Marco Respinti, Cristianità n. 215-216 (1993)
Intervista con padre Giulio Albanese M.C.CI.
Il 17 febbraio 1993, a Milano, nel Cinema Palestrina, Alleanza Cattolica ha organizzato un incontro sulla situazione in Sudan, invitando a portare la propria testimonianza un missionario comboniano, padre Giulio Albanese, a Brescia in attesa di partire per l’Uganda. Nato a Roma nel 1959, ha studiato teologia a Firenze, a Londra e a Kampala; sacerdote dal 1986, si è dedicato all’animazione missionaria in Italia; collaboratore di diverse riviste missionarie, è addetto stampa in Europa della Conferenza dei Vescovi Cattolici del Sudan. Egli ha potuto verificare di persona la tragedia in corso nel paese africano dilaniato dalla guerra che oppone il regime fondamentalista islamico — guidato dal 1989 dal generale Omar Hassan Ahmed el Bashir — alla popolazione del Meridione, composta da animisti e da cristiani. Nel corso di un viaggio nella parte meridionale del paese, nella primavera del 1992, ha girato, con Sergio Inselvini, un documentario di diciannove minuti intitolato Sudan, il dramma continua, pubblicato dalla EMI, l’Editrice Missionaria Italiana, di Bologna.
L’ho intervistato dopo la manifestazione.
D. Già nel 1964 una rivista italiana scriveva del Sudan Settentrionale “arabizzato” in conflitto con gli abitanti della regione meridionale del paese. Può descrivere le origini storiche e le cause dell’attuale conflitto in Sudan, le differenze etniche e religiose fra le diverse componenti della popolazione e il motivo — a suo avviso — del silenzio che circonda il conflitto sudanese?
R. Con un’estensione di circa 2.500.000 chilometri quadrati, il Sudan è il paese più vasto dell’Africa. I 25 milioni di persone che lo abitano sono suddivisi in seicento gruppi etnici e parlano oltre cento lingue diverse. Mentre gli abitanti delle regioni settentrionali sono di religione musulmana, quelli del meridione del paese — circa il 30% della popolazione totale — sono animisti o cristiani.
All’indipendenza, cioè dal 1° gennaio 1956, è seguita una serie di colpi di Stato, che hanno sempre portato al potere gruppi musulmani, il cui comune obbiettivo era l’islamizzazione del paese, nonostante l’estrema diversità etnica, culturale e religiosa che lo caratterizza.
A questo va fatta risalire l’origine del conflitto che, dal 1983 a oggi, insanguina il paese e ha portato morte, fame, distruzione e miseria a milioni di sudanesi. Infatti, le popolazioni delle regioni meridionali del Sudan non hanno mai accettato l’imposizione dell’islamismo da parte del governo di Khartoum. Ma il governo integralista islamico non si dà per vinto e sta usando tutti i mezzi per piegare la guerriglia organizzata nello SPLA, l’Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese, e per riconquistare così l’intero paese, dall’aiuto di reparti dell’esercito iraniano, disposti a combattere per la causa del Corano, all’embargo alimentare alle popolazioni meridionali, dalla tratta degli schiavi alla tortura dei prigionieri: queste sono alcune delle pratiche messe in opera dal regime fondamentalista sudanese per affermare la sharia, la “legge islamica”.
Secondo dati forniti da organizzazioni internazionali come la Croce Rossa e l’Unicef, nel Sudan Meridionale stanno morendo di fame circa dieci milioni di persone e il numero è destinato a crescere rapidamente, se non si troverà una soluzione diplomatica a livello internazionale. In questi ultimi tempi non è facile, per i convogli umanitari, raggiungere le popolazioni affamate del meridione, in quanto il governo di Khartoum considera quelle regioni come zona di guerra. Da circa un anno, cioè da quando è scattata una controffensiva governativa contro lo SPLA, è iniziato nel Sudan Meridionale un vero e proprio esodo di vecchi, di donne e di bambini verso il Kenya e verso l’Uganda. Ciò ha comportato il formarsi di campi profughi che, al momento attuale, vengono soprattutto assistiti dalla Federazione Luterana Mondiale e dalla Chiesa cattolica.
Ma non è tutto. In Sudan è in atto una vera e propria tratta degli schiavi. Testimoni oculari e osservatori internazionali riferiscono di milizie musulmane, Omars, armate dal governo centrale, che praticano la cattura sistematica di migliaia di bambini. Il traffico di schiavi è accompagnato da uccisioni, da rapine, da avvelenamento di pozzi e da razzie di bestiame, momenti di una strategia di atrocità mirante a indebolire la base del potere dello SPLA fra la popolazione. I ragazzi catturati vengono portati al nord, al mercato degli schiavi di Safra — Darfur —, dove sono messi all’asta come bestiame.
A Sumeih, gli schiavi sono mostrati ai finestrini del treno: la merce umana, venduta al miglior offerente, viene scaricata, poi adibita a pesanti lavori nei campi, ai servizi domestici, mentre delle ragazze — spesso bambine — si fanno concubine. Il prezzo di un ragazzo va dai 10 ai 100 dollari. Sei ragazzi possono essere acquistati per il prezzo di un mitragliatore, come quello che ha massacrato i loro genitori, così destinandoli alla schiavitù. Gli schiavi che non si convertono all’islam sono sottoposti al taglio dei tendini dei garretti. Schiavi sottrattisi alla tortura parlano di torture e di mutilazioni inflitte a volte senza ragione.
In una conferenza stampa rilasciata il 6 ottobre 1992 a Roma, i vescovi sudanesi hanno denunciato il dramma del loro popolo, della loro Chiesa e hanno auspicato un intervento internazionale a tre livelli: politico, informativo e umanitario.
D. Secondo quanto lei ha sostenuto anche in articoli comparsi sulla stampa missionaria italiana, l’attuale regime di Khartoum sarebbe un regime fondamentalista islamico favorito dall’indifferenza — quando non dalla connivenza — dei governi e delle diplomazie occidentali. Durante la conferenza, ha anche detto che, ultimamente, le diplomazie occidentali sembrano aver assunto un atteggiamento più fermo nei confronti del governo sudanese, forse perché impaurite dal progetto islamico, che vorrebbe fare del Sudan una “testa di ponte” per la penetrazione del fondamentalismo nel resto dell’Africa. Se questo fatto è vero, quali mutamenti può comportare, a breve e medio termine, nel conflitto sudanese?
R. Nessuno può misconoscere l’esistenza, fino a qualche mese fa, di una vera e propria cortina di silenzio sul caso sudanese. Qualcuno dirà che la gravità delle situazioni somala e jugoslava ha distolto i mass media del dramma sudanese. Purtroppo la verità è ben diversa. Sia i governi europei che quello degli Stati Uniti d’America hanno preferito tacere per anni. È inutile nasconderlo: i loro interessi li hanno indotti a scegliere di stare alla finestra, nel timore di rompere con un intervento i già difficili equilibri con il mondo arabo. La stampa scrive e la televisione parla non per motivazioni umanitarie, ma sulla base degli interessi economici delle multinazionali e dei giochi politici delle grandi potenze. In Sudan vi è sì un popolo di disperati, ma vi è pure una sterminata riserva di ricchezze minerarie, petrolifere e agricole, e i “padroni dell’informazione” si curano solo di queste. E sembrano in sostanza convinti che, prima o poi, questa tragedia finirà, ma che, comunque, la carta vincente sarà sempre nelle mani dei fondamentalisti di Khartoum, che sarcasticamente impongono un totale silenzio sulla vicenda. Però, sul piano strettamente politico qualcosa si sta muovendo, soprattutto da quando le diplomazie occidentali si sono rese conto che il Sudan sta diventando il rifugio del fondamentalismo islamico. Per esempio, il terrorista palestinese Abu Nidal sembra sia a Khartoum, mentre è certo che il goveno sudanese ospita nel paese gruppi integralisti quali i Fratelli Musulmani egiziani. Sempre a questo riguardo, va notato che, se il Congresso degli Stati Uniti d’America, il Parlamento Europeo e l’Organizzazione delle Nazioni Unite hanno condannato in questi mesi il regime sudanese per le violazioni dei diritti umani, per il momento la situazione interna al Sudan rimane invariata ed è difficile valutare quali ne saranno gli sviluppi.
D. La visita di Papa Giovanni Paolo II a Khartoum, svoltasi il 10 febbraio 1993, ha “squarciato” per qualche giorno la cortina di silenzio, che ha sempre coperto la “questione sudanese”. Si è trattato di un semplice episodio senza conseguenze, oppure ha innescato un processo di cambiamenti effettivi? Inoltre, quali conseguenze ha provocato nella Chiesa sudanese? E — ancora — cosa può dirci dell’atteggiamento molto fermo dell’episcopato sudanese, che sembra farsi carico di tutta la popolazione sofferente, e non soltanto della minoranza cattolica?
R. Il 10 febbraio scorso, nella Green Square di Khartoum, era assiepata una folla immensa — vi è chi parla di oltre un milione di persone —, accorsa da ogni parte per assistere alla Messa celebrata da Papa Giovanni Paolo II. A mio avviso si è trattato di un gesto molto coraggioso. L’arcivescovo della capitale sudanese, S. E. mons. Gabriel Zubeir Wako, a nome della Conferenza dei Vescovi Cattolici del Sudan, ha dato il benvenuto al Papa e ha espresso a chiare lettere il lamento di un popolo, che chiede da anni il riconoscimento dei propri diritti. “È difficile descrivere l’entusiasmo della gente”, mi ha confidato un funzionario della Segreteria di Stato: “Di fronte avevamo il popolo d’Israele che invocava la liberazione dalla schiavitù d’Egitto”. I cristiani erano la maggioranza, anche se fra la folla vi erano pure diversi musulmani. Sul tetto della tribuna d’onore erano piazzate delle mitragliatrici, puntate sulla gente… un monito silenzioso più che eloquente. Il Papa è stato chiaro e, nonostante le pressioni messe in atto prima della sua visita, ha chiesto con forza al regime fondamentalista del generale Omar Hassan Ahmed el Bashir di rispettare i diritti umani, compresa la libertà di culto. Particolarmente commoventi sono stati i suoi riferimenti alla beata Bakhita, che sperimentò a suo tempo lo stesso calvario vissuto oggi dal1a Chiesa sudanese. “Le sue parole — ha detto un missionario comboniano — ci hanno incoraggiato. Avevamo bisogno, in particolare, che qualcuno richiamasse l’attenzione dei mass media sulla tragica situazione di questo paese. Il Papa vi è riuscito!”.
Però, se la visita pontificia ha portato alla ribalta il Sudan, in questi giorni, leggendo la stampa italiana, si ha l’impressione che si sia trattato di un fuoco di paglia. Solo alcune testate, a distanza di pochi giorni dall’avvenimento, ne parlano ancora e sempre, comunque, marginalmente. Eppure in quella terra dieci milioni di persone stanno letteralmente morendo di fame a causa di una guerra civile che si trascina da ben dieci anni. Da parte sua, Radio Ondurman, l’emittente governativa, ha commentato la Messa del Papa più che furbescamente dicendo che il “Capo dei Cristiani” era venuto da Roma per benedire la sharia… Sarà mai possibile dialogare con un regime così ostinato? Ma, forse, qualche segno di speranza si sta profilando all’orizzonte. Infatti, alla fine di febbraio del 1993, a Entebbe, in Uganda, una delegazione del governo di Khartoum ha incontrato il leader storico dello SPLA, John Garang. L’iniziativa, promossa dal presidente ugandese Yoweri Museveni, sembra promettere bene. Secondo indiscrezioni trapelate dalla Santa Sede, l’incontro di Entebbe sarebbe stato preparato dietro le quinte dalla diplomazia vaticana. Sta di fatto che le due parti in causa hanno promesso che si rivedranno prossimamente in Nigeria, per trattare condizioni di pace. Speriamo facciano sul serio!
a cura di Marco Invernizzi