).
«Promossa macchina di governo, la ghigliottina lavora per fondare una democrazia vera della quale il popolo è effettivamente il sovrano» (17). Si pensa a miglioramenti tecnici, che possano tenere il ritmo dei massacri, per esempio ipotizzando una macchina a cinque, a otto, a nove, perfino a trenta finestre, ma questo appare contrario alle leggi rivoluzionarie. A questo proposito l’analisi di Daniel Arasse è particolarmente interessante e riassumibile nei termini seguenti: Chi condanna? Il popolo nella sua volontà generale. Qual’è la colpa di fondo dei condannati? Quella di separarsi dal popolo, di pretendere la possibilità del frazionamento della volontà generale. Perciò i condannati devono salire sul patibolo a uno a uno, per mostrare che il nemico da abbattere è solamente l’individuo che ha scelto la sua volontà particolare a detrimento della volontà generale. Louis Saint-Just aveva sostenuto la tesi che, attraverso successivi «scrutini epuratori», la volontà generale, grazie ai procedimenti elettorali, si formava «con la maggioranza delle volontà particolari, individualmente raccolte»; si può dunque pensare che, in un certo senso, «il paniere della ghigliottina raccoglie individualmente la minoranza di queste volontà particolari che si sono escluse dalla volontà generale. In questo impegno democratico, la ghigliottina conferma visualmente la terribile onnipotenza del suffragio universale» (18).
D’altra parte, il fatto che sia una macchina a far funzionare il governo in questo suo aspetto fondamentale — infatti il terrore è stato posto anche formalmente «all’ordine del giorno» — appare in logica connessione con una concezione «meccanica» e non personale del regime rivoluzionario: il regime giacobino fu effettivamente governo d’apparato, poiché l’ideologia montagnarda domandava ai suoi rappresentanti al potere di essere solamente l’espressione di una macchina di governo (19).
La ghigliottina e l’immaginario del Terrore — in cui sono affrontati anche altri temi, oltre a quelli evocati, come, per esempio, il ruolo della medicina nella cultura della fine del Settecento (20), o quello degli aspetti teatrali che quasi subito circondano le esecuzioni, con un accostamento al tema più generale, e molto istruttivo, delle feste della Rivoluzione (21) — è basato su una vastissima documentazione, scritto brillantemente e di utile avvio a una rilettura della Rivoluzione francese, svolta da un punto di vista particolare e originale. Metodologicamente mantiene fermi i rapporti fra i diversi aspetti della realtà — fatti, ideologie, miti, simbolismi, caratteri profondi — senza quasi mai scadere in una di quelle pure storie dell’immaginario che, se non adeguatamente fondate, possono risultare
abili costruzioni retoriche piuttosto che autentiche opere di storia.
Nella sostanza, il saggio porta buoni argomenti al carattere in primis e sostanzialmente antireligioso della Rivoluzione (22), di cui i capovolgimenti, talora letterali, della religiosità cattolica e gli aspetti di una sua propria religiosità, di segno rovesciato, mi sembrano costituire una piena conferma: diabolus simia Dei, «il diavolo è scimmia di Dio».
Marco Tangheroni
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(1) Edmund Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione francese, in Idem, Scritti politici, trad. it., UTET, Torino 1963, p. 246.
(2) Cfr. Daniel Arasse, La ghigliottina e l’immaginario del Terrore, trad. it., Xenia, Milano 1988, pp. 216, che purtroppo non ha l’apparato iconografico che arricchisce l’edizione originale (La guillotine et l’immaginaire de la Terreur,Flammarion, Parigi 1987, pp, 222, con sedici pagine di illustrazioni fuori testo).
Daniel Arasse, nato nel 1944, insegna Storia dell’arte a Parigi ed è visiting professor a Yale presso il dipartimento di letteratura francese. Dal 1982 dirige l’Institut Français di Firenze. In collaborazione con V. Rousseau-Lagarde ha scritto La Guillotine de la Terreur (Firenze 1986) ed è stato organizzatore di un’esposizione itinerante sullo stesso tema, presentata a Firenze, a Roma, a Torino e anche in Francia.
(3) Cit. in D. Arasse, La ghigliottina e l’immaginario del Terrore, cit., p. 21.
(4) Ibid., p. 41.
(5) Cit. ibid., p. 46.
(6) Ibidem.
(7) Cit. ibid., p. 77.
(8) Cit. ibid., p. 78.
(9) Cit. ibidem.
(10) Cit. ibidem.
(11) Ibid., p. 110.
(12) Cit. ibid., p. 111.
(13) Cit. ibid., p. 113.
(14) Cit. ibid., p. 115.
(15) Ibid., p. 116.
(16) Cfr. ibid., pp.116-117.
(17) Ibid., p. 117.
(18) Cit. ibid., p. 123.
(19) Nella stessa prospettiva, esposta in generale, cfr. François Furet, Critica della Rivoluzione francese, trad. it., Laterza, Bari 1980, opera molto attaccata dai sostenitori del carattere progressivo e benefico della Rivoluzione; in essa, fra l’altro, l’autore procede a un ampio recupero di un originalissimo storico cattolico contro-rivoluzionano, Augustin Cochin, del quale si possono vedere Meccanica della Rivoluzione,trad. it., Rusconi, Milano 1971; e Lo spirito del giacobinismo. Le società di pensiero e la democrazia: una interpretazione sociologica della Rivoluzione francese,trad. it., Bompiani, Milano 1981.
(20) Cfr. Ermanno Pavesi, Franz Anton Mesmer e il «magnetismo animale», in Cristianità, anno XI, n. 98-99, giugno-luglio 1983.
(21) Cfr. Francesco Mastropasqua, Le feste della Rivoluzione francese. 1790-1794, Mursia, Milano 1976.
(22) Cfr. Massimo Introvigne, La Rivoluzione francese verso una interpretazione teologica?, in Quaderni di «Cristianità», anno 1, n. 2, estate 1985, pp. 3-25, che fa stato dell’opera di Jean Dumont, La Révolution française ou les prodiges du sacrilège, Criterion, Limoges 1984.