A Roma, dal 27 al 29 aprile 2006, presso la Pontificia Università della Santa Croce, si è tenuto il V Seminario Professionale sugli Uffici Comunicazione della Chiesa dal titolo Direzione strategica della comunicazione nella Chiesa: nuove sfide, nuove proposte, organizzato dalla Facoltà di Comunicazione Istituzionale dell’ateneo ospitante. Il 28 aprile al seminario — dei cui atti è prevista la pubblicazione nel mese di ottobre del 2006 da parte di EDUSC, le Edizioni Università della Santa Croce — è intervenuto S. E. mons. Angelo Amato S.D.B., arcivescovo titolare di Sila, segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede. Per gentile concessione degli organizzatori il contributo del presule viene pubblicato integralmente e con il titolo originale, con interventi redazionali esclusivamente relativi alle note, uniformate secondo gli standard appunto redazionali.
1. Il Magistero come insegnamento autorevole
John L. Allen Jr, vaticanista del National Catholic Reporter, nella sua rassegna on line del 7 aprile 2006, riferisce di una conversazione tenuta ad Austin (Texas) il 4 aprile 2006 con un gruppo di studenti cattolici della locale università.
La principale lamentela di questi giovani concerneva la richiesta di una comunicazione moderna da parte della Chiesa; “moderna”, non nel senso di cambi dottrinali o di riforme strutturali, ma nel senso di alta qualità tecnologica e di saggezza pratica nel dibattito culturale.
Ad esempio, Ricardo Gutierrez, uno studente di microbiologia di 20 anni, diceva che se egli fosse diventato papa per un giorno, la sua principale priorità sarebbe stata l’informazione. E precisava questa sua idea, dicendo che la Chiesa ha tutte le ragioni per il suo insegnamento, ma per conoscere queste ragioni o devi parlare con un prete o devi leggerti un libro: sull’omosessualità, ad esempio, il problema non è che la Chiesa non abbia i suoi argomenti per non essere d’accordo, ma la gente non sa quali siano questi argomenti (1).
In questa conversazione emergono alcune richieste alla comunicazione della fede da parte della Chiesa e nella Chiesa: più alta qualità tecnica, maggiore attenzione al confronto culturale e soprattutto maggiore diligenza nella comunicazione delle ragioni che motivano i pronunciamenti dottrinali del Magistero.
Essendo un teologo, confesso che non sono un esperto di mezzi di comunicazione sociale. Ma, come pastore, prendo in grande considerazione le lamentele degli studenti di Austin e l’obiezione di Ricardo Gutierrez.
Il tema del rapporto tra Magistero e media, quindi, non solo mi incuriosisce, ma lo ritengo di grande rilevanza teologica e pastorale. L’annuncio, infatti, del Vangelo fatto dalla Chiesa all’umanità contemporanea è ancora oggi una buona notizia per la felicità e la concordia dell’umanità intera e per la promozione e il compimento di tutti i talenti che Dio Creatore ha donato a ogni persona umana. Perciò è necessario che questo annuncio sia fatto in modo ottimale ed efficace.
Questo mio intervento, più che un discorso sistematico, contiene alcune considerazioni sparse — di tipo dottrinale, ma anche di indole pratica — che sono frutto di esperienza concreta nella comunicazione del Magistero della Chiesa.
Richiamo qui subito qualche nozione preliminare, non tanto sul significato e sul valore dei media, quanto piuttosto sul termine “Magistero della Chiesa”, che racchiude in sé il concetto di comunicazione di un insegnamento autorevole, da accogliere con docilità nell’obbedienza della fede.
“L’ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo” (2).
Il Magistero — continua la Dei Verbum — “non è al di sopra della Parola di Dio, ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente la ascolta, santamente la custodisce e fedelmente la espone, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio” (3).
Il Magistero, il cui soggetto è l’intero collegio episcopale in unione con il Sommo Pontefice, è quindi il solo autorizzato a interpretare autenticamente la Parola di Dio, nei cui confronti ha un quadruplice compito: ascoltarla, custodirla, esporla con fedeltà, proporla all’accoglienza dei fedeli.
Magistero e comunicazione sono, quindi, in stretta relazione, dal momento che spetta al Magistero interpretare con fedeltà e comunicare con autorità ai fedeli la Parola di Dio.
A questo ministero di comunicazione autentica e autorevole della Parola di Dio da parte del Magistero corrisponde da parte dei fedeli un atteggiamento di docile accoglienza: “I fedeli, memori della Parola di Cristo ai suoi Apostoli: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc. 10, 16), accolgono con docilità gli insegnamenti e le direttive che vengono loro dati, sotto varie forme, dai Pastori” (4).
Senza addentrarci nelle teorie giuridiche e teologiche implicate nel tema della recezione (5), abbiamo delineato con semplicità il “dover essere” della relazione tra il Magistero del Papa e dei Vescovi e l’accoglienza “docile” — chiamata anche “recezione” — di tale insegnamento da parte dell’intero popolo di Dio, che nell’adesione al depositum fidei persevera nella dottrina degli Apostoli, nella comunione, nella preghiera, nella testimonianza e nella professione della fede.
2. Una cultura postmoderna tendenzialmente manipolatrice della realtà
In realtà, non sempre la situazione concreta corrisponde a questo ideale, dal momento che ci sono condizioni che ne intralciano l’attuazione. Tali ostacoli, sono, ad esempio, la cultura contemporanea, chiamata anche postmoderna; un certo affievolimento nei fedeli — spesso anche nei teologi — del sentire cum Ecclesia; una diffusa ignoranza della storia della Chiesa e della teologia. Tutto ciò porta a una recezione debole o addirittura al rifiuto del Magistero.
1. La comunicazione del Vangelo oggi non solo viene ostacolata da vere e proprie persecuzioni — nel mondo ci sono ancora oggi cristiani ai quali è negata la libertà di professare la propria fede sotto pena di carcere o di morte — ma soprattutto dal pensiero debole della cultura postmoderna, che rifiuta il pensiero forte della rivelazione cristiana.
Ad esempio, la proposta antropologica cristiana di presentare l’uomo e la donna come immagine di Dio e di interpretare l’esistenza umana come pellegrinaggio per giungere a una perfetta comunione con Dio Trinità viene fortemente avversata da un pesante clima di cultura nichilista, relativista, biotecnologica, insegnata non solo nelle aule universitarie, ma capillarmente diffusa con martellante insistenza dai mezzi di comunicazione di massa e assorbita dalla cosiddetta “gente comune”.
L’interpretazione nichilista considera l’uomo un individuo senza qualità e senza finalità, ripiegato su se stesso, la cui esistenza, radicalmente inconsistente e insensata, sarebbe una corsa verso il nulla assoluto (6). L’annuncio cristiano sarebbe quindi una proposta impossibile per questo uomo senza identità e senza meta.
Quasi a fare da contrappeso al nichilismo, abbiamo la nebbia relativista, che presenta all’uomo uno spettro infinito di proposte e di realizzazioni “sensate”, la cui molteplicità è pari alla loro inconsistenza, dal momento che anche il relativismo è un allontanamento radicale dall’essere, dal vero e dal bene. L’atteggiamento relativistico nega l’esistenza di una verità. La verità sarebbe una chimera inafferrabile. Prevale l’opinione, per cui ciò che è vero per alcuni non lo sarebbe per altri e ciò che è vero oggi non lo sarebbe domani. L’uomo sarebbe un essere senza verità, semplicemente in balia delle mille opinioni, inclusa la sua.
Anche la rivoluzione biotecnologica porta in sé una sempre più forte carica distruttiva: “All’idea forte della natura umana, considerata immutabile perché creata da Dio, si è sostituita […] l’idea debole di una natura umana considerata manipolabile, perché prodotta dalla biotecnologia. La conseguenza terribile di questa trasformazione è che tutto ciò che è “fatto” può essere anche “disfatto”” (7).
Se l’uomo non è procreato ma clonato, diventa una fotocopia dell’uomo e non un dono di Dio. Se l’uomo è trasformato in similmacchina, si ammira la potenza della macchina, ma si dimentica l’onnipotenza di Dio.
Di fronte a queste aberrazioni antropologiche, si deve riaffermare la concezione dell’uomo come persona e come immagine di Dio. Una scienza che nega l’umanità dell’uomo costruisce un uomo non-uomo, ridotto a semplice prodotto e materiale biologico. La scienza alla quale oggi si attribuisce il compito di risolvere ogni problema umano, cancellando ogni riferimento religioso, fa uso di un concetto ridotto di vita, che consisterebbe nella pura e semplice vita biologica, senz’altro significato e valore che superi la pura e semplice funzionalità degli organi umani. L’uomo viene ridotto a materia prima. La individualità della vita personale è diluita nella genericità della vita biologica, nella funzionalità organica delle sue “parti separate”: “Se l’uomo è ridotto a un prodotto della biologia, tutti lo possono manipolare e non è più inviolabile, mentre se è una persona, rimane un mistero che tutti devono rispettare nella sua trascendenza” (8).
2. A questa sfida culturale postmoderna si aggiunge ancora l’affievolimento nei fedeli di quel senso ecclesiale, che i santi qualificavano come amare Ecclesiam et sentire cum Ecclesia. Il Magistero, invece di essere considerato comunicazione della verità di Dio sull’uomo e sulla sua salvezza, viene non rare volte considerato come semplice opinione e come tale arbitrariamente disatteso, contrastato, rifiutato. Viene a mancare l’obbedienza della fede e la fiducia nella efficacia della Parola di Dio per illuminare la nostra storia personale e comunitaria. Alla verità di Dio si preferisce l’opinione dell’io. Questo appare chiaramente nei dibattiti televisivi, quando su un argomento intervengono molti interlocutori, tra cui anche, ad esempio, un sacerdote. L’opinione del sacerdote cattolico — dal mio punto di vista preferirei un laico cattolico, ben preparato — viene livellata a quella di tutti gli altri, perché il dibattito non intende puntare alla verità, ma solo enunciare opinioni, senza una loro adeguata valutazione.
3. Infine, bisogna considerare l’estrema povertà culturale di buona parte dei fedeli cristiani, che spesso non sanno dare le ragioni della propria speranza. Non si può spiegare diversamente lo strano successo di un romanzo pervicacemente anticristiano, come il Codice da Vinci, pieno di calunnie, offese ed errori storici e teologici nei confronti di Gesù, dei Vangeli, della Chiesa. Calunnie, offese ed errori che se fossero stati indirizzati al Corano o alla Shoah avrebbero provocato giustamente una sollevazione mondiale; rivolti, invece, alla Chiesa e ai cristiani rimangono impuniti. Penso che in questi casi i cristiani dovrebbero essere più sensibili al rifiuto della menzogna e della diffamazione gratuita. Ricordo che, nel 1988, trovandomi in quel tempo a Washington D.C., ci fu la proiezione del film L’ultima tentazione di Cristo, di Martin Scorsese. Il film, estremamente noioso e improbabile, non solo fu contestato vivacemente perché storicamente falso, ma fu anche boicottato ai botteghini, ricevendo una meritata bocciatura economica.
Per venire incontro a questa perdita di identità cattolica, il Santo Padre ha donato alla Chiesa il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, il libro dei due Papi, perché voluto da Giovanni Paolo II e realizzato da Benedetto XVI. Il Compendio — di cui è stata appena pubblicata l’edizione inglese — offre in sintesi il quadro completo ed essenziale della fede, professata, celebrata, vissuta e pregata. È stato il primo dono prezioso del magistero di Benedetto XVI, grande teologo ma anche saggio pastore e sommo catechista.
4. Cultura nichilista, relativista, biotecnologica formano una corrosiva miscela di pensiero che pervade tutta la nostra esistenza e soprattutto la mente dei giovani. Appare ancora oggi di grande saggezza quanto Clive S. Lewis affermava nelle Lettere di Berlicche, in cui il diavolo Berlicche istruisce il nipote Malacoda, anch’esso diavolo custode, preposto alla dannazione di un giovane sulla terra: “Il tuo giovanotto è stato abituato, fin da ragazzo, ad avere nella testa una dozzina di filosofie irriconciliabili fra di loro, che danzano insieme allegramente. Non considera le dottrine come, in primo luogo, “vere” o “false”, ma come “accademiche” o “pratiche”, “superate” o “contemporanee”, “convenzionali” o “audaci”. Il gergo corrente, non la discussione, è il tuo alleato migliore per tenerlo lontano dalla Chiesa” (9).
Berlicche suggerisce inoltre di chiamare l’opinione corrente, i giornali, come “”la realtà della vita”, senza permettere che si chieda che cosa intende dire quando dice “realtà”” (10). Stia lontano il suo protetto dalla vera scienza, perché questa incoraggerebbe il giovane a pensare alla realtà che non può toccare né vedere. Lo mantenga piuttosto nell’economia e nella sociologia, che gli permettono di avere in mano la “realtà della vita”.
Bisogna ammettere che oggi spesso ci sembra di vivere in una specie di realtà virtuale, che non corrisponde alla verità e all’evidenza delle cose, ma che viene prodotta dalla cabina di simulazione degli opinionisti e degli operatori dei mass media. Si crea cioè un ologramma che non esiste nella realtà delle cose, ma che è frutto di manipolazione delle persone, degli eventi, della storia.
Il Vangelo, invece, non è un prodotto della mente umana ma la decifrazione divina della realtà dell’uomo e del cosmo. Il Vangelo è il libro della verità, perché Gesù in persona è la Verità tutta intera.
È chiaro che il Magistero, riproponendo la verità evangelica, la verità rivelata dal Figlio di Dio incarnato, trovi ostacoli non tanto nella comunicazione, quanto piuttosto nell’accoglienza, nella recezione del suo insegnamento, come espressione della verità di Dio sulla nostra esistenza, sulle nostre scelte etiche, sui nostri aneliti di libertà e di gioia.
Giovanni Paolo II accennava a ciò quattro anni fa, nell’accogliere la Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede: “[…] ritengo opportuno soffermarmi innanzitutto sul problema della recezione dei documenti dottrinali, che la vostra Congregazione va progressivamente pubblicando, quale organismo prezioso a servizio del mio ministero di Pastore universale. Al riguardo, vi è innanzitutto un problema di assimilazione dei contenuti dei medesimi e di collaborazione nella diffusione e nell’applicazione delle conseguenze pratiche che ne scaturiscono […].
“Ma vi è poi un problema di trasmissione delle verità fondamentali, che questi documenti richiamano, a tutti i fedeli, anzi a tutti gli uomini ed in particolare ai teologi, agli uomini di cultura. Qui la questione si fa più difficile ed esige attenzione e ponderazione. Quanto incide su queste difficoltà di recezione la dinamica dei mezzi di comunicazione di massa? quanto rileva da situazioni storiche particolari? o quanto semplicemente nasce dalla difficoltà di accogliere le severe esigenze del linguaggio evangelico, che pure ha una forza liberatrice?” (11).
3. La difficile recezione mediatica del Magistero
Per fare un esempio di questo insieme di difficoltà ci si può riferire al caso della Dichiarazione Dominus Iesus (= DI) della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Sin dalle prime ore della sua pubblicazione, avvenuta il 5 settembre 2000, la Dichiarazione suscitò reazioni incontrollate e, per la maggior parte dei casi, polemiche. Il Cardinale Cahal B. Daly, arcivescovo emerito di Armagh (Irlanda), ha descritto bene il meccanismo dell’odierna comunicazione, che è, sì, immediata, ma, come in questo caso, poco veritiera (12).
Di fronte a un documento teologico, breve ma denso e articolato, i mezzi di comunicazione sociale non colsero la tematica evangelica centrale, che era quella dell’universalità salvifica di Cristo e della Chiesa, ma posero l’accento su poche affermazioni e tematiche ecumeniche, ritenute di sicuro impatto polemico.
Senza offrire al lettore un quadro completo della DI, i lanci di agenzia e i primi articoli della stampa internazionale presentarono la Dichiarazione con toni allarmati circa la fine del dialogo interreligioso ed ecumenico, usando i soliti stereotipi linguistici di “chiusura”, di “ritorno alla teologia preconciliare”, di “antiecumenismo”. Un noto quotidiano della East Coast americana addirittura scriveva che la DI non soltanto declassava i protestanti, ma negava loro il regno dei cieli, indipendentemente dalle loro buone intenzioni e dalla loro retta vita.
Sono solo alcuni esempi di stravolgimento e di vera falsificazione del contenuto del documento, che hanno influito negativamente sulla sua recezione.
Geoffrey Wainwright, presidente del comitato ecumenico del World Methodist Council, racconta che, non appena ebbe appreso la notizia della pubblicazione del documento vaticano, si portò subito sul sito web della Santa Sede e, come c’era da aspettarsi, si accorse che il documento era stato mal presentato (13).
La conclusione è, da una parte, una innegabile dose di superficialità e, dall’altra, una forte capacità di influsso, quasi a confermare l’asserto che nei media più si è superficiali più si è efficaci.
Ovviamente questo primo impatto negativo influì anche sulla comprensione della Dichiarazione da parte dei teologi i quali, per non essere da meno dei giornalisti, ebbero un atteggiamento piuttosto titubante, che andava dall’accoglienza (in pochi), alla recezione critica e al rigetto totale (in molti).
Il rimprovero principale che veniva mosso alla DI — e in genere ai documenti del Magistero — era il linguaggio dottrinale, privo di pastoralità e di efficacia comunicativa.
A un esame attento delle obiezioni emerge che, in realtà, non è il linguaggio che fa problema, ma il suo contenuto di fede. Il linguaggio del Magistero è sobrio, fondato sulla Sacra Scrittura, comprensibile a tutti. È il linguaggio corrente di un uomo di media cultura.
Nel 457 dopo Cristo, quando l’imperatore Leone I, dopo il Concilio di Calcedonia, inviò a tutti i partecipanti al Concilio una lettera per sapere cosa pensavano della formula di fede cristologica, uno dei Padri conciliari, il vescovo Evippos, rispose che il suo atteggiamento, condiviso anche dagli altri, era stato non di tipo filosofico, ma di indole pastorale: “haec ergo breviter piscatorie et non aristotelice suggessimus”, “abbiamo fatto le nostre proposte come pescatori di anime e non come filosofi aristotelici” (14).
Il linguaggio pastorale, però, non significa comunicazione banale o di basso profilo teologico, ma comunicazione precisa e di alta qualità dottrinale, così come fu per la formula calcedonese, che rimane a tutt’oggi una delle espressioni più sintetiche e chiare del mistero di Cristo, come unica persona in due nature. Del resto è stata questa anche la lezione del Vaticano II, un concilio certamente pastorale ma anche profondamente dottrinale — si vedano, al riguardo, le quattro costituzioni — a dimostrazione che una corretta comunicazione dottrinale promuove una sana e creativa pastorale e che la pastorale senza una solida dottrina si dissolve in un vuoto praticismo.
Un esempio recente è dato da Benedetto XVI, grande teologo, ma anche grande pastore, la cui comunicazione è comprensibile a tutti, grandi e piccoli, come dimostrano anche le sue catechesi dialogate ai sacerdoti, ai giovani, agli stessi bambini, in una memorabile serata d’ottobre del 2005 sul sagrato della Basilica di San Pietro. Alla piccola Livia, che gli chiedeva: “[…] devo confessarmi tutte le volte che faccio la Comunione? Anche quando faccio gli stessi peccati?” (15), il Papa rispondeva: “È vero, di solito, i nostri peccati sono sempre gli stessi, ma facciamo pulizia delle nostre abitazioni, delle nostre camere, almeno ogni settimana, anche se la sporcizia è sempre la stessa” (16).
4. La recezione come evento ecclesiale
L’episodio della recezione difficoltosa della Dominus Iesus non è un incidente di percorso. Giovedì, 22 novembre 2001, al TG2 della televisione italiana delle 20.30, molto ridotto perché subito dopo c’era una partita internazionale di calcio, nel presentare l’ultima notizia, relativa all’esortazione postsinodale Ecclesia in Oceania, la conduttrice disse poche parole concludendo: il Papa chiede perdono per gli errori dei missionari e per gli abusi sessuali commessi dai sacerdoti. La comunicazione dell’intero documento era stata ridotta agli errori e agli abusi sessuali dei sacerdoti.
Anche qui, si è trattato di una vera e propria manipolazione e falsificazione di un documento. Del resto, la stessa cosa capitò al lancio del Catechismo della Chiesa Cattolica, il cui contenuto fu banalmente semplificato alla sola discussione sulla pena di morte e sulla guerra giusta.
In questi casi, il vero tema religioso dei documenti, il mistero di Dio e della nostra salvezza, l’azione evangelizzatrice della Chiesa, non vengono mai evidenziati.
Dal momento che il testo magisteriale non viene riportato per intero e dal momento che si scelgono solo quei punti, spesso secondari, che possono fare scandalo o suscitare polemiche (e qui si nota una tecnica raffinata di falsificazione e riduzione del contenuto, pur citando la lettera del testo), occorre allora una riflessione adeguata, sull’opportunità o meno di dare il documento alla stampa, prima ancora che ai vescovi, ai sacerdoti e ai fedeli della Chiesa intera, ai quali i documenti in fin dei conti sono principalmente rivolti.
Del resto è stata questa la modalità di pubblicazione del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, che ha rappresentato una novità. La presentazione del Compendio non ha avuto luogo in un incontro con i giornalisti nella Sala Stampa della Santa Sede, ma nella Sala Clementina, durante la celebrazione liturgica dell’Ora sesta, alla presenza di Cardinali, Vescovi, di fedeli e catechisti di tutto il mondo. È una scelta che qualifica la recezione del Compendio non come un fatto primariamente mediatico, ma come un evento ecclesiale, che richiedeva un clima di preghiera e di accoglienza nella fede di questo “dono divino”: “Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica — così il Santo Padre Benedetto XVI nel suo discorso —, che oggi ho la grande gioia di presentare alla Chiesa e al mondo, in questa Celebrazione orante, può e deve costituire uno strumento privilegiato per farci crescere nella conoscenza e nell’accoglienza gioiosa di tale dono divino” (17).
Come evento di Chiesa il Compendio non doveva essere la notizia di un giorno solo, come sono in genere le notizie giornalistiche, ma doveva essere, invece, la buona novella che illumina e guida i giorni e le opere dei pastori e dei fedeli di tutto il mondo. Il momento di preghiera stava a indicare che il Vicario di Cristo celebrava un evento di grande valenza spirituale e pastorale all’inizio del suo magistero petrino.
Il documento, essendo un fatto ecclesiale, deve essere vissuto non come un caso mediatico accompagnato da toni sensazionalistici o scandalistici, ma come un importante evento di Chiesa, come esperienza di formazione, di evangelizzazione, di catechesi.
La parola del Papa, e tutti gli altri pronunciamenti del magistero, oltre che un avvenimento “consumistico” della stampa quotidiana, deve essere visto soprattutto come un insegnamento, che tende a formare la coscienza cristiana.
Il tema della recezione pone, quindi, una questione sostanziale di comunicazione ecclesiale, che dovrebbe avere le seguenti note: essere autorevole, immediata, corretta, convincente, positiva. Altrimenti, documenti elaborati con somma cura e largamente condivisi dai pastori e dai fedeli, vengono completamente stravolti dalle agguerrite agenzie di stampa.
5. La recezione del magistero come “evento catechetico-pastorale”
Come accogliere un documento magisteriale e come trasformarlo in opportunità catechetico-pastorale e in formazione permanente del fedele?
Propongo qui alcune considerazioni riservate alla stampa cattolica, nazionale, diocesana, parrocchiale e alle migliaia di pubblicazioni religiose di congregazioni o di associazioni di fedeli.
Anzitutto la stampa cattolica non deve appiattirsi sull’agenda laica, seguendo la corrente degli eventi religiosi “creati ad arte” dall’esterno. Mi riferisco, ad esempio, al lancio esasperato del Codice da Vinci, all’apocrifo Vangelo di Giuda, alle mille interviste su importanti questioni bioetiche.
Né la stampa cattolica deve essere autolesionista, demolendo dall’interno le indicazioni magisteriali, ad esempio, sul sacerdozio delle donne, sull’aborto, sulla difesa dell’embrione, sul celibato sacerdotale. Se ospita, ad esempio, opinioni contrarie al celibato sacerdotale nella Chiesa latina, dovrebbe sullo stesso numero dare le ragioni convincenti che motivano il significato di questa tradizione. Non lasciare la difficoltà senza una dovuta risposta, altrimenti sembra che l’indicazione magisteriale sia una opinione che si può condividere o meno.
Inoltre, la stampa cattolica dovrebbe avere una duplice attenzione: quella rivolta alle novità e quella rivolta alla formazione continua.
Occorre cioè che la comunicazione religiosa cattolica tenga conto dell’attualità delle notizie, ma con una precisa peculiarità. Se nella stampa laica il fatto viene presentato in modo polemico o in modo cosiddetto “dialogico” (uno dà una interpretazione e l’altro ne dà una diametralmente opposta) ma in realtà “altamente problematico”, nella stampa cattolica lo stesso fatto dovrebbe essere analizzato in base a un atteggiamento di ricerca e di comunicazione della verità.
A proposito, ad esempio, della scoperta e della recente pubblicazione del Vangelo di Giuda, la stampa cattolica non può limitarsi a dare la notizia, come se si trattasse di una nuova e radicale reinterpretazione del cristianesimo. Con la competenza di studiosi esperti di antichità cristiana deve, invece, offrire ai lettori quegli elementi per comprendere che si tratta di un vangelo apocrifo, conosciuto dai Padri ma non accolto, insieme a tanti altri, dalla Chiesa primitiva, perché dava un resoconto falso della figura di Giuda, non corrispondente alla realtà dei fatti. In tal modo si offrono ai fedeli cattolici le risposte alle loro domande, ai loro dubbi e soprattutto alle contestazioni altrui.
La seconda attenzione è quella della formazione, che implica una agenda creativa, di alta qualità culturale e soprattutto di profonda educazione alla fede. La tradizione cristiana ha duemila anni di civiltà con una biblioteca amplissima da visitare e riproporre: i Padri della Chiesa, i grandi teologi di ogni tempo, i santi, le scuole di spiritualità con i loro capolavori, le tradizioni liturgiche, le conquiste dell’arte (18). Tutto ciò non è un museo da visitare e da ammirare, ma una realtà viva che ispira e sostiene e che ha tutti i numeri per essere valorizzata.
Per quanto riguarda poi la recezione non effimera del Magistero, ma la sua accoglienza docile, la sua assimilazione e la sua efficacia nella vita personale e comunitaria, mi limito a due documenti importanti del Santo Padre Benedetto XVI: il Compendio e l’enciclica Deus caritas est.
Con rammarico, purtroppo, si deve constatare che non mancano cosiddetti esperti che hanno espresso non docilità e gioia, ma “tristezza” e “critiche” nei confronti di questo dono pontificio. La stampa cattolica dovrebbe dare anzitutto le motivazioni per confutare questi giudizi negativi e infondati — quando ci sono —, ma poi dovrebbe avere un progetto di formazione permanente dei fedeli per l’assimilazione profonda del documento magisteriale. In questo, ad esempio, è lodevole l’iniziativa di Famiglia cristiana che a partire dal numero del 25 dicembre 2005 ha inaugurato una rubrica di commento al Compendio, che avrà la durata di qualche anno. Utili iniziative sono state prese anche dal quotidiano Avvenire, che in più puntate ha presentato oltre al contenuto anche il significato del genere letterario dialogico e del significato teologico e catechetico delle immagini. Lo stesso Avvenire poi nel suo inserto periodico intitolato È vita continua la sua informazione accurata su tutti i temi bioetici più discussi oggi. In questi esempi, si nota l’iniziativa propria della stampa cattolica, che non solo insegue le novità, ma anche si sofferma su una sua agenda formatrice e illuminatrice.
Anche per l’enciclica Deus caritas est è stato lo stesso Santo Padre a presentarla in anteprima, parlandone per ben tre volte prima della sua illustrazione in Sala Stampa. Questo per dare subito a tutti i fedeli la retta interpretazione e per non dare alla stampa laica il vantaggio di distorcerne il significato e di distruggerne il valore. Per la stampa cattolica l’enciclica dovrebbe costituire un progetto di educazione alla fede per i giovani e per gli adulti. In questo i cattolici dovrebbero essere creativi e innovativi, dando visibilità e concretezza alle ricchezze contenute nell’enciclica con una programmazione a lungo termine.
Questi due documenti magisteriali formano due colonne di autentica catechesi cristiana, la quale trova nel Compendio la risposta alle mille domande di conoscenza religiosa, e nell’enciclica il nucleo essenziale dell’esistenza cristiana.
I documenti allora diventano portatori di luce all’intelligenza e ispiratori di retti comportamenti cristiani nel pellegrinaggio di fede di tutti i fedeli. Si tratta di pagine significative e quanto mai attuali di catechesi ecclesiale, da valorizzare al meglio in un tempo di globalizzazione.
La recezione dei documenti ecclesiali più che un peso insopportabile e noioso può diventare una sorprendente e straordinaria formazione permanente dei pastori e dei fedeli, nella continua riscoperta e accoglienza della verità della rivelazione di Gesù.
Per fare ciò ci vogliono professionisti, soprattutto laici — ai quali è demandato proprio questo campo di testimonianza cristiana nel secolo —, che conoscano le due lingue: quella della comunicazione ma anche quella della teologia. Spesso però la mancanza di professionalità, la fretta, la carenza di aggiornamento teologico, la superficialità, l’attenzione esclusiva all’attualità immediata impoveriscono la risposta dei media cattolici, privando i fedeli delle dovute risposte alle loro esigenze, e privando anche la società di un contributo indispensabile alla comprensione e alla valutazione più adeguata della realtà dei fatti e delle persone.
Nel Messaggio per la 40a giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che ricorrerà il prossimo 25 maggio 2006, il Santo Padre Benedetto XVI riafferma un duplice protagonismo dei media nella comunicazione della verità e nella promozione della vera pace: “Illuminare le coscienze degli individui e aiutarli a sviluppare il proprio pensiero non è mai un impegno neutrale. La comunicazione autentica esige coraggio e risolutezza. Esige la determinazione di quanti operano nei media per non indebolirsi sotto il peso di tanta informazione e per non adeguarsi a verità parziali o provvisorie. Esige piuttosto la ricerca e la diffusione di quello che è il senso e il fondamento ultimo dell’esistenza umana, personale e sociale (cfr. Fides et Ratio, 5). In questo modo i media possono contribuire costruttivamente alla diffusione di tutto quanto è buono e vero” (19).
L’appello del Papa ai responsabili soprattutto cattolici, è accogliere la sfida a essere protagonisti della verità e della pace che da essa deriva.
X Angelo Amato S.D.B.
Note:
(1) Cfr. John L. Allen Jr., The Word from Rome, 7 aprile 2006, vol. 5, n. 31, <http://nati onalcatholicreporter.org/word/word040706.ht m#four>.
(2) Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione “Dei Verbum”, del 18-11-1965, n. 10.
(3) Ibidem.
(4) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 87.
(5) Cfr. Yves M.-J. Congar O.P. (1904-1995), La réception comme réalité ecclésiologique, in Concilium. Rivista internazionale di teologia, anno 8, n. 7, Brescia 1972, pp. 51-72.
(6) Cfr. Paul Gilbert S.J., Nichilisme et christianisme chez quelques philosophes italiens contemporains: E. Severino, S. Natoli et G. Vattimo, in Nouvelle revue théologique, anno 121, n. 2, Bruxelles 1999, pp. 254-273.
(7) Monsignor Ignazio Sanna, L’identità aperta. Il cristiano e la questione antropologica, Queriniana, Brescia 2006, p. 12-13.
(8) Ibid., p. 14.
(9) Clive Staples Lewis (1898-1963), Le lettere di Berlicche, Mondadori, Milano 2006, pp. 5-6.
(10) Ibid., p. 6.
(11) Giovanni Paolo II (1978-2005), Discorso all’Assemblea Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, del 18-1-2002, n. 2, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XXV, 1, pp. 65-68 (p. 66).
(12) Cfr. card. Cahal Brendan Daly, “Dominus Iesus” and Ecumenical Dialogue, in L’Osservatore Romano, Weekly Edition in English, anno 34, n. 10 (1683), 7 March 2001, pp. 9-11.
(13) Cfr. Geoffrey Wainwright, Dominus Iesus. A Methodist Response, in Pro Ecclesia. A Journal of Catholic and Evangelical Theology, vol. X, Winter 2001, n. 1, p. 11.
(14) Per la documentazione completa, cfr. il mio Gesù il Signore. Saggio di cristologia, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2003, p. 305.
(15) Cit. in Benedetto XVI, Incontro di catechesi con i bambini di Prima Comunione, del 15-10-2005, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 17/18-10-2005.
(16) Ibidem.
(17) Idem, Omelia durante la Celebrazione orante nella Sala Clementina per la presentazione del “Compendio”, del 28-6-2005, n. 1, ibid., 29-6-2005.
(18) Una lodevole e vincente iniziativa di Famiglia Cristiana fu quella di pubblicare nel 2005 dodici capolavori della tradizione cristiana, tra cui anche la regola e la vita di San Benedetto, pubblicate proprio due giorni dopo l’elezione di Papa Benedetto XVI.
(19) Benedetto XVI, Messaggio in occasione della 40a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, del 24-1-2006, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 25-1-2006, n. 2.