Gianni Vannoni, Cristianità n. 10 (1975)
ll’anno 1519 un giovane spagnolo proveniente dalla piccola nobiltà, dopo aver abbandonato gli studi giuridici all’università di Salamanca, intraprendeva con seicento uomini, sedici cavalli e dieci cannoni, la conquista di un territorio inesplorato e inospitale, grande tre volte la Spagna, segnato da picchi e precipizi, foreste e paludi mortifere, infestate da insetti e rettili mai visti. In più, quella natura terribile e smisurata racchiudeva le insidie di una tribù bellicosissima, gli aztechi, i quali “avevano sempre creduto che la loro missione fosse di sottomettere le genti ai quattro canti dell’universo” (1).
Che cosa spingeva Hernan Cortés in tale impresa, unica nella storia? E con quali mezzi poté giungere al fine?
A queste domande, tutt’altro che peregrine, non rispondono – almeno esplicitamente – tre opere che sull’argomento sono apparse in Italia nel corso del 1974, con il poco lodevole risultato di perpetuare la convinzione, ormai stratificata nella psiche del cittadino, allevato nella scuola di Stato e perfezionatosi con le dispense dell’editoria popolare, che la conquista dell’America del sud sia cosa da attribuire a predoni ipocritamente devoti e spietatamente sanguinari (2).
La prima delle opere sotto elencate è forse la più “scientificamente” pretensiosa, ma anche, come spesso accade, la più carente di obiettività. In essa il fenomeno della conquista, che vede la vittoria di un piccolo gruppo di uomini contro masse demografiche enormi, è dato per assolutamente incomprensibile a chi volesse spiegarlo con argomenti di coraggio, o di protezione divina, o di superiorità civile. La chiave del problema sarebbe da cercare nell’aggressione psicologica operata contro gli indigeni dai missionari, i quali, distruggendo le credenze ancestrali di quelle popolazioni, le disarmavano spiritualmente e le rendevano perciò alla mercé del conquistador. “Perché si tratta proprio di aggressione quando si tende a modificare, sotto il pretesto della religione, abitudini che rimontano alle origini di un popolo” (3). “Un mondo intero destrutturato“, grida con angoscia tutta sociologica il nostro autore (4).
Resta da vedere quale fosse questo mondo così impietosamente “destrutturato“, e se la religione fosse un “pretesto“, o non piuttosto la Weltanschauung sinceramente vissuta che offriva agli spagnoli il metro per giudicare intollerabili e nefande certe “abitudini“.
A tal fine può presentare una qualche utilità la seconda delle pubblicazioni citate (5). È vero che nel risvolto di copertina essa ospita il solito ritornello sullo “sguardo degli invasori” spagnoli “ispessito dall’avidità“, sulle “violenze esercitate in nome della civiltà cristiana” ecc., ma per buona sorte il libro è migliore di quanto lo staff redazionale della casa editrice prometta, poiché si tratta sostanzialmente di una descrizione vivace degli usi e dei costumi aztechi, e solo sporadicamente vi affiorano detriti di leyenda negra. A p. 37 siamo informati che nello Stato azteco la pressione fiscale era fortissima, e chi non pagava il tributo stabilito era venduto schiavo. A p. 67 è illustrata la punizione che si soleva impartire a un bambino di nove anni che avesse mostrato un carattere ribelle: dopo essere stato denudato e legato, veniva punto con delle grosse spine, che gli venivano conficcate per tutto il corpo come banderillas in un toro. A p. 94 si dice che nessun sovrano poteva essere incoronato, finché non avesse catturato con le sue mani prigionieri da sacrificare nella festa dell’incoronazione. A p. 129 si narra in che modo era celebrata la maggiore festa azteca, che cadeva pochi giorni dopo la nostra Pasqua: si sceglieva per tempo e con grande cura un giovane che non presentasse alcun difetto, lo si istruiva nella musica e nella danza, gli si davano quattro fanciulle con le quali potesse avere per venti giorni la più completa e varia intimità carnale, dopo di che lo si immolava a Tezcatlipoca, l’invisibile signore del Cielo e della Terra. Altra gentile “abitudine” quella che cadeva nel mese di settembre: “Veniva scelta una giovanissima ragazza schiava, sui dodici o tredici anni. Vestita con gli ornamenti e gli attributi di Chicomecoatl riceveva nel tempio della dea l’omaggio di tutto il popolo e le offerte di pannocchie di mais, di fiori, di legumi e di frutta. All’improvviso la musica cessava e un sacerdote in gran fretta le tagliava la testa. Il corpo veniva immediatamente scuoiato” ecc. (6). Si potrebbe aggiungere che il tributo di sangue umano offerto dagli aztechi alle loro “divinità” si aggirava sulle ventimila vittime all’anno (7); che, per esempio, la cerimonia dedicatoria del grande tempio di Huitzilopoctli, avvenuta nel 1486, costò settantamila vite (8); che ciascun cittadino era autorizzato a comprare uno schiavo e a farlo sacrificare durante un banchetto al quale si invitavano gli amici, cui era offerta la carne del sacrificato “cotta insieme col granturco” (9) ecc.
Giudichi il lettore se “destrutturare” un mondo siffatto, “sotto il pretesto della religione“, sia un marchio d’infamia oppure un dovere che, adempiuto a rischio della vita, iscrive con onore nella storia il nome di Hernán Cortés e degli altri ardimentosi sudditi del re cattolico.
Si dirà che quando essi sbarcarono sulle rive del Messico, in quel fatidico venerdì santo del 1519, non potevano nemmeno supporre l’esistenza di un mondo del genere, e che nessuna santa indignazione, perciò, poteva muoverli. Probabilmente. Ma allora, che cosa in origine li spinse, per quale irresistibile impulso presero il mare? Ce lo fa sapere uno di loro, con tutta sincerità; un modesto soldato, Bernal Díaz del Castillo: “Per servire Dio, Sua Maestà, e per dar luce a quelli che erano nelle tenebre ed anche per acquistare ricchezze, che è di tutti gli uomini desiderare e cercare” (10). Che il fante cronista sia sincero, lo prova il fatto che egli non abbia taciuto il movente “materiale”, economico, dell’avventura. Ma nella mente di un uomo d‘armi della Spagna del ‘500, ove un certo tipo di spiritualità cavalleresca era diffuso come oggi può esserlo il mito del self-made man, e la lettura dell’Amadís de Gaula scandiva le ore che l’età nostra consacra al culto televisivo, il movente economico presentava caratteri molto meno “materialistici” di quanto si immagini, aveva veste “meravigliosa” e fiabesca; sussurrava di tesori nascosti e di terre incantate, e poi non stava da solo, ma si fondeva con il motivo dominante dell’onore e della gloria: onore e gloria per sé, per il re, e per il Re dei re che sta nei cieli. Intraprendere una grande e rischiosa impresa soltanto o principalmente per far denari sarebbe stato, oltre che inconcepibile, disonorevole; anzi, inconcepibile appunto perché disonorevole e indegno di un hidalgo. L’ascesi capitalistica propria della mentalità protestante era ancora assai lontana dal nascere, nella cattolicissima Spagna che si gettava allora, anima e corpo, nell’estremo tentativo di restaurazione effettiva del Sacro Romano Impero (11).
Si aggiunga un’altra motivazione, di un ordine meno universale ma forse, agli occhi di taluno, più concreto; e cioè che dal bottino di guerra i conquistadores dovevano togliere porzioni considerevoli: la parte da devolversi al re (vale a dire alle casse dello Stato, per le spese pubbliche), la parte del capo della spedizione, la parte di chi aveva investito del suo per fornire l’equipaggiamento, le armi, i battelli ecc. Tanto che gli uomini della truppa, narra Vasco Nuñez de Balboa, se anche vedono dell’oro davanti a loro, non lo vogliono raccogliere perché sanno che ne avranno una piccolissima parte. “Esagerazione, senza dubbio” commenta R. Romano (12) nel riferire la testimonianza: esagerazione, s’intende, del teste, non di tutta quella più o meno farraginosa catena di compendi storici, ruminanti la furiosa febbre dell’oro!
Non si vuol negare che in qualcuno dei colonizzatori il movente economico esorbitasse, offuscando gli altri enunciati da Diaz del Castillo. Al Nuovo Mondo andavano, secondo lo schema assai impietoso del Pincherle, “soldati senza prospettive di fortuna o carriera, nobilucci rovinati, artigiani immiseriti, uomini che avevano a che fare con la giustizia e, come appare sempre più chiaro […], ebrei che il recente battesimo salvava dall’espulsione, ma timorosi di nuovi guai” (13). Evidentemente, laddove l’impulso apostolico e il sentimento nazionale-dinastico sono ipotizzabili come nulli, massima è da considerarsi, indomita e solitaria, la deprecata sete dell’oro.
L’altro tema dominante della pubblicistica anticattolica è costituito dalle “atrocità“ dei conquistadores e prende le mosse, paradossalmente, da una fonte clericale, cioè dagli scritti di Bartolomeo de Las Casas, il domenicano spagnolo cui parimenti si deve, per logico corollario, la messa in cantiere del mito del buon selvaggio, che tanti lutti addusse poi alla civiltà cristiana, in terra di Francia e altrove. Ferocia degli spagnoli e bontà degli indigeni vanno di pari passo nelle infuocate invettive di questo intellettuale tonsurato, idealista e intrigante a un tempo, le cui fisime pacifistiche furono espiate da un gruppo di poveri contadini che, mandati senza soldati in mezzo ai selvaggi, incontrarono una morte orribile (14).
Se ai connazionali e correligionari sono attribuite tutte le possibili e immaginabili stragi, torture e male azioni, in compenso “nel mondo non vi è altra popolazione di cui si abbia notizia, più quieta, più pacifica, più mansueta, più benigna” degli indios, i quali sono pure intelligentissimi giacché, “per la buona e lodevole complessione” della loro natura, mancano “di quelle passioni dell’anima che causano in questa turbamento e per conseguenza ostacolano l’intelletto, e sono principalmente l’ira, la gioia, il dolore, il timore, la tristezza, la collera e rancore, ecc.” (15). Questa sola citazione può dare un saggio della attendibilità dei Las Casas.
La realtà conosciuta è ben diversa dal platonico modello, parla di sacrifici umani e di cannibalismo. Gente abituata a offrire agli ospiti granturco e carne di schiavo, non doveva essere eccessivamente mansueta; e se negli spagnoli trapiantati nel Nuovo Mondo vi fu un indurimento e un regresso in termini umani e civili, questo si dovette verosimilmente all’influenza degli indigeni e dei loro costumi tribali. “Ed oramai“, scrive Cortés all’imperatore Carlo, “eravamo più impegnati nel trattenere i nostri alleati dall’uccidere o dall’abbandonarsi a una crudeltà efferata, che nel combattere contro gli indiani: crudeltà che non si è mai vista così disumana né così fuori di ogni ordine naturale, come negli indigeni di queste terre” (16). Gli alleati in parola sono i pre-aztechi, ossia le varie popolazioni che gli adoratori di Huitzilopoctli avevano incontrato, vinto e duramente soggiogato.
Qui si torna – dopo la necessaria parentesi redistributiva, in ordine a cupidigia e crudeltà – all’interrogativo iniziale, relativo al come della incredibile conquista. L’apporto di coloro che si è voluto definire i “collaborazionisti” (17) non deve essere sottovalutato, e uno storico non sospettabile di simpatie ispano-cattoliche, qual è il Barbagallo lo antepone a tutti gli altri fattori che giocarono a favore degli spagnoli, tratteggiando un quadro popolato non da “invasori” e “collaborazionisti”, ma piuttosto da “liberatori” e da “insorti”. “Il destino dell’Impero azteco“, egli scrive (18), “era ben meritato! Non furono i pochi cavalli di Cortés di cui, non conoscendoli, gli Aztechi sarebbero potuti restare sorpresi; non le sue rozze e scarse artiglierie, al paragone del compito enorme che avrebbero dovuto fornire; non il prestigio divino degli Spagnoli, che quei di Messico non avevano tardato a capire essere uomini fragili e mortali come loro (19). Non fu tutto questo a determinare la catastrofe! Fu la feroce politica, che da decenni essi esercitavano sui vinti! Bastò, grazie alla presenza dei pochi, decisi avventurieri, che le estorsioni degli Aztechi sui popoli assoggettati si interrompessero, che questi ultimi e i loro vicini vedessero rifiorire nel loro paese la prosperità, di cui più non godevano, che tornassero a possedere, con piena facoltà di goderne, stoffe di cotone, oro e persino quel sale, “di cui non mangiavano più da gran tempo”, perché i vinti si levassero in piedi, e soffocassero e sommergessero nel loro odio i feroci conculcatori!“.
Eppure, l’enigma della conquista permane largamente irrisolto. Come gli spagnoli riuscirono a non farsi travolgere dalla rivolta delle masse pre-azteche che essi avevano messo in moto? Perché, una volta liberatisi degli aztechi, gli indigeni non si sbarazzarono anche dei nuovi padroni-alleati, coi quali pure all’inizio avevano incrociato le armi (20)? Essi erano degli stranieri, esigui di numero e ignari della geografia del paese.
Esauriti gli argomenti naturali, subentrano, piaccia o non piaccia, considerazioni che hanno attinenza con il soprannaturale. Tanto più se a ciò indirizzano le stesse testimonianze indigene.
Di esse offre una interessante silloge l’opera già citata di Miguel León-Portilla. L’intento dello studioso messicano è chiaramente apologetico dei “vinti”, e la traduzione italiana del suo lavoro si inserisce nella scoperta operazione editoriale che ha dato luogo nello stesso torno di tempo alla pubblicazione de I conquistadores: meccanismi di una conquista coloniale e di Vita degli Aztechi nel Codice Mendoza. La pubblicità redazionale batte anche qui la grancassa delle “stragi inesorabili“, del “comportamento nobile e disperato dei capi e dei popoli indigeni“, e dei “barbari che venivano dall’Europa per massacrarli” (21). Quando però ci si addentra nella terra infida dei documenti diretti – pur se scelti in uno solo dei due campi – i luoghi comuni rischiano di andare in frantumi, e l’effetto che si ottiene non sempre risponde alle intenzioni di partenza. Infatti può capitare di imbattersi in testimonianze come la seguente, tratta da fonte indigena della prima metà del ‘500:
“Uno del villaggio di Ah Xepack, indio fatto aquila, con tremila indios andò a combattere con gli spagnoli. Gli indios partirono a mezzanotte e il capitano fatto aquila arrivò al punto di voler uccidere l’Adelantado Tunadiú (22); ma non riuscì a ucciderlo perché era difeso da una fanciulla bianchissima; tutti volevano entrare ma appena vedevano questa fanciulla, subito cadevano a terra e non potevano alzarsi dal suolo, e subito arrivavano molti uccelli senza piedi, e questi uccelli stavano tutti intorno a questa fanciulla.
“E gli indios volevano uccidere la fanciulla, e questi uccelli senza piedi la difendevano e li privavano della vista.
“Questi indios che non riuscivano a uccidere né Tunadiú né la fanciulla, tornarono indietro e mandarono invece un altro indio, un capitano fatto fulmine, il quale si chiamava Ixquín Ahpalotz Utzakibalhá, e il suo nome era Nehaib, e questo Nehaib andò fatto fulmine là dove si trovavano gli spagnoli per uccidere l’Adelantado. E appena arrivò, vide che sopra tutti gli spagnoli c’era una colomba bianchissima, che li difendeva, e quando provò a rifarlo un’altra volta gli si offuscò la vista e cadde a terra e non riusciva ad alzarsi. Ancora tre volte questo capitano assalì, fatto fulmine, gli spagnoli, e altrettante rimaneva cieco degli occhi e cadeva a terra. E quando questo capitano si accorse che non era possibile battere gli spagnoli, tornò indietro e mandarono ad avvisare i cacicchi di Chi Gumarcaah dicendo loro che questi due erano andati a vedere se riuscivano a uccidere Tunadiú e che c’erano la fanciulla e gli uccelli senza piedi e la colomba, che difendeva gli spagnoli” (23).
È facile scartare testimonianze del genere, ascrivendole al regno della fantasia, per la mentalità, che non potremmo definire se non limitata e ristretta, in quanto restringe la sfera dell’esistente in confini meramente naturalistici, dei nostri contemporanei. Certo, che un indio quiché abbia potuto immaginare a difesa dei soldati dell’imperatore cristiano proprio una “fanciulla bianchissima” tanto simile a ciò che sappiamo del sembiante di Nostra Signora, e una “colomba” altrettanto “bianchissima“, così immediatamente evocante l’immagine corporea dello Spirito Santo, di evangelica memoria, costituisce uno dei “casi” singolari in cui sarebbe (evidentemente) troppo semplice ravvisare una protezione dall’alto e un’assistenza divina. Nell’attesa di più complesse elucubrazioni, è lecito supporre che fenomeni di questi tipo abbiano mostrato come garantita agli occhi degli indios la vittoria dell’impero e la verità della fede per cui si battevano i conquistadores. “Amici, seguiamo la Croce del Cristo, e se c’è della fede in noi, in questo segno vinceremo“: così stava scritto sul loro stendardo, rossa croce su campo nero, e così fu (24).
GIANNI VANNONI
Note:
(1) MIGUEL LEÓN-PORTILLA, Il rovescio della conquista. Testimonianze azteche, maya e inca, tr. it., Adelphi, Milano 1974, pp. 24-25.
(2) Cfr. RUGGIERO ROMANO, I conquistadores: meccanismi di una conquista coloniale, tr. it., Mursia, Milano 1974; SEBASTIANA PAPA( a cura di), Vita degli Aztechi nel Codice Mendoza, Garzanti, Milano 1974; MIGUEL LEÓN-PORTILLA, il rovescio della conquista. Testimonianze azteche, maya e inca, cit.
(3) R. ROMANO, op. cit., pp. 20-21. “Così, senza parlare dei buoni o dei cattivi evangelizzatori, di quelli che sfruttano gli indiani e di quelli che li proteggono, resta il fatto che la stessa opera di evangelizzazione è negativa perché è fonte di disintegrazione culturale e spirituale” (ibidem). Tesi già presente in BEN HIRAM, L’éducation des peuples de couleur par les blancs considérée du point de vue maconnique, Derain, Lione 1956, pp. 26 ss.
(4) R. ROMANO, op. cit., p. 23.
(5) Vedi nota 2.
(6) Vita degli Aztechi, cit., p. 130.
(7) Cfr. Hans HELFRITZ, Antica America. Aztechi, Maya, Incas, tr. it., La Scuola ed., Brescia 1968, p. 144.
(8) Cfr. ibidem.
(9) Ibidem, p. 146.
(10) Cfr. RAMÓN MENÉNDEZ PIDAL, Cupidigia insaziabile o gloriose imprese?, in IDEM, Poesia araba e poesia europea ed altri saggi, tr. it., Laterza, Bari 1949, pp. 202-203.
(11) Errore madornale è perciò quello di Karl Brandi, che scrive dei conquistadores: “Le loro passioni erano le stesse che mossero più tardi i cercatori d’oro del secolo XIX e i cacciatori di diamanti del secolo XX“. (K. BRANDI, Carlo V, tr. it., Einaudi, Torino 1961, pp. 325-326). Se alle persone colte si possono sciorinare con nonchalance affermazioni simili, rimanendo uno storico reputato, non può fare meraviglia che agli adolescenti si racconti in questo modo la conquista spagnola del Perù: “C’era un Impero, più ordinato di quello spagnolo [ove “più ordinato” vale: comunistico-schiavistico]. C’era, soprattutto, quello che avevano tanto cercato: l’oro! E tutto quest’oro apparteneva ad un uomo solo, l’Inca! Accecati dall’oro, gli Spagnoli uccisero l’Inca, così che il prezioso metallo appartenne tutto a loro“. (HANS BAUMANN, Oro e Dei del Perù [per ragazzi da 11 a 15 anni], tr. it., Vallecchi, Firenze 1966, p. 8).
(12) Op. cit., p. 34.
(13) Alberto Pincherle, introduzione a La leggenda nera. Storia proibita degli spagnoli nel Nuovo Mondo di fra Bartolomé de Las Casas, 2ª ed. it., Feltrinelli, Milano 1972, p. VII.
(14) Finì così, quasi prima di cominciare, l’esperimento di “colonizzazione pacifica” voluto e organizzato da Las Casas in quel di Cumanà (Venezuela settentrionale) nel 1521: cfr. RAMÓN MENÉNDEZ PIDAL, El padre Las Casas. Su doble personalidad, Espasa-Calpe, Madrid 1963, pp. 37-45.
(15) La leggenda nera. Storia proibita degli spagnoli nel Nuovo Mondo di fra Bartolomé de Las Casas, tr. it. cit., p. 47.
(16) Cfr. R. MENÉNDEZ PIDAL, Cupidigia insaziabile o gloriose imprese?, cit., p. 200.
(17) R. ROMANO, op. cit., p. 17.
(18) CORRADO BARBAGALLO, Storia universale, UTET, Torino 1958, vol. IV, parte I, p. 395.
(19) L’autore si riferisce a quel sistema di credenze e profezie azteche, che nella venuta dei bianchi fece per un momento ravvisare l’atteso ritorno di antiche divinità aborigene.
(20) Tale fu il caso dei tlaxcaltechi.
(21) Di non diversa musica risuonano le recensioni, non escluse quelle apparse su organi filo-democristiani; cfr. Vennero a far sfiorire i fiori, in Il Settimanale, 14 novembre 1974, pp. 90-91.
(22) Trattasi del conquistador Pedro de Alvarado, così soprannominato dagli indios.
(23) Cfr. M. LEÓN-PORTILLA, op. cit., p. 98.
(24) Per la bandiera dei conquistadores cfr. JEAN TERRADAS, Une Chrétienté d’outremer, Nuovelles Editions Latines, Paris 1960, p. 61. L’opera del padre Terradas è degna di nota; essa sostiene la tesi secondo la quale la conquista spirituale dell’America non fu opera esclusiva del clero, poiché gli stessi conquistadores vi giocarono un ruolo di primo piano: “La loro spada, il loro genio politico e coloniale costituirono il baluardo invincibile della evangelizzazione“. Non che costringessero alla conversione con la forza – “affermarlo è calunniare” – ma la loro attiva presenza permise che il “dispositivo cristiano” (edifici di culto, catechismi, processioni ecc.) venisse prontamente allestito, che i neo-convertiti trovassero un proprio spazio sociale, che la predicazione della fede non incontrasse ostacoli materiali. Si ebbe cioè una stretta collaborazione di clero e laicato cattolico, di Stato e Chiesa, che produsse risultati ignoti altrove. “Non viene da pensare“, chiede il padre Terradas, “che se lo stesso metodo si fosse potuto applicare in Giappone, in India, in Cina, in Africa, questi paesi sarebbero oggi cattolici; almeno in gran parte?” – perché se è vero che l’evangelizzazione non deve essere affidata alla forza, non è meno vero che essa “non deve essere lasciata alla mercé di tutte le forze nemiche” (p. 63).