Pierre Faillant de Villemarest, Cristianità n. 170 (1989)
Gli ultimi sussulti di una variante del socialcomunismo
Dopo il viaggio in Cina del presidente degli Stati Uniti d’America, Richard Nixon, diciassette anni fa e precisamente nel febbraio del 1972, gli ambienti liberal e mondialisti speravano nella riuscita dell’esperimento avviato da Deng Xiaoping perché avrebbe fornito la prova – e il modello – di un comunismo vivibile all’interno e accettabile per i vicini.
Ma, a partire dal 25 luglio 1981, il CEI, il Centre Européen d’Information, avvertiva:“La Cina è uscita dal marxismo-leninismo per entrare in un nazionalsocialismo che non tollera un ordine interno diverso da quello del sessanta per cento dei quadri che seguono Deng Xiaoping e che hanno sostituito i potenti di ieri. Essa sa che, in cambio del suo stare al gioco della Commissione Trilaterale, può contare su questa per diventare un impero industrializzato nella stessa misura in cui lo è stato quello di Adolf Hitler… “.
Come previsto, l’apertura e il liberalismo economico non sono stati seguiti da nessun alleggerimento della pressione politica. Anno dopo anno si sono accumulate le ragioni di “implosione”, cioè di crollo del regime su sé stesso, mentre i progressi industriale e alimentare e il bisogno di un adeguato respiro intellettuale rimanevano sfasati.
La parte di economia diretta dallo Stato è passata dal novanta per cento negli anni dal 1976 al 1978 a meno del quaranta per cento all’inizio del 1989. Anche se rimangono difficoltà di distribuzione nella Cina Settentrionale e in quella Centrale, la penuria alimentare è venuta meno. Ci si può approvvigionare senza fare la coda come in Unione Sovietica. Da diversi anni il tasso di crescita annuale si mantiene, in media, attorno al + 8%. Ma il surriscaldamento dovuto alla crescita ha chiaramente creato diversificazioni enormi nei redditi. I contadini ritornati alla loro terra vivono bene e guadagnano dieci volte di più di un funzionario di altissimo rango. Gli operai qualificati e i capioperai guadagnano tre volte di più di un professore universitario o di un quadro che ha studiato per molti anni.
Un’informazione inedita sulla gioventù cinese
A un’inflazione salita nel 1988 fino al diciotto per cento, si è aggiunta una corruzione quasi generale di quella parte della Nomenklatura che ha saputo approfittare dell’apporto industriale e tecnico di centinaia di ditte straniere per incamerare, al momento giusto, considerevoli tangenti sui contratti. Per tacere di quanti posseggono automobili o autocarri, naturalmente non denunciati, e decuplicano i propri salari trafficando. Alle loro spalle sta “la gioventù”, avida di cultura politica, di sapere tutto quanto è stato a essa nascosto sul piano storico, di comprendere perché e come l’ex Celeste Impero, ricco di materie prime quanto l’Africa Meridionale di minerali rari, è in ritardo rispetto al resto del mondo di trenta o di quarant’anni.
In ascolto del mondo esterno attraverso le radio e le televisioni, questa gioventù conta nelle sue file, nel 1989, più di quarantamila studenti che hanno trascorso da uno a cinque anni nei paesi occidentali, e di questi ben trentamila negli Stati Uniti. Essi sono tornati affascinati e profondamente desiderosi di lavorare perché la Cina si elevi all’altezza delle sue pretese politiche.
Questa gioventù nazionalista ha compreso che il comunismo era invivibile, anche nella variante proposta da Deng Xiaoping.
Sondaggi comparsi nel giugno del 1982 sulla rivista dell’Università del Popolo, ed effettuati su mille studenti, erano adeguatamente indicativi di questo stato d’animo. Se il 51,07% di tali studenti, uomini e donne, diceva di studiare per “servire le quattro modernizzazioni”, cioè il programma riformista di Deng Xiaoping, se il 20,05% motivava il proprio entusiasmo negli studi con “la sete di sapere” e il 13,08% per “garantire il proprio avvenire”, quando arrivava la decima domanda, che suonava “Studiate per servire il comunismo?”, a questo punto soltanto lo 0,34% adduceva questo motivo.
Un sondaggio vale quel che vale, ma questo coincideva e confermava mille riflessioni che mi riferivano studenti e tecnici al loro ritorno da un soggiorno in Cina sufficientemente lungo. Per capire la gioventù che manifesta, e non smette di manifestare, è ugualmente opportuno notare che il settanta per cento dei quarantuno milioni di iscritti al Partito Comunista Cinese nel 1985 – attualmente sono quarantasei milioni – non aveva portato a termine i propri studi primari e dal nove all’undici per cento erano completamente analfabeti!
Nel luglio del 1985 ho segnalato questa realtà su La Vie Française, indicando la ragione principale di questo “buco”, cioè la Rivoluzione Culturale che, praticamente dal 1966 al 1975, ha bloccato gli studi primari e quelli secondari. Per contro, le generazioni che escono dalle scuole e dalle università dal 1978 portano alla Cina i quadri che a essa mancano, per quanto siano numericamente insufficienti. Perciò, se prima del 3 giugno 1989, dopo nove settimane di rivolta studentesca, molti generali rifiutavano di dare l’ordine di sparare, non accadeva solamente perché le loro figlie o i loro figli si trovavano fra i manifestanti, ma anche perché quelli che avrebbero potuto uccidere saranno, entro due o tre anni, quadri indispensabili per lo sviluppo del paese.
Un ultimo punto merita di essere segnalato per quanti non sanno cosa significa lottare contro il totalitarismo, soprattutto quando governano rugosi gerontocrati: gli studenti cinesi che hanno ispirato la rivolta, gli operai che si sono mescolati a loro in sette grandi città, sapevano che, perché non fosse spezzata fin dall’inizio, bisognava soprattutto non dire che non ne volevano più sapere del comunismo! Bisognava anche inneggiare a Mikhail Gorbaciov semplicemente per opporre un comunismo a un altro.
I personaggi al vertice del potere quando sono esplosi gli avvenimenti di maggio
Come si presentava l’alta dirigenza della Cina nel maggio del 1989, di fronte agli studenti?
Al vertice del Politburo, rimaneggiato nel novembre del 1987, troneggiavano cinque uomini, riuniti in Comitato Permanente sotto la guida di Deng Xiaoping, “modestamente” ritiratosi nella Commissione Militare del partito, una sorta di Consiglio di Difesa in realtà investito di tutti i poteri.
Nell’ordine gerarchico, definito dal governo di Pechino all’epoca e che ora richiamo per permettere confronti con il nuovo ordine che uscirà inevitabilmente dagli avvenimenti in corso a metà giugno del 1989, i cinque erano:
1. Zhao Ziyang, settantenne, segretario generale del partito, riformista protetto da Deng Xiaoping, quindi in contrasto con quest’ultimo a partire dal 1988 perché deciso a praticare un’apertura anche politica, almeno allo scopo di canalizzare il malcontento;
2. Li Peng, sessantenne, primo ministro, con alle spalle studi di ingegneria elettrotecnica a Mosca, sfuggito alla Rivoluzione Culturale, molto favorevole a un coordinamento della politica estera con l’Unione Sovietica, contrario a ogni apertura politica;
3. Qiao Shi, sessantacinquenne, vice primo ministro, dall’aprile del 1986 presiede al controllo e al coordinamento di tutti i servizi segreti e di polizia attraverso il GUANBU, la Polizia di Stato diretta dal cinquantunenne Jia Chunwang, diventato ministro nel 1985, e il GONGANBU, la Polizia Pubblica diretta da Wang Fang, nominato nell’aprile del 1987. Qiao Shi è stato in precedenza “numero due”, poi “numero uno” del Dipartimento dei Collegamenti Internazionali, quindi conosce perfettamente i partiti comunisti stranieri. Il 20 maggio 1989 si è astenuto, nel corso di una riunione del Politburo, quando si trattava di votare contro Zhao Ziyang. Il suo silenzio in maggio era significativo della crisi in corso nelle alte sfere, come pure del suo peso negli intrighi;
4. Hu Qili, sessantenne, incaricato della propaganda, era legato al riformista Yao Bang, al quale è succeduto Zhao Ziyang, e la cui morte e le cui esequie, nell’aprile del 1989, sono state il pretesto per lo scatenamento della rivolta studentesca. Nel luglio del 1985, il CEI aveva messo in evidenza l’opposizione da parte di Hu Qili nei confronti degli “ortodossi” che, per frenare l’apertura economica, volevano “un dibattito ideologico” prima di ogni decisione;
5. Yao Yilin, settantaduenne, professore universitario, iscritto al partito comunista dal 1935, economista e pianificatore, nel corso degli anni Trenta era agli ordini di Peng Zhen, un veterano nuovamente uscito da dietro le quinte nell’aprile del 1989 per opporsi a Zhao Ziyang. Negli anni Cinquanta Yao Yilin è stato responsabile del commercio con l’area costituita dall’Unione Sovietica e dai suoi satelliti, ed è legato a Chen Yun, altro anziano avversario del riformismo – ha ottantaquattro anni – e che ciononostante è stato fra i primi cinque dal 1978 al 1985. Yao Yilin caldeggia una concertazione permanente con Mosca.
Il Politburo è poi costituito da altri dodici membri titolari e da un membro supplente, e da questo organismo, durante la crisi in corso, sono venuti gli appoggi contro il riformismo e favorevoli alla repressione a sostegno del presidente della Repubblica Popolare Cinese, Yang Shangkun.
L’ottantaquattrenne Yang Shangkun è il cardine del dramma che ha preso l’avvio il 20 maggio 1989 e uno degli ultimi “28 Bolscevichi”, quelli che negli anni Venti e negli anni Trenta sono stati formati dall’Unione Sovietica e che poi assicuravano il collegamento con l’apparato del Komintern.
Responsabile dal 1945 al 1966 della direzione degli Affari Generali del Partito Comunista Cinese, animatore dopo il 1949 delle relazioni fra i governi di Pechino e di Mosca, nel 1966 Yang Shangkun è stato accusato “di spiare Mao per conto dell’URSS” ed è stato riabilitato soltanto nel 1978, quando Deng Xiaoping cercava di raccogliere il sostegno di tutte le tendenze in nome dell’unità del partito.
Discendente da una famiglia di ricchi proprietari, Yang Shangkun è invecchiato applicando a proprio vantaggio quei comportamenti nepotistici che aveva rifiutato in gioventù, cioè distribuendo cariche e prebende a cinque o sei membri della sua famiglia. Così suo fratello Yang Baibing è diventato dirigente politico dell’esercito e proprio lui, a partire dal 25 maggio 1989, di fronte alle esitazioni del capo di Stato Maggiore Chi Haotian – genero di Yang Shangkun -, ha assunto il comando della 27ª armata, quella che è stata richiamata dalle frontiere settentrionali per attuare a Pechino la repressione di cui i media hanno riferito i tragici episodi.
Yang Shangkun aveva nel Politburo alleati che si erano allineati con le riforme di Deng Xiaoping soltanto a parole, come il vecchio Chen Yun, Yao Yilin e Peng Shen, di cui Yang Shangkun era stato commissario politico nell’esercito nel corso degli anni Trenta.
Ma se questi ottuagenari hanno deciso di agire è accaduto perché, dalla fine di maggio del 1989, era evidente che Deng Xiaoping versava in gravissime condizioni di salute. Di contro, se la 38ª armata, di stanza a Pechino, ha rifiutato di operare la repressione e, dopo il 2 giugno, si è opposta alla 27ª armata e a contingenti della 28ª armata e del 315º reggimento, è successo perché i “riformisti” si sentivano liberati dal peso di Deng Xiaoping… al punto che il settantacinquenne Quin Jiwei, altro membro titolare del Politburo e ministro della Difesa, rifiutava di sostenere il colpo di Stato tentato da Yang Shangkun.
Di fatto, i diciassette membri titolari e il membro supplente del Politburo, di fronte alla rivolta studentesca, si sono divisi in due campi, mentre gli alti responsabili delle sette Regioni Militari esitavano fra l’uno e l’altro a seconda delle relazioni di famiglia e di clan.
Qualunque sia l’evoluzione della situazione in Cina, ho fornito punti di riferimento, ai quali aggiungo l’invito a guardarsi dalle analisi e dai giudizi di politici che non conoscono per nulla la psicologia dei cinesi e che sono disturbati dal corso preso dalla storia, mentre – per esempio in Francia – meritano attenzione i commenti del sinologo Jean-Luc Domenach. E delle analisi e dei giudizi dei politici si deve tanto più diffidare se fanno parte dei circoli mondialisti o filosovietici, i cui schemi interpretativi e le cui prospettive concordano nell’avversione a ogni fenomeno di risveglio nazionale.
Comunque, in sintesi, siamo davanti a un punto fermo: il comunismo non è assolutamente riformabile.
Pierre Faillant de Villemarest