Fra Petar nasce Marko Andjelovich il 9 dicembre 1937 a Boch, comune di Brcko, in Bosnia-Erzegovina. Dopo l’istruzione primaria nel paese nativo frequenta il Ginnasio Classico di Visoko e teologia alla Scuola Francescana di Teologia di Sarajevo. Conclusi gli studi teologici lavora per un certo periodo come sacerdote in Germania, in parrocchie della diocesi di Essen. Dal 1970 al 1975 studia a Münster Scienze della Comunicazione e Pubblicistica. Già in questo periodo aderisce a movimenti che s’impegnano per la pace in Nigeria, in Biafra e altrove.
Al ritorno in Bosnia fra Petar entra nell’amministrazione della sua comunità dapprima, per sei anni, come segretario provinciale; poi, per tre anni, come consigliere; per sei anni come guardiano; per tre anni come parroco, e infine, dal 1991, come provinciale della Provincia Francescana Bosna Srebrena, “Bosna Argentina”. Svolgendo questi incarichi fra Petar ha accumulato abbondante esperienza specialmente nella pratica della convivenza fra nazioni e religioni diverse. Condizione di questa convivenza è la pace, e condizione della pace è la tolleranza fondata sul rispetto dei diritti umani fondamentali. Questa è l’idea guida della vita e dell’opera di fra Petar.
Il periodo della sua “dimostrazione” pacifica è stato quello degli anni prebellici, e ancor più quello bellico, dal 1992 al 1996. Dapprima ha fatto di tutto, attraverso i leader religiosi, per evitare la guerra in Bosnia-Erzegovina. Dall’organizzazione di preghiere comuni in alcuni luoghi del paese all’incontro con gli esponenti più importanti delle singole comunità religiose — significativo l’incontro con il patriarca ortodosso Pavle a Belgrado — e a interventi pubblici sui media, fra Petar ha combattuto la sua battaglia per la pace.
Numerosi anche i suoi incontri con i leader politici delle parti in lotta, per fermare i conflitti bellici, per il rilascio dei prigionieri o per il semplice rispetto dei diritti umani. Proprio questo aspetto del suo impegno ha avuto un grande riconoscimento.
Accanto a questo lavoro di preghiera e di azione politica, volto alla creazione e al consolidamento della pace, fra Petar si è adoperato per trovare adeguato alloggio ai profughi e per far arrivare un pezzo di pane a quanti per anni sono vissuti in stato d’assedio. A questo fine ha fondato l’organizzazione umanitario-caritativa Kruh Svetog Ante, “Il pane di Sant’Antonio”, che è stata autorizzata a operare sia in Bosnia-Erzegovina sia in Croazia. In seguito è stata registrata in Germania. Bisognava sopravvivere per giungere a vedere la pace. Nel 1997, per il suo impegno, ha ricevuto il premio Menschenrechtspreis della fondazione tedesca Friedrich-Ebert.
Nell’ambito della sua comunità ha fondato anche l’”Agenzia per il ritorno dei profughi”, volta alla pianificazione e alla realizzazione del ritorno degli esuli e dei profughi. Proprio al ritorno si vedrà quanto la pace è salda.
All’inizio del 1994, prendendo a modello i suoi predecessori francescani, che il 1° maggio 1859 fondarono l’”Agenzia della provincia francescana e del popolo cattolico presso l’autorità amministrativa imperiale-ottomana a Sarajevo”, ha ripristinato a Sarajevo, attraverso “Il pane di Sant’Antonio”, l’attività di tale ente, con il nome di “Agenzia per i diritti umani, la mediazione umanitaria e l’assistenza giuridica”.
È possibile trovare esposte le posizioni di principio — politiche, teologiche, sulla pace, e così via — di fra Petar e della sua comunità francescana nella sua opera Mi ostajemo, “Noi rimaniamo”, edito a Zagabria nel 1995, e nella serie Svjedoci vremena, “Testimoni del tempo”. Ho intervistato il religioso nella sede della Provincia Francescana a Sarajevo nell’agosto del 1999, e gli ho poi sottoposto il testo dell’intervista per l’approvazione.
D. Può ripercorrere a grandi linee il cammino storico della Chiesa cattolica in Bosnia Erzegovina e il ruolo in essa svolto dai francescani?
R. Il cristianesimo arriva molto presto nei Balcani, già in età apostolica, quindi ancor prima dell’arrivo degli slavi. Questi ricevono e assimilano il cristianesimo dagli autoctoni. Nel secolo XI, con lo scisma fra le Chiese d’Oriente e d’Occidente, i croati rimangono legati a Roma, mentre i serbi saranno sempre più nell’orbita di Bisanzio. Prima dell’arrivo dei turchi, in Bosnia compare l’eresia di tipo gnostico del bogomilismo: di qui la necessità dell’invio di missionari che predicassero contro di essa. La missione dei domenicani non riesce, così che i re bosniaci chiedono a Papa Nicola IV l’invio di missionari francescani: nel 1291 ha inizio la presenza francescana in Bosnia. Recentemente ne abbiamo celebrato il 700° anniversario. L’attività dei francescani in quel periodo è molteplice: predicano, cercano di far tornare al cattolicesimo gli eretici; i frati sono attivi alla corte come conoscitori della lingua latina — lingua ufficiale della diplomazia — e come consiglieri. È un tempo che dà i suoi frutti: i francescani si espandono e cercano le nuove vocazioni nel popolo, mettendovi profonde radici. Ma, con la conquista turca nella seconda metà del secolo XV — la Bosnia cade nel 1463, l’Erzegovina nel 1483 — cominciano i problemi. I turchi diffondono nel popolo l’islam per rinsaldare il loro potere. Fra Angjeo Zvizdovich riesce però a ottenere dal sultano Maometto II il Conquistatore un decreto, Ahd-nama, che garantisce ai francescani, quindi ai cattolici, la libertà personale e religiosa. L’anno scorso abbiamo celebrato il 500° anniversario dalla morte di fra Angjeo, volendo ricordare e sottolineare che il frate bosniaco capiva la necessità d’incontrare l’altro, le altre religioni, di cercare il dialogo senza fuggire, rimanendo, pur sottomesso, in attesa di un tempo migliore in cui ottenere la parità. Sotto il dominio turco i frati svolgono per il popolo un ruolo chiave, come insegnanti e come medici, come garanti dell’esistenza della comunità cattolica croata in Bosnia. Fiorisce anche l’attività letteraria, gli scrittori francescani vengono in Italia — a Venezia, a Roma e ad Ancona — a stampare le loro opere. Però, quando i turchi perdevano qualche battaglia, in Ungheria o altrove, venivano a distruggere i nostri conventi e a uccidere i frati, considerati alleati di Roma e dell’Occidente e accusati di tradire i segreti militari. Dopo la lunga guerra dell’impero asburgico contro i turchi, dal 1683 al 1699, della ventina di conventi francescani prima esistenti ne rimangono soltanto tre, in quanto, dopo la sconfitta, i turchi tendono a eliminare ogni presenza cristiana nel territorio rimasto sotto il loro dominio. Se nei Balcani è rimasta la cultura occidentale, il merito è dei francescani, che hanno pagato con la vita la difesa della Cristianità, diventando davvero antemurale Christianitatis.
D. Qual’è la posizione degli ortodossi in questo periodo?
R. Con la conquista ottomana alcuni serbi fuggono, altri sono posti dalle potenze europee al confine fra l’impero ottomano e l’Occidente, così che si arriva al mescolarsi della popolazione croata, musulmana e serba in Croazia e in Bosnia. Ma, in genere, i capi serbi hanno accettato di collaborare con i turchi rimanendo in Serbia, a differenza dei montenegrini, che hanno lottato di più.
D. Che posizione assumono poi i francescani verso l’impero austro-ungarico?
R. L’annessione della Bosnia-Erzegovina all’Austria, nel 1878, rappresentava qualcosa di più di un protettorato. Viene favorito il progresso civile — costruzione di strade, di scuole, e così via — e la Chiesa cattolica è aiutata. Come paese cattolico, l’Austria cerca di riparare allo stato di miseria lasciato dai turchi. Ma noi francescani ci siamo nuovamente trovati nella posizione di difendere la nostra cultura. Eravamo legati alla Bosnia-Erzegovina e al suo popolo e volevamo che fosse un paese autonomo, tanto da guardare con sospetto anche all’Austria, in quanto forza straniera, condividendo invece le aspirazioni della Croazia e dell’Ungheria a scrollarsi di dosso il dominio austriaco: il panslavismo ha così condotto — nel 1918 — alla creazione della cosiddetta “prima Iugoslavia”. Con il ritiro dei turchi si arriva inoltre all’introduzione della gerarchia ecclesiastica ufficiale: fino ad allora i francescani erano stati anche vescovi — per esempio Marijan Èunjich —, mentre ora devono farsi da parte e lasciare le parrocchie sotto la guida del clero secolare. Nascono così tensioni fra i francescani e il clero secolare, come avviene ancora adesso in Erzegovina. Per quattro secoli, sotto i turchi, i francescani erano stati anche vescovi e parroci, si occupavano di tutto. Il clero secolare chiede ai frati di consegnar loro le parrocchie, cosa difficile da realizzarsi, soprattutto sotto il regime comunista. Anche oggi noi possiamo vivere in Bosnia solo se abbiamo parrocchie. Qui la situazione non è come in Germania o in Italia: guardando al passato si comprende perchè i francescani rimangano tanto attaccati alle parrocchie.
D. Ora la situazione sta migliorando?
R. In Erzegovina, nell’arcidiocesi di Mostar è tuttora tesa. Nella nostra arcidiocesi di Vrhbosna invece non vi sono problemi di rilievo.
D. E Medjugorje che funzione ha in tutto questo?
R. Medjugorje è un problema ulteriore. La mia opinione è che il vescovo tema che i frati guidino Medjugorje e, nel caso di un riconoscimento ufficiale, diventino troppo forti. In proposito bisogna andare molto cauti. Milioni di persone credono alle apparizioni. Ai frati preme molto che la gente venga e si converta, preghi e si confessi. È un bellissimo miracolo che in un paesino come Medjugorje giungano a pregare persone da tutto il mondo.
D. Torniamo al cammino storico: il comunismo e gli ultimi avvenimenti…
R. Con il comunismo inizia un nuovo periodo di difficoltà per la Chiesa cattolica. Non si contano le persecuzioni dei francescani, soprattutto alla fine della seconda guerra mondiale. Sulla scorta dell’esperienza dei tempi dell’impero ottomano, i francescani trovano però il modo di sopravvivere anche durante il regime comunista, riuscendo a preservare il piccolo seminario di Visoko e la scuola di Teologia a Sarajevo. Alla vigilia dello smembramento della Iugoslavia, la Chiesa cattolica godeva perfino di un certo prestigio, e aveva un buon numero di sacerdoti. Come i polacchi, abbiamo anche noi contribuito a far cadere il comunismo!
In quest’ultima guerra, ancora una volta — e lo si può documentare — siamo stati dalla parte dei feriti, dei poveri, degli affamati e dei malati. Abbiamo sempre cercato di far sì che a muoverci non fosse l’appartenenza a una nazione, bensì la fede, il carisma di san Francesco. Per questo oggi siamo accettati e ben visti dai serbi, dai musulmani e dai cattolici, perché non abbiamo predicato il nazionalismo, ma il dialogo, l’incontro delle persone. Siamo pure convinti che la Bosnia-Erzegovina debba esistere come Stato, come la migliore soluzione per tutti e tre i popoli, e penso che quest’idea sia stata accettata anche dalle Potenze occidentali. Per l’aiuto alle persone bisognose esiste la Caritas. Noi francescani abbiamo istituito “Il pane di Sant’Antonio”. In quanto piccola organizzazione, siamo molto “mobili”: quello che riceviamo arriva subito a chi è nel bisogno. Ultimamente lavoriamo al progetto di fondare un centro studentesco, condotto da noi, che conservi l’idea della Bosnia. In questo centro soggiornerebbero studenti serbi, musulmani e croati, a cui vogliamo insegnare a dialogare, perché in Bosnia sia possibile la convivenza. È impossibile dividere la Bosnia-Erzegovina. Manca un criterio per farlo. Le nazionalità sono tutte mescolate, specialmente nelle città. Se la Bosnia si divide, bisogna compiere un’ingiustizia verso qualcuno, perché si arriva alla pulizia etnica. La Bosnia è il paradigma della vita futura dell’Europa. In Italia o in Germania, per esempio, vivono già insieme diversi popoli e diverse comunità religiose. In Bosnia occorre conservare l’esperienza secolare della convivenza, così che i popoli, con la loro identità nazionale e religiosa, possano collaborare vivendo insieme. La Bosnia è profezia per l’Europa.
D. Come superare il problema della sovrapposizione, nell’islam, dell’ambito politico a quello spirituale?
R. Sì, è un problema reale. Lo stesso avviene presso gli ortodossi. I musulmani della Bosnia si sono irrigiditi a causa della guerra, ma, se si staccano dal fondamentalismo musulmano, possono europeizzarsi, sulla base di una tradizione secolare di convivenza. Naturalmente, ci aspettiamo dall’Europa che non permetta la prevaricazione di nessuna maggioranza. Vi dev’essere l’uguaglianza di tutti i popoli e di tutti gli uomini in Bosnia. Il problema va risolto a livello di Costituzione, e non con il fucile.
D. La formula sancita dall’accordo di Dayton, del 21 novembre 1995, aiuta questo processo?
R. L’accordo di Dayton ha fatto cessare la guerra e promosso l’idea — che va mantenuta — della Bosnia-Erzegovina come Stato unitario. Sicuramente, per quanto riguarda l’ordinamento interno, prima o poi bisognerà cambiare qualcosa dell’accordo di Dayton. Questa divisione in due entità non ha futuro. Credo che si arriverà alla cantonizzazione, che è una ricetta migliore della divisione in due entità. Occorrerà quindi cantonizzare anche la Republika Srpska, la “Repubblica Serba”, in modo da avere uno Stato unitario con un determinato numero di cantoni al suo interno, come nel caso del Belgio o, ancor meglio, della Svizzera.
a cura di
Ruggero Cattaneo