Il 15 febbraio 1990 ricorre il primo anniversario del termine delle operazioni di disimpegno in Afghanistan da parte dell’Armata Rossa, entrata nel paese almeno a partire dal 24 dicembre 1979 per insediarvi il governo del socialcomunista Babrak Karmal, che destituiva il socialcomunista Hafizullah Amin, al potere in seguito al colpo di Stato del 14 settembre dello stesso 1979 e che a sua volta era succeduto al socialcomunista Nur Mohammad Taraki, il cui avvento era seguito al colpo di Stato del 27 aprile 1978. A un anno di distanza dalla fine ufficiale dell’invasione da parte dell’Unione Sovietica, che — pur con qualche sospensione — ha formalmente provveduto a ritirare le sue truppe secondo il calendario previsto dagli accordi di Ginevra del 14 aprile 1988, mentre a Kabul è al potere — dal 4 maggio 1986 — il successore di Babrak Karmal, il socialcomunista Mohammad Najibullah, e mentre gli strumenti di comunicazione sociale tacciono vistosamente gli accadimenti afgani, sulla situazione del paese centroasiatico interrogo l’architetto Abdullah Amirian, rappresentante politico in Italia di uno dei gruppi della Resistenza — l’Harakat-e inqilâb-e islâmi Afghanistan, il Movimento Rivoluzionario Islamico d’Afghanistan, aderente all’AIMA, l’Alleanza Islamica dei Mujahidin d’Afghanistan — nonché membro del comitato di redazione del periodico bimestrale Afghanistan passato e presente, edito a Firenze dove lo incontro, nella prima settimana di febbraio, a pochi giorni dalla ricorrenza.
D. Cos’è accaduto in Afghanistan dal 15 febbraio 1989, cioè dal completamento ufficiale del ritiro del corpo di spedizione sovietico?
R. Con il ritiro dell’Armata Rossa molti osservatori pensavano che il governo fantoccio del regime socialcomunista, insediato a Kabul e guidato da Mohammad Najibullah — che è anche segretario generale del Partito Democratico Popolare, cioè del partito comunista locale, e che in precedenza è stato capo del KHAD, il Servizio d’Informazione dello Stato, modellato sul KGB, i servizi segreti sovietici — sarebbe stato spazzato via in breve tempo e che l’olocausto del popolo afgano avrebbe avuto finalmente termine. E, con la conquista del potere da parte della Resistenza, gli stessi osservatori ipotizzavano bagni di sangue e alcuni governi, dando prova di una particolare “sensibilità”, provvedevano a ritirare le loro rappresentanze diplomatiche.
Dal canto suo, il Consiglio Supremo della Resistenza, attraverso la designazione da parte dei movimenti impegnati nella guerra di liberazione, dava vita alla Schurà, un’assemblea consultiva composta da quattrocentocinquanta membri. Questo organismo, convocato a Rawalpindi, in Pakistan, il 10 febbraio 1989, il 23 dello stesso mese, dopo due settimane di accesi dibattiti e di pressioni da parte di governi “amici”, nominava il capo dello Stato provvisorio nella persona del professor Sibghatullah Mujaddidi, e un governo provvisorio ad interim, guidato dal professor Abdul Rassul Sayaf.
Purtroppo la previsione relativa a un rapido esito del conflitto si rivela errata: infatti, i combattenti della Resistenza non riescono a liberare la città di Jalalabad, capoluogo della regione del Nangarhar, condizione posta dai governi “amici” per riconoscere il governo provvisorio, e il clamoroso insuccesso costa gravi perdite a entrambe le parti in lotta.
D. L’insuccesso militare ha completamente impedito il riconoscimento internazionale del governo provvisorio?
R. No, alcuni Stati lo hanno riconosciuto: il Regno Arabo Saudita, l’Emirato del Bahrein, la Repubblica del Sudan e la Federazione della Grande Malesia. Dal canto suo, l’OIC — l’Organizzazione della Conferenza Islamica creata a Rabat, in Marocco, nel 1969 e che ha sede a Gedda, nell’Arabia Saudita — ha assegnato il seggio dell’Afghanistan — vacante dal 1979 — al governo provvisorio nato grazie alla Resistenza, e il 6 aprile 1989 gli Stati Uniti d’America hanno accreditato un rappresentante speciale del loro governo presso lo stesso governo provvisorio ad interim, insediato a Peshawar, in Pakistan.
D. Tornando alla mancata conquista di Jalalabad, quali ne sono state le cause?
R. Il fallimento dell’operazione è stato probabilmente determinato da diversi fattori:
— in primo luogo, dall’insofferenza dei combattenti della Resistenza a sottostare a condizioni poste da terzi, sì che, dovendo conquistare la città per soddisfare richieste di governi “amici” come condizione per il riconoscimento del governo provvisorio, molti capi della Resistenza hanno reagito a questa ingerenza non prendendo parte alla battaglia di Jalalabad;
— in secondo luogo, ha avuto il suo peso anche l’impreparazione dei mujahidin al nuovo tipo di guerra, che impone un coordinamento strategico di base, con infrastrutture logistiche e mezzi d’assalto adeguati nonché — soprattutto — un’adeguata copertura aerea;
— in terzo luogo, ha giocato una parte non piccola la preponderanza dei mezzi bellici a disposizione delle truppe del regime socialcomunista di Kabul: infatti, prima del suo ritiro, l’Armata Rossa ha fornito loro un potente arsenale militare, valutato in circa dieci miliardi di dollari, comprensivo di micidiali armi chimiche. In proposito, merita di essere ricordato che, il 4 maggio 1989, Helen Batley ha presentato al Congresso degli Stati Uniti una proposta di condanna dell’Unione Sovietica per tali forniture; e un altro membro del Congresso, Bill Mccollun, ha mostrato in aula maschere antigas catturate all’esercito del regime nel corso dell’assedio, durante il quale — sia detto di passaggio — le posizioni della Resistenza sono state martellate da aerei pilotati da indiani, di stanza a Mazar-i-Sharif, che si alternavano a squadriglie di bombardieri d’alta quota provenienti direttamente dal territorio sovietico.
D. Dunque, la previsione di un rapido crollo del regime fantoccio si è rivelata gravemente errata.
R. Non poteva essere diversamente. Infatti, se l’Unione Sovietica ha dovuto ritirare le sue truppe dall’Afghanistan, non ha perciò rinunciato a imporvi la sua egemonia. In questa prospettiva tenta di trasformare la sua disfatta militare in una vittoria politica, e questa sua manovra gode del compiacente sostegno internazionale. In seguito a un intenso lavoro diplomatico e propagandistico sovietico, molti governi — soprattutto occidentali — esercitano pressioni sulla Resistenza affinché in Afghanistan s’instauri un governo di coalizione fra la Resistenza stessa e il regime di Kabul. Anche la risoluzione delle Nazioni Unite approvata il 1° novembre 1989 rivela questo orientamento, e non a caso è stata proposta dai rappresentanti dell’Unione Sovietica e della Repubblica Islamica del Pakistan.
E mentre Mikhail Gorbaciov sollecita la solidarietà internazionale per l’Unione Sovietica minacciata dalla fame, spende dai trecento ai quattrocento milioni di dollari al mese per sostenere il governo socialcomunista di Kabul; per contro, malgrado le reiterate dichiarazioni di appoggio alla Resistenza, gli aiuti americani a essa sono stati drasticamente ridotti, al punto che — per segnalare un dettaglio — gli uffici del governo provvisorio di stanza in Pakistan hanno avuto tagliati i fili del telefono, perché non vi erano i soldi per pagare le bollette. Stando così le cose, non si comprende perché il governo degli Stati Uniti non abbia accettato la proposta sovietica di cessazione bilaterale di forniture di armi.
D. In tema di aiuti, qual è lo stato di quelli di carattere umanitario?
R. Senza voler assolutamente gettare ombre di sorta su ogni genere di aiuto umanitario e su chi lo fa generosamente pervenire alla popolazione afgana, credo interessante esporre il caso dell’operazione Salam Express. Secondo il mandato ricevuto dal segretario generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, Javier Pérez de Cuéllar, il principe Sadruddin Agha Khan, coordinatore dello stesso organismo internazionale per gli aiuti agli afgani, dovrebbe curarsi che vengano aiutati tutti gli abitanti del paese, in modo che nessuna delle parti in lotta si possa servire degli aiuti stessi per rafforzare la propria posizione e per esercitare pressioni sulle popolazioni in difficoltà. Ebbene, per soccorrere i milioni di afgani che vivono nelle zone liberate, cioè la parte del popolo più bisognosa e quella che ha maggiormente sofferto nel decennio di guerra, l’ONU si è limitata a inviare commissioni d’inchiesta e di pianificazione; per il governo socialcomunista di Kabul ha invece organizzato una prima operazione Salam Express: questo è il nome di un convoglio ferroviario di cinquantaquattro vagoni — carichi di generi alimentari e di materiale diverso, con un contributo della Caritas Internationalis —, partito dalla Finlandia il 7 ottobre 1989 e diretto al governo di Kabul attraverso l’Unione Sovietica, le cui forze armate, con il pretesto di aprire la via appunto verso Kabul al convoglio stesso — da Hayratan il materiale è stato trasportato su strada —, ha bombardato pesantemente il passo di Salang, causando la morte di quattrocento civili; gli aiuti sono giunti al governo di Kabul il 17 ottobre. E, proprio dall’Italia, precisamente da Roma, l’11 dicembre, è partita una seconda operazione Salam Express, sempre destinata al governo socialcomunista di Kabul e di nuovo fatta passare attraverso il territorio dell’Unione Sovietica.
D. Se, dal punto di vista dei fatti, le cose stanno nei termini che ha descritto, la loro presentazione da parte dei mass media si può ritenere corretta?
R. Gli strumenti di comunicazione sociale parlano della situazione afgana sempre più raramente, e quando ne parlano traducono semplicemente i dispacci dell’agenzia d’informazioni ufficiale sovietica, la TASS, che tace i misfatti quotidiani dell’aviazione dell’URSS, dei reparti speciali ancora operanti in Afghanistan e dell’esercito del regime socialcomunista di Kabul, ma non manca di denunciare presunti attacchi terroristici lanciati dalla Resistenza con razzi contro la popolazione civile. Così, non viene spesa una parola per far stato delle smentite della Resistenza stessa, delle controdenunce di chi, come il generale Faruq Zarif — passato alla Resistenza nell’estate del 1989 —, testimonia che i razzi contro i civili di Kabul, per esempio, vengono lanciati dai socialcomunisti nel tentativo di aizzare la popolazione contro i mujahidin; allo stesso modo, niente viene detto del fatto che la gente, in fuga da Kabul per sfuggire a questi attacchi, si rifugia presso quegli stessi mujahidin che sarebbero gli autori di tali lanci; infine, non viene assolutamente riferito che le popolazioni delle città ancora in mano al regime vi sono tenute quasi come ostaggi, dal momento che non le possono lasciare: prova ne è un episodio accaduto il 21 settembre 1989, quando una carovana di ventotto fuggiaschi da Kabul è stata mitragliata da elicotteri delle forze socialcomuniste.
D. Secondo un dispaccio della TASS, riportato dal Corriere della Sera del 9 dicembre 1989, le autorità sovietiche troverebbero sempre maggiore difficoltà a controllare le infiltrazioni di guerriglieri afgani, che punterebbero a reclutare cittadini sovietici per organizzare un movimento panislamico: in questo quadro, sarebbero stati operati numerosi arresti, scoperto un deposito di armi lungo il confine fra l’Unione Sovietica e l’Afghanistan e alcuni arrestati avrebbero “ammesso di appartenere a un gruppo incaricato di organizzare un movimento clandestino antisovietico in Tagikistan per trasformare la Repubblica in uno Stato islamico”. Nel corso dell’insurrezione contro il regime socialcomunista e della resistenza all’invasione da parte dell’Armata Rossa, i combattenti della Resistenza afgana hanno mai sconfinato nel territorio dell’URSS? E, in caso affermativo, quali effetti hanno avuto tali operazioni sulle popolazioni delle confinanti Repubbliche Socialiste Sovietiche del Turkmenistan, dell’Uzbekistan e del Tagikistan?
R. Operazioni di sconfinamento e di attacco a insediamenti militari in territorio sovietico sono avvenute negli anni dal 1984 al 1986, poi, in misura minore, nel 1988. Evidentemente si è trattato di operazioni intese a disturbare le fonti del corpo di spedizione sovietico, ma hanno avuto anche un benefico influsso sulle popolazioni in quanto prove materiali che le forze del regime socialcomunista possono essere tenute in scacco e finalmente battute.
D. Ufficialmente, non sono mancate prese di posizione dell’attuale dirigenza sovietica contro l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa.
R. Certo, durante tutto il 1989 vi sono state autorevoli sconfessioni dell’operato sovietico in Afghanistan da parte di dirigenti sovietici, sconfessioni del regime ancora al potere a Kabul, del colpo di Stato del 1978, dell’invasione del 1979, e la responsabilità è stata attribuita — secondo una pratica ben nota — a soggetti irresponsabili possibilmente ora defunti, a partire da Leonid Breznev. Il 23 ottobre, il ministro degli Esteri dell’URSS, Eduard Shevardnadze, di fronte al Soviet Supremo, ha definito l’invasione dell’Afghanistan “un atto criminale e contrario al diritto internazionale”. Ma, accanto alle parole, vi sono i fatti: con quale coerenza Mikhail Gorbaciov finanzia e sostiene il regime frutto di tale “atto criminale”? Perché i dirigenti occidentali, in occasione delle recenti visite in Europa del massimo leader sovietico, non gli hanno posto questo quesito? Perché non gli hanno chiesto come mai continua a fornire armi altamente sofisticate al regime di Kabul e aiuti in ragione di cinquanta aerei da trasporto al giorno, armi come gli aerei Mig-29 e Sukor-27 — ultima creazione dell’industria bellica sovietica —, i missili terra-terra Scud-B, che costano un milione di dollari ciascuno, oppure i missili Uragan, a testate multiple, o i missili Frog-7, con una gittata di ottanta chilometri, tutti ordigni lanciati da basi dove hanno accesso soltanto i “consiglieri” russi? Perché in Afghanistan operano duemilaseicento “consiglieri” e un numero imprecisato di soldati sovietici con l’uniforme dell’esercito afgano? Anche l’Unione Indiana guidata da Rajiv Gandhi ha inviato, a sostegno del governo di Kabul, istruttori, piloti e ufficiali: per esempio, la 411a compagnia dell’esercito indiano è giunta in Afghanistan all’inizio dell’estate del 1989 e, poiché è specializzata in sabotaggio, ha contribuito a minare strade e ponti nonché a rafforzare le “cinture di protezione” attorno alle città. Alla fine dell’estate è giunta dall’India la 50a brigata, costituita da tremila paracadutisti che hanno il compito di difendere Kabul dai combattenti della Resistenza afgana.
D. Qual è l’opinione della Resistenza relativamente alla proposta politica di un governo di coalizione, che comprenda anche uomini del regime socialcomunista ancora al potere a Kabul?
R. La soluzione del caso afgano caldeggiata dal governo sovietico prevede un governo di coalizione con i ministeri chiave in mano ai socialcomunisti, quindi configura una situazione di altissima pericolosità, già sperimentata dai paesi dell’Europa Orientale alla fine della seconda guerra mondiale… e forse ancora in questo momento. Infatti, partendo da questa base, il partito comunista realizza la “normalizzazione” del paese, quindi assume i pieni poteri eliminando le altre forze politiche e aggiunge alla Costituzione un articolo che gli assicura il controllo totale del paese stesso; e questo controllo viene esercitato attraverso una “milizia popolare” appositamente istituita. Si tratta di una soluzione evidentemente rifiutata dalla Resistenza, ma che — purtroppo — incontra il favore dei governi occidentali, attualmente per certo non disponibili né a turbare, per una causa “insignificante” come quella costituita dalla sorte del popolo afgano e dai suoi diritti, il clima euforico che si è instaurato nei rapporti con l’Unione Sovietica grazie all’abilità diplomatica e propagandistica di Mikhail Gorbaciov, né — cinicamente — a mettere a repentaglio i profitti che l’emergenza economica del mondo socialcomunista offre loro su un piatto d’argento.
Ma il sangue innocente che bagna ogni giorno il suolo afgano testimonia e garantisce la determinazione della Resistenza a proseguire, anche nell’isolamento, la lotta contro un regime sanguinario, contro un’ideologia fondata sulla negazione di Dio e dei diritti dei popoli, e contro un dispotismo criminale, sinonimo di morte e di distruzione, di schiavitù e di soggezione. Il governo provvisorio di Peshawar, libera espressione del popolo afgano e delle sue tradizioni, ribadisce con fermezza che la guerra cesserà soltanto con il ripristino dell’inalienabile diritto del popolo afgano stesso alla propria libertà e alla propria indipendenza. Il resto non è altro che un inutile gioco di parole.
a cura di
Giovanni Cantoni