Pierre Faillant de Villemarest, Cristianità n. 167-168 (1989)
Fine di un’epoca
Sta per finire un’epoca. Da nord a sud, da oriente a occidente del pianeta un mutamento straordinario scuote i continenti come quando, nel sottosuolo, lo slittamento di immense faglie finisce, qui o là, per provocare sismi: nessuno sa quando avranno precisamente luogo, ma tutti sanno che si verificheranno.
Allo stesso modo, in Europa, negli Stati Uniti, in America Latina, nell’impero del GULag, nel mondo mediorientale, in Africa, numerosi miti o idee preconcette sprofondano, come vecchi orpelli. Tutti i capi di Stato, tutti i partiti politici, tutti gli eserciti sono impotenti. Certamente dei Nerone o dei Caligola moltiplicano assassini o incendi per affermarsi, “graziosi” pecoroni raddoppiano i belati e gli sproloqui, speculatori approfittano della paura, dell’ignoranza, della cecità degli uni o degli altri, pretesi profeti e pianificatori assicurano di possedere la chiave del mondo di domani… In realtà, le loro prospettive – costruite da loro e per loro – sono destinate a finire presto nel nulla, spazzate via da avvenimenti incontrollabili, proprio come l’ultima guerra mondiale ha rapidamente fatto svanire i sogni degli “anni folli”.
E mentre chi non vive rinchiuso nella propria cerchia e all’interno delle proprie abitudini può cogliere questo mutamento, a Parigi e a Bonn, a Bruxelles e a Roma, a Madrid, a L’Aia e a Lisbona un piccolo numero di politici continua a girare su sé stesso nel proprio ambiente e nei propri schemi, come se il ciclo delle elezioni dovesse portare al potere, per l’eternità e alternativamente, prima un’opposizione poi l’altra, il tutto a esclusivo vantaggio degli stessi uomini e degli stessi clan.
Ma il peggio, forse, succede in Francia, dove si prendono in considerazione solo scandali e si parla soltanto di programmare festeggiamenti. Nell’attesa della celebrazione del bicentenario della Rivoluzione, i giocolieri dei partiti con il brevetto della Repubblica sono risaliti sui palchi, in occasione delle elezioni comunali, per fare nel 1989 lo stesso discorso di dieci, venti o trent’anni fa … come se in Francia, in Europa e nel mondo non fosse mutato – o non stesse per mutare – nulla!
Tutti hanno detto che le elezioni comunali si svolgevano nella prospettiva di quelle europee del prossimo giugno 1989, ma per quale Europa? Come si integreranno in questa mitica Europa i popoli, le regioni, le province e le imprese? A questi interrogativi non è stata data una parola di risposta, non una parola su quanto l’Europa farà di fronte ai sovvertimenti di un pianeta che non smette di ribollire, finché i suoi nuovi sismi produrranno le loro conseguenze sulla nostra vita quotidiana …
Un’Europa socialista
Tuttavia alcuni guru preparano febbrilmente un’Europa a modo loro operando alla spalle di un clan di alti funzionari, di sindacalisti, di cristiani di sinistra, di opportunisti e di demo-tecnocrati, che hanno in comune la volontà di imporre il loro potere. Infiltrati negli organismi comunitari di Bruxelles e di Strasburgo pensano che oggi l’Europa è la grande chance del socialismo. Tutto è dunque chiarissimo: non si tratta di predisporre nello stesso tempo una vita migliore e una seria difesa europea, ma della prospettiva messianica di una cricca, il cui filo conduttore è rappresentato dalla volontà di organizzare l’Europa in simbiosi con l’URSS…
Tutte le settimane ne viene offerta una prova ulteriore. Il 14 febbraio 1989, Marcelino Oreja, segretario generale del Consiglio d’Europa, si vantava di aver ideato e di aver organizzato la visita a Strasburgo, per la prima volta nel settembre del 1988, di un’importante delegazione sovietica, di essere stato “il primo segretario generale del Consiglio d’Europa a essersi recato in Ungheria e in Polonia, e a proporre che questi due paesi abbiano ormai statuto permanente di osservatori presso il Consiglio …” (1).
Al pericolo rappresentato da una simbiosi economica incontrollata si aggiunge attualmente il principio di una simbiosi politica fra Oriente e Occidente, mentre si finge di ignorare che i dirigenti occidentali costituiscono i quadri dei quali l’URSS si serve, nei loro rispettivi paesi, per perseguire gli scopi dell’Internazionale comunista.
Uscito dal sottobosco della “destra” liberal spagnola, Marcelino Oreja è ugualmente entusiasta di servire l’Internazionale socialista e la sua gemella, l’Internazionale comunista. Egli ha trascinato in questa avventura Lord Plumb, liberal inglese, che ha invitato Mikhail Gorbaciov a predicare, nel luglio del 1989, le virtù del comunismo “riveduto” davanti al Consiglio d’Europa.
La “destra” liberal del Parlamento Europeo tace, anche quando i socialisti attaccano le sue posizioni; e avalla la politica della mano tesa nei confronti di potenti personaggi degli Stati satelliti dell’impero sovietico, che – come ha fatto Gyula Horn, ministro degli esteri ungherese, alla televisione magiara il 26 febbraio 1989 -, con il sorriso sulle labbra, non mancano di precisare che “tanto l’idea quanto le speculazioni relative a un avvicinamento istituzionale con il Mercato Comune sono irrealistiche … Noi siamo legati a un’altra alleanza”.
I liberal e i socialisti europei non vogliono né sentire né capire cosa significa la parola “alleanza” nel linguaggio comunista: fingono di credere che l’Ungheria – e la Polonia – siano già libere dall’URSS e che il comunismo dell’Europa Orientale sia diventato “accettabile”.
La ragione inconfessata del loro atteggiamento è che, con i liberal degli Stati Uniti, pensano che sarebbe una catastrofe se il sistema sovietico crollasse su sé stesso, “implodesse”, e se gli Stati annessi dall’URSS riconquistassero la loro indipendenza nazionale.
Essi vogliono che l’inarrestabile fallimento del comunismo avvenga con sufficiente controllo interno in modo che sorgano poteri graditi nello stesso tempo all’URSS e alle Internazionali, di cui la Commissione Trilaterale costituisce il vaso comunicante. Per esempio, Henry Kissinger, nel settembre del 1988, diceva: ” A lungo termine, sistemazioni [sic] come quelle con la Finlandia non sono più vantaggiose per la sicurezza dell’URSS di quelle vigenti nell’Europa Orientale?…”; egli preconizzava un negoziato sull’avvenire dei paesi dell’Est – naturalmente senza chiedere l’opinione dei rispettivi popoli – fra URSS e l’Occidente, “non condotto da diplomatici e da specialisti … ma in modo assolutamente confidenziale …” (2). Da parte di chi? Da iniziati che si sono scelti vicendevolmente … Con quale fine? Per una generale “finlandizzazione” dell’Europa, i cui garanti e i cui sorveglianti saranno nello stesso tempo i liberal americani dell’Establishment e i loro soci nell’URSS.
Le “esperienze” ungherese e polacca
È un’esagerazione? Su The Economist, di Londra, dell’inizio di marzo del 1989, Mark Palmer, ambasciatore degli Stati Uniti a Budapest – e, guarda caso, membro di vecchia data del CFR, il Council on Foreign Relations – pensa che in Ungheria si possano “superare” le frontiere fra Oriente e Occidente moltiplicando i legami fra ministeri, partiti, Chiese, studenti e fra le economie. Ebbene, la sua elencazione riguarda organismi o ambienti “sociali” controllati dal partito comunista e dai suoi organi di polizia: quindi vuole aiutare il potere comunista a rafforzarsi, diversamente parlerebbe di legami con l’opposizione anticomunista!
Ma si spinge oltre: “Il vero problema – dice sempre nella stessa sede – non consiste nell’incrementare il commercio, ma è costituito dall’incapacità dell’Est di guadagnare sufficientemente divise estere grazie alle sue esportazioni … Quindi bisogna insegnare agli uomini d’affari dell’Est le nostre tecniche di organizzazione della produzione e del commercio!”.
Inoltre lo stesso Mark Palmer ha già fondato un centro di management che, a spese dei cittadini degli Stati Uniti, insegna ai dirigenti ungheresi come trarre profitto dall’Occidente! Il suo “lavoro” completa quello del miliardario “emigrato” Georges Soros, una sorta di Armand Hammer magiaro, che finanzia, in ragione di tre milioni di dollari all’anno, la formazione di manager comunisti – dai duecento ai trecento ogni dodici mesi -, affinché facciano uscire l’Ungheria dal fallimento economico.
L'”esperienza polacca” è un altro esempio immediato della strategia mondialista volta a impedire che un popolo consapevole della propria identità nazionale e cristiana riconquisti la sua sovranità, e questo non perché costituirebbe una minaccia per la pace mondiale, ma perché annuncerebbe la disgregazione accelerata del comunismo in Europa e, allo stesso modo, della sua variante socialista.
Dal 1980 al 1988 la coesione dei polacchi, in occasione degli scioperi attuati dai nove milioni di aderenti a Solidarnosc, costringeva senza violenza il potere a fare continuamente passi indietro. Lo stato d’assedio aveva soltanto peggiorato il disastro economico e le sue ripercussioni in seno al COMECON. E proprio quando il potere si apprestava a cedere, dando il riconoscimento legale a Solidarnosc, senza del quale la paralisi lo condannava a morte, l’entourage di Lech Walesa lo ha convinto a sedersi allo stesso tavolo dei falliti. In caso di rifiuto, cosa avrebbe potuto fare il potere? Gettare in galera e fucilare la gente di cui ha bisogno perché l’industria e l’agricoltura si rimettano in moto, con il rischio – inoltre – di non poter più contare sull’aiuto finanziario occidentale?
Il buon senso e il coraggio di Lech Walesa non gli impediscono di ignorare tutto dei retroscena internazionali. Non si è neppure accorto – cosa invece perfettamente nota alla polizia segreta polacca – che due su tre fra i suoi consiglieri sono semplicemente agenti dell’Internazionale socialista e dei liberal americani, fra i quali quelli della confederazione sindacale statunitense AFL-CIO, l’American Federation of Labour-Congress of Industrial Organisation. Con il pretesto della ragionevolezza, lo hanno portato a prendere parte a una tavola rotonda, che permette la ripresa del lavoro e la sopravvivenza del quadro comunista senza nessuna concessione valida per la controparte. Infatti, il risultato è questo: le votazioni “libere” promesse dal potere in occasione delle prossime elezioni legislative, indette per scegliere quattrocentosessanta deputati, permetteranno di portare il numero degli eletti del partito comunista dall’84% al 65%, mentre i candidati di Solidarnosc si divideranno il rimanente 35%. Così, anche se Solidarnosc ottenesse il 90% dei voti, avrà soltanto il 35% dei seggi; e il partito comunista, con il 10% dei suffragi, ne avrà il 65%! E questo viene chiamato pluralismo e democratizzazione…
Il marxista Adam Michnik ha per altro francamente fornito la chiave dello scenario; secondo lui la scelta polacca è fra:
– la guerra civile, l’apocalisse;
– l’“iranizzazione” (sic),cioè l’avvento al potere dei nazionalisti – cioè, dico io, della KPN, la Confederazione per una Polonia Indipendente, la sola realtà politica a dimensione nazionale -; certo, “con condizioni meno sanguinose che in Iran, ma è l’ultima cosa che auspico per il mio paese”;
– “la via spagnola”, cioè l’attuale compromesso fra comunisti e Solidarnosc per un lavoro comune (3):
L’odio di Adam Michnik per tutto quanto è cattolico e nazionale lo porta a istituire questo scandaloso paragone fra il regime guidato dall’ayatollah Ruollah Khomeini e quello che potrebbero instaurare patrioti che a milioni, fra il 1939 e il 1989, hanno subito – di persona o nelle loro famiglie – morte e deportazione. La sua “via spagnola” in realtà costituisce il modo per salvare dal fallimento definitivo il comunismo sovietico-polacco; e non è casuale che per la prima volta un organo di stampa dell’URSS, Tempi Nuovi, abbia presentato Lech Walesa sotto una luce favorevole, mentre David Rockefeller, di passaggio a Varsavia, si è fatto fotografare a fianco del sindacalista polacco. Ma gli strumenti d’informazione hanno generalmente taciuto che, nello stesso periodo, e precisamente il 28 febbraio 1989, il generale Wojciech Jaruzelski diceva ai suoi ufficiali riuniti a Bydgoszcz: “L’esercito polacco non tollererà mai la disintegrazione del comunismo in questo paese!”.
La chiave e il prezzo della manovra comunista
L’Europa Occidentale è destinata a pagare molto caro sia la sua sistemazione promessa entro quattro anni, sia la simbiosi più o meno evidente che permette ai comunisti di mantenersi al potere.
Per esempio, per confessione dello stesso ministro francese del Bilancio, Michel Charasse, la sola realizzazione dell’Atto Unico Europeo “costerà dai cinquanta ai settanta miliardi di franchi al bilancio francese”, cioè al contribuente … mentre per il 1993 gli viene promesso il paradiso! Rimane il fatto che, come scriveva Maurice Duverger su Le Monde all’inizio di marzo del 1989, i socialisti “devono attualmente definire i mezzi atti a conservare il modello socialdemocratico adattandolo alle realtà nuove”.
Essi pensano di farlo attraverso l’economia mista, cioè la loro manipolazione dall’alto dei settori pubblico e privato, manipolazione facilitata dal fatto che la mondializzazione dell’economia ha portato con sé enormi concentrazioni finanziarie, delle quali si può impedire l’egemonia politica soltanto con l’azione dello Stato socialista dove esiste, e dei socialisti dove – negli organismi internazionali come la CEE, la Comunità Economica Europea – detengono le leve del potere e la supremazia burocratica.
Certamente “il commercio organizzato non ha più attrattiva agli occhi dei liberal di quanta ne abbia la pianificazione centralizzata a quelli dei comunisti – notava di recente The Economist, di Londra –, ma se queste due nozioni derivano da ambizioni diverse, non differiscono assolutamente dal punto di vista dei princìpi economici”.
Il fatto è che, a questo proposito, il socialismo di Stato viene a coincidere tanto più facilmente con le prospettive del capitalismo mondialista perché i rispettivi sostenitori fanno parte degli stessi istituti, che operano nello stesso senso in vista di un Nuovo Ordine Economico: nella Commissione Trilaterale, al simposio permanente di Davos, in Svizzera, nonché, per la parte sovietico-americana, all’USTEC – l’USA-URSS Trade and Economic Council – e all’IREX – l’International Research & Exchanges Board, che organizza contatti, colloqui e progetti comuni con gli organismi politici, scientifici, culturali, linguistici ed etnici più importanti dell’Unione Sovietica -, e così via.
Come i mondialisti, l’URSS riconosce ormai l’inelutabilità e la conseguente necessità dei grandi mercati …, ma si pone già come unico difensore dei lavoratori di fronte alle multinazionali. Questo fatto spiega – per esempio – il moltiplicarsi degli incontri e delle concertazioni, da diversi mesi a questa parte, fra Henri Krasuki, segretario generale della CGT, la Confédération Générale du Travail, e i suoi omologhi dei sindacati comunisti di tutti i paesi d’Europa; e – ancora – fra i veri dirigenti del Partito Comunista Francese, alle spalle di Georges Marchais, e i loro omologhi europei occidentali e orientali.
Essi stanno predisponendo un apparato di coordinamento chiamato a scatenare, quando l’URSS darà il “via libera”, scioperi “di solidarietà” per settori di produzione o di attività, che potranno – se sarà necessario – sfociare in scioperi generali, sia per ragioni “sociali”, sia perché l’Unione Sovietica ha bisogno di distogliere l’attenzione dalle sue difficoltà interne attraverso la paralisi economica dell’Europa Occidentale, sia – finalmente – perché, in questo modo, l’Unione Sovietica intende ricordare ai compagni socialisti e ai loro consociati liberal che, dopo tutto, dal mantenimento dell’ordine nel loro campo hanno da guadagnare quanto l’URSS.
Né sarà questa la prima volta nella storia in cui la dirigenza del comunismo internazionale sacrificherà i lavoratori dell’Occidente agli imperativi della sua politica, e questi lavoratori, trotzkisti in testa, grideranno alla repressione.
La sovversione in Occidente all’ombra della “distensione”
Il 20 maggio 1987 Mikhail Gorbaciov faceva pubblicare sulla Pravda il suo ultimo discorso, una chiara perorazione per la sovversione in marcia nei paesi occidentali. Ecco il passo, certamente poco letto: “In questi due ultimi anni ho preso numerosi contatti, soprattutto con i rappresentanti dei partiti socialisti e socialdemocratici di diversi paesi, dall’Europa Occidentale al Giappone … Mi sembra che siamo riusciti a trovare un linguaggio comune … Abbiamo stretto legami molto solidi con numerosi partiti rivoluzionari democratici e con movimenti di liberazione nazionale, e stabilito contatti con i Verdi in diversi paesi … Le nostre organizzazioni sociali [sic] hanno regolari incontri con i rappresentanti di diversi movimenti pacifisti e altri …”.
Sbaglierebbe di grosso chi sottovalutasse proposizioni di questo tipo, come se si trattasse di semplice routine nei contatti sovietici.
Il 21 aprile 1983, quando Mikhail Gorbaciov dirigeva nel Politburo non soltanto gli affari segreti, alle dipendenze di Juri V. Andropov, ma anche i responsabili della manipolazione degli agenti più importanti all’estero – e all’epoca sono stato il solo ha svelare il suo ruolo -, in occasione dell’anniversario della nascita di Vladimir I. Lenin si esprimeva in questi termini: “I comunisti, i socialdemocratici, i cristiani, i liberali, le organizzazioni femminili e giovanili nel loro approccio alla lotta per la pace partono indubbiamente da posizioni politiche e ideologiche diverse, ma il loro fine è comune …”.
Nel 1989 come nel 1983 vi è continuità nella sovversione, sotto il suo controllo, con sviluppi attuali di cui non sembra preoccuparsi nessun deputato al Parlamento Europeo o a qualche parlamento nazionale: invece l’URSS, contrariamente a quanto fanno i dirigenti occidentali, non dimentica assolutamente che la “distensione” costituisce una copertura meravigliosa per lo sviluppo della sovversione.
Pierre Faillant de Villemarest
***
(1) Le Quotidien de Paris, 14-2-1988.
(2) Newsweek, 19-9-1988.
(3) Cfr. Liberation, 22-2-1989.