GIOVANNI CANTONI, Cristianità n. 199 (1991)
Nei giorni 10, 11 e 12 ottobre 1987, nella Casa di Esercizi Mater Salvatoris, a Barcellona, in Spagna, si è svolta la XXVI riunione degli amici della Ciudad Católica sul tema Las libertades (cfr. Cristianità, anno XVI, n. 152, dicembre 1987). Nell’occasione Giovanni Cantoni, reggente nazionale di Alleanza Cattolica, ha tenuto una relazione su La contrarrevolución y las libertades, poi comparso — annotato dall’autore e tradotto in spagnolo da Estanislao Cantero Núñez — sulla rivista Verbo, serie XXIX, n. 283-284, marzo-aprile 1990, pp. 451-473. Per ragioni redazionali presentiamo solo ora il testo dell’intervento.
La Contro-Rivoluzione e le libertà
1. “La Contro-Rivoluzione e le libertà nel Magistero del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II”
Quando Juan Vallet de Goytisolo mi ha invitato a parlare in occasione della XXVI riunione degli amici della Ciudad Católica mi sono sentito molto onorato, ma anche molto preoccupato per il fatto di dover esporre un tema come La Contro-Rivoluzione e le libertà di fronte a un pubblico colto di una cultura politico-sociale come quella iberoamericana che — fra tutte le culture del mondo cattolico — ha maggiormente approfondito se non l’argomento “Contro-Rivoluzione” — a proposito del quale possono vantare titoli significativi anche altre culture — indubbiamente quello rappresentato da “le libertà”, la cui norma si trova — come sostiene lo stesso Juan Vallet de Goytisolo — nel principio di sussidiarietà (1). E la mia preoccupazione è aumentata pensando che il pubblico al quale ero chiamato a parlare non solo era colto della cultura che ho ricordato, ma che ha pure avuto e ha tuttora la possibilità di fruire del magistero vivo di pensatori — del clero secolare e regolare nonché del laicato cattolico — classificabili fra i più significativi esponenti della cultura cattolica contro-rivoluzionaria contemporanea.
Poiché questa preoccupazione si è impadronita di me dal momento in cui ho ricevuto l’invito, ho chiesto consiglio — per così dire — a sant’Agostino e penso di aver trovato una possibile soluzione alle mie difficoltà in una sua considerazione — di cui, per altro, non conosco la collocazione nell’opera del santo vescovo di Ippona — che suona così: “Non dico cose nuove perché le impariate, ma cose note perché le facciate” (2).
Poiché, poi, il luogo per eccellenza delle “cose note” è, in tesi, il Magistero ordinario della Chiesa — prescindendo dal fatto che essa può trarre dal deposito non solo vetera ma anche nova (3) —, passo all’esposizione del tema che mi è stato affidato come se il titolo fosse La Contro-Rivoluzione e le libertà nel Magistero del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, cercando di mostrare che l’argomento è sostanzialmente presente e sviluppato anche nelle più recenti espressioni del Magistero, benché non sempre trattato con il lessico tradizionale, e — in aperta polemica con letture improprie del Magistero stesso — che siamo di fronte a vetera non solamente obiter dicta, cioè a “cose vecchie dette occasionalmente”, ma anche noviter dicta, cioè a “cose vecchie dette nuovamente”.
In questa prospettiva mi limito a fare riferimento solo e volontariamente a documenti del regnante Pontefice, omettendo quasi ogni altra citazione esplicita, anche se non può non emergere il mio debito intellettuale nei confronti di molti pensatori cattolici, che hanno trattato sia ex professo sia en passant l’argomento che devo affrontare, fra i quali ricordo — nel novero di quelli che ci hanno lasciato — Francisco Elías de Tejada y Spínola (4) e — fra i viventi — Plinio Corrêa de Oliveira (5).
2. La naturale socialità dell’uomo e le libertà
Nell’Istruzione su libertà cristiana e liberazione “Libertatis conscientia” — pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede con esplicita approvazione di Papa Giovanni Paolo II — vi è un capitolo intitolato Vocazione dell’uomo alla libertà e dramma del peccato, nel cui terzo paragrafo, La libertà e la società umana, si dice: “Dio non ha creato l’uomo come un “essere solitario”, ma lo ha voluto come un “essere sociale”. La vita sociale non è, dunque, estrinseca all’uomo: egli non può crescere né realizzare la sua vocazione se non in relazione con gli altri.
“L’uomo appartiene a diverse comunità: familiare, professionale, politica, ed è in seno ad esse che egli deve esercitare la sua libertà responsabile. Un ordine sociale giusto offre all’uomo un aiuto insostituibile per la realizzazione della sua libera personalità. Al contrario, un ordine sociale ingiusto è una minaccia e un ostacolo, che possono compromettere il suo destino.
“Nella sfera sociale, la libertà si esprime e si realizza nelle azioni, nelle strutture e nelle istituzioni, grazie alle quali gli uomini comunicano tra loro ed organizzano la loro vita in comune. Il pieno sviluppo di una libera personalità, che è per ciascuno un dovere ed un diritto, deve essere aiutato e non già ostacolato dalla società.
“C’è qui un’esigenza di natura morale, che ha trovato la sua espressione nella formulazione dei Diritti dell’uomo. Alcuni di essi hanno per oggetto ciò che si è convenuto di chiamare “le libertà”, che sono come altrettante modalità nel riconoscere a ciascun essere umano il suo destino trascendente, come anche l’inviolabilità della sua coscienza” (6).
E ancora: “La dimensione sociale dell’essere umano riveste anche un altro significato: solamente la pluralità e la ricca diversità degli uomini possono esprimere qualcosa dell’infinita ricchezza di Dio.
“Infine, questa dimensione è destinata a trovare il suo compimento nel corpo di Cristo, che è la Chiesa. È per questo che la vita sociale, nella varietà delle sue forme e nella misura in cui è conforme alla legge divina, costituisce un riflesso della gloria di Dio nel mondo” (7).
3. L’uomo come erede: dalla famiglia alla nazione
Il punto di partenza di tutto lo sviluppo dottrinale è l’affermazione dell’esistenza di Dio, e di Dio creatore dell’uomo come essere sociale, cioè naturalmente sociale, in quanto voluto sociale e non solitario appunto dallo stesso Dio creatore della natura.
Il carattere naturale di questa socialità la fa intrinseca all’uomo e non a lui estrinseca, il che equivale a dire che essa costituisce una proprietas dell’uomo stesso e non un puro accidens, di modo che soltanto in rapporto con gli altri egli può crescere e realizzare la sua vocazione, cioè la ragione per la quale è stato chiamato alla vita, sia come uomo in genere, sia come uomo singolo, dal momento che “[…] Dio l’ha creato libero, perché potesse, mediante la grazia, entrare in amicizia con lui e partecipare alla sua Vita” (8).
Il rapporto di assoluta dipendenza da Dio, che caratterizza l’uomo, quindi il suo rapporto di dipendenza relativa dagli altri uomini — quest’ultimo destinato a trasformarsi, nel corso della sua vita, in un rapporto di interdipendenza — viene vissuto all’interno di diverse comunità, la prima delle quali è la comunità familiare. Nell’esortazione apostolica Familiaris consortio, Papa Giovanni Paolo II afferma che “la comunione d’amore tra Dio e gli uomini […] trova una significativa espressione nell’alleanza sponsale, che si instaura tra l’uomo e la donna” (9); quindi nota come “nel matrimonio e nella famiglia si costituisce un complesso di relazioni interpersonali — nuzialità, paternità-maternità, filiazione, fraternità —, mediante le quali ogni persona umana è introdotta nella “famiglia umana” e nella “famiglia di Dio”, che è la Chiesa” (10); finalmente rileva che “la famiglia possiede vincoli vitali e organici con la società, perché ne costituisce il fondamento e l’alimento continuo mediante il suo compito di servizio alla vita: dalla famiglia infatti nascono i cittadini e nella famiglia essi trovano la prima scuola di quelle virtù sociali, che sono l’anima della vita e dello sviluppo della società stessa” (11). E nella comunità familiare è particolarmente evidente l’apprendistato vitale, esistenziale, dell’uomo: come scrive lo stesso Sommo Pontefice nella lettera apostolica ai giovani e alle giovani del mondo in occasione dell’Anno Internazionale della Gioventù, “la storia dell’umanità passa sin dall’inizio — e passerà sino alla fine — attraverso la famiglia. L’uomo entra in essa mediante la nascita che deve ai genitori: al padre e alla madre, per abbandonare poi al momento opportuno questo primo ambiente di vita e di amore e passare al nuovo. “Abbandonando il padre e la madre”, ognuno e ognuna di voi contemporaneamente, in un certo senso li porta dentro con sé, assume la molteplice eredità, che in loro e nella loro famiglia ha il suo diretto inizio e la sua fonte. In questo modo, anche abbandonando, ognuno di voi rimane: l’eredità che assume lo lega stabilmente con coloro che l’hanno trasmessa a lui ed ai quali tanto deve. E egli stesso — lei e lui — continuerà a trasmettere la stessa eredità. Perciò, anche il quarto comandamento del Decalogo possiede una così grande importanza: “Onora tuo padre e tua madre”.
“Si tratta qui, prima di tutto, del retaggio di essere uomo e, successivamente, di essere uomo in una più definita situazione personale e sociale. In questo ha la sua parte persino la somiglianza fisica nei riguardi dei genitori. Ancor più importante di questo è l’intero retaggio della cultura, al centro del quale si trova quasi quotidianamente la lingua. I genitori hanno insegnato a ciascuno di voi a parlare quella lingua, che costituisce l’espressione essenziale del legame sociale con altri uomini. Esso è determinato da confini più ampi della famiglia stessa oppure di un certo ambiente. Questi sono i confini almeno di una tribù e il più delle volte i confini di un popolo o di una nazione, nella quale siete nati.
“In questo modo l’eredità familiare si estende. Attraverso l’educazione familiare partecipate ad una determinata cultura, partecipate anche alla storia del vostro popolo o nazione. Il legame familiare significa insieme l’appartenenza ad una comunità più grande della famiglia, e ancora un’altra base di identità della persona. Se la famiglia è la prima educatrice di ognuno di voi, al tempo stesso — mediante la famiglia — educatrice è la tribù, il popolo o la nazione, con cui siamo legati per l’unità della cultura, della lingua e della storia.
“Questo retaggio costituisce, altresì, una chiamata in senso etico. Ricevendo la fede ed ereditando i valori e i contenuti che costituiscono l’insieme della cultura della sua società, della storia della sua nazione, ciascuno e ciascuna di voi viene dotato spiritualmente nella sua individuale umanità. Ritorna qui la parabola dei talenti, che riceviamo dal Creatore per il tramite dei nostri genitori e delle nostre famiglie, ed anche della comunità nazionale, alla quale apparteniamo. Nei riguardi di questa eredità noi non possiamo mantenere un atteggiamento passivo, o addirittura rinunciatario, come fece l’ultimo di quei servi che sono nominati nella parabola dei talenti. Noi dobbiamo fare tutto ciò di cui siamo capaci, per assumere questo retaggio spirituale, per confermarlo, mantenerlo e incrementarlo. Questo è un compito importante per tutte le società, specialmente forse per quelle che si trovano all’inizio della loro esistenza autonoma, oppure per quelle che devono difendere dal pericolo di distruzione dall’esterno o di decomposizione dall’interno questa stessa esistenza e l’essenziale identità della propria nazione” (12).
Proseguendo e venendo a conclusione dell’importante paragrafo — significativamente intitolato Eredità —, Papa Giovanni Paolo II si propone “[…] di avere davanti agli occhi dell’anima la complessa e distinta situazione delle tribù, dei popoli e delle nazioni sul nostro globo terrestre”, e afferma: “La vostra giovinezza ed il progetto di vita, che durante la giovinezza ciascuno e ciascuna di voi elabora, sono sin dall’inizio inseriti nella storia di queste diverse società, e ciò avviene non “dall’esterno”, ma eminentemente “dall’interno”. Questo diventa per voi una questione di consapevolezza familiare e, conseguentemente, nazionale: una questione di cuore, una questione di coscienza. Il concetto di “patria” si sviluppa in immediata contiguità col concetto di “famiglia” e, in un certo senso, l’uno nell’ambito dell’altro. E voi gradualmente, sperimentando questo legame sociale, che è più ampio del legame familiare, iniziate anche a partecipare alla responsabilità per il bene comune di quella più grande famiglia, che è la “patria” terrena di ciascuno e di ciascuna di voi. Le eminenti figure della storia, antica o contemporanea, di una nazione guidano anche la vostra giovinezza, e favoriscono lo sviluppo di quell’amore sociale, che più spesso viene chiamato “amor patrio”” (13).
4. La comunità professionale
Nel testo che ho assunto come punto di partenza della mia esposizione dopo la famiglia si indica, come comunità di appartenenza dell’uomo, quella professionale. Infatti — spiega sempre Papa Giovanni Paolo II nella stessa lettera apostolica ai giovani e alle giovani del mondo — “[…] in questo contesto della famiglia e della società, che è la vostra patria, si inserisce gradualmente un tema connesso molto da vicino con la parabola dei talenti. Gradualmente, infatti, voi riconoscete quel “talento” o quei “talenti”, che sono propri di ciascuno e di ciascuna di voi, e cominciate a servirvene in modo creativo, cominciate a moltiplicarli. E ciò avviene per mezzo del lavoro“ (14). E “il lavoro — afferma lo stesso Sommo Pontefice nell’enciclica Laborem exercens — è un bene dell’uomo — è un bene della sua umanità —, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, “diventa più uomo”” (15).
Infatti, “senza questa considerazione non si può comprendere il significato della virtù della laboriosità, più particolarmente non si può comprendere perché la laboriosità dovrebbe essere una virtù: infatti, la virtù, come attitudine morale, è ciò per cui l’uomo diventa buono in quanto uomo” (16).
“Confermata in questo modo la dimensione personale del lavoro umano — nota sempre il regnante Pontefice —, si deve poi arrivare al secondo cerchio di valori, che è ad esso necessariamente unito. Il lavoro è il fondamento su cui si forma la vita familiare, la quale è un diritto naturale ed una vocazione dell’uomo. Questi due cerchi di valori — uno congiunto al lavoro, l’altro conseguente al carattere familiare della vita umana — devono unirsi tra sé correttamente, e correttamente permearsi. Il lavoro è, in un certo modo, la condizione per rendere possibile la fondazione di una famiglia, poiché questa esige i mezzi di sussistenza, che in via normale l’uomo acquista mediante il lavoro. Lavoro e laboriosità condizionano anche tutto il processo di educazione nella famiglia, proprio per la ragione che ognuno “diventa uomo”, fra l’altro, mediante il lavoro, e quel diventare uomo esprime appunto lo scopo principale di tutto il processo educativo. Evidentemente qui entrano in gioco, in un certo senso, due aspetti del lavoro: quello che consente la vita ed il mantenimento della famiglia, e quello mediante il quale si realizzano gli scopi della famiglia stessa, soprattutto l’educazione. Ciononostante, questi due aspetti del lavoro sono uniti tra di loro e si completano in vari punti.
“Nell’insieme si deve ricordare ed affermare che la famiglia costituisce uno dei più importanti termini di riferimento, secondo i quali deve essere formato l’ordine socio-etico del lavoro umano. La dottrina della Chiesa ha sempre dedicato una speciale attenzione a questo problema […]. Infatti, la famiglia è, al tempo stesso, una comunità resa possibile dal lavoro e la prima interna scuola di lavoro per ogni uomo.
“Il terzo cerchio di valori che emerge nella […] prospettiva del soggetto del lavoro […] riguarda quella grande società, alla quale l’uomo appartiene in base a particolari legami culturali e storici. Tale società — anche quando non ha ancora assunto la forma matura di una nazione — è non soltanto la grande “educatrice” di ogni uomo, benché indiretta (perché ognuno assume nella famiglia i contenuti e valori che compongono, nel suo insieme, la cultura di una data nazione), ma è anche una grande incarnazione storica e sociale del lavoro di tutte le generazioni. Tutto questo fa sì che l’uomo unisca la sua più profonda identità umana con l’appartenenza alla nazione, ed intenda il suo lavoro anche come incremento del bene comune elaborato insieme con i suoi compatrioti, rendendosi così conto che per questa via il lavoro serve a moltiplicare il patrimonio di tutta la famiglia umana, di tutti gli uomini viventi nel mondo” (17).
Dalla descrizione dei caratteri del lavoro dell’uomo appare con la massima chiarezza che esso “[…] non riguarda soltanto l’economia, ma coinvolge anche, e soprattutto, i valori personali”: perciò, “il sistema economico stesso e il processo di produzione traggono vantaggio proprio quando questi valori personali sono pienamente rispettati. Secondo il pensiero di San Tommaso d’Aquino, è soprattutto questa ragione che depone in favore della proprietà privata dei mezzi stessi di produzione” (18).
5. La comunità politica
Dopo le comunità familiare e professionale viene quella politica: “Il senso essenziale dello Stato, come comunità politica — si legge nell’enciclica Redemptor hominis —, consiste nel fatto che la società o chi la compone, il popolo, è sovrano della propria sorte. Questo senso non viene realizzato, se, al posto dell’esercizio del potere con la partecipazione morale della società o del popolo, assistiamo all’imposizione del potere da parte di un determinato gruppo a tutti gli altri membri di questa società. Queste cose sono essenziali nella nostra epoca, in cui è enormemente aumentata la coscienza sociale degli uomini ed insieme con essa il bisogno di una corretta partecipazione dei cittadini alla vita politica della comunità, tenendo conto delle reali condizioni di ciascun popolo e del necessario vigore dell’autorità pubblica. Questi sono quindi problemi di primaria importanza dal punto di vista del progresso dell’uomo stesso e dello sviluppo globale della sua umanità.
“La Chiesa ha sempre insegnato il dovere di agire per il bene comune e, così facendo, ha educato altresì buoni cittadini per ciascuno Stato. Essa, inoltre, ha sempre insegnato che il dovere fondamentale del potere è la sollecitudine per il bene comune della società; da qui derivano i suoi fondamentali diritti. Proprio nel nome di queste premesse attinenti all’ordine etico oggettivo, i diritti del potere non possono essere intesi in altro modo che in base al rispetto dei diritti oggettivi e inviolabili dell’uomo. Quel bene comune, che l’autorità serve nello Stato, è pienamente realizzato solo quando tutti i cittadini sono sicuri dei loro diritti. Senza questo si arriva allo sfacelo della società, all’opposizione dei cittadini all’autorità, oppure ad una situazione di oppressione, di intimidazione, di violenza, di terrorismo, di cui ci hanno fornito numerosi esempi i totalitarismi del nostro secolo. È così che il principio dei diritti dell’uomo tocca profondamente il settore della giustizia sociale e diventa metro per la sua fondamentale verifica nella vita degli Organismi politici” (19).
6. Ordine sociale giusto e ordine sociale ingiusto
Dilatando il testo che ho assunto come punto di partenza — e al quale intendo continuare a fare riferimento —, ho descritto, anche se in abbozzo, ma con colori vivaci e con pennellate magistrali, cioè magisteriali, l’habitat dell’uomo, di ogni uomo, quindi, appunto, “una società a misura di uomo e secondo il piano di Dio” (20), una realtà che accompagna l’uomo non come un qualsiasi Stato assistenziale “dalla nascita alla morte”, “dalla culla alla bara”, ma “dal concepimento alla vita eterna”, dalla famiglia alla Chiesa, passando attraverso la vita sociale in tutte le sue articolazioni. E dalla descrizione sono emersi i termini che permettono di valutare ogni ordinamento sociale e di qualificarlo come giusto oppure come ingiusto, avendo ben presente che “un ordine sociale giusto offre all’uomo un aiuto insostituibile per la realizzazione della sua libera personalità”, e che, “al contrario, un ordine sociale ingiusto è una minaccia e un ostacolo, che possono compromettere il suo destino” (21), e quindi che la regola di questi giudizi si ricava trasformando l’affermazione in definizione, per cui “un ordine sociale è giusto quando offre all’uomo un aiuto insostituibile per la realizzazione della sua libera personalità” e, al contrario, “un ordine sociale è ingiusto quando è una minaccia e un ostacolo, che possono compromettere il suo destino”.
7. Il dramma della storia fra “mysterium iniquitatis” e “mysterium pietatis”
Ma i termini emersi fino a questo punto sono ancora, in un certo senso, astratti, tavole della legge senza confessionale, e sollecitano a cercare le categorie per comprendere l’ondeggiare storico — felicemente non ritmico e non necessitato nelle sue diverse manifestazioni — degli uomini, delle famiglie, delle società e degli Stati fra il polo del peccato e quello dell’amore.
Come il punto di partenza del primo sviluppo dottrinale è stato Dio, ora si devono tener presenti sia il peccato che quella particolare e straordinaria espressione della divina Provvidenza che è la Redenzione. Mi accosto al mistero del peccato sempre facendomi guidare dal Magistero di Papa Giovanni Paolo II, al cui dire, “se leggiamo la pagina biblica della città e della torre di Babele alla luce della novità evangelica, e la confrontiamo con l’altra pagina della caduta dei progenitori, possiamo ricavarne preziosi elementi per una presa di coscienza del mistero del peccato. Questa espressione, nella quale echeggia ciò che san Paolo scrive circa il mistero dell’iniquità, tende a farci percepire quel che di oscuro e di inafferrabile si cela nel peccato. Questo, senza dubbio, è opera della libertà dell’uomo; ma dentro il suo stesso spessore umano agiscono fattori, per i quali esso si situa al di là dell’umano, nella zona di confine dove la coscienza, la volontà e la sensibilità dell’uomo sono in contatto con le forze oscure che, secondo san Paolo, agiscono nel mondo fin quasi a signoreggiarlo.
“Dalla narrazione biblica relativa alla costruzione della torre di Babele emerge un primo elemento, che ci aiuta a capire il peccato: gli uomini hanno preteso di edificare una città, riunirsi in una compagine sociale, esser forti e potenti senza Dio, se non proprio contro Dio. In questo senso, il racconto del primo peccato nell’Eden ed il racconto di Babele, malgrado notevoli differenze di contenuto e di forma tra loro, hanno un punto di convergenza: in ambedue ci si trova di fronte a un’esclusione di Dio per l’opposizione frontale ad un suo comandamento, per un gesto di rivalità nei suoi confronti, per l’ingannevole pretesa di essere “come lui”. Nel racconto di Babele l’esclusione di Dio non appare tanto in chiave di contrasto con lui, ma come dimenticanza e indifferenza di fronte a lui, quasi che Dio non meriti alcun interesse nell’àmbito del disegno operativo ed associativo dell’uomo. Ma in ambedue i casi vien troncato con violenza il rapporto con Dio. Nel caso dell’Eden appare in tutta la sua gravità e drammaticità ciò che costituisce l’essenza più intima e più oscura del peccato: la disobbedienza a Dio, alla sua legge, alla norma morale che egli ha dato all’uomo, scrivendogliela nel cuore e confermandola e perfezionandola con la rivelazione.
“Esclusione di Dio, rottura con Dio, disobbedienza a Dio: lungo tutta la storia umana questo è stato ed è, sotto forme diverse, il peccato, che può giungere fino alla negazione di Dio e della sua esistenza: è il fenomeno chiamato ateismo.
“Disobbedienza dell’uomo, che — con un atto della sua libertà — non riconosce la signoria di Dio sulla sua vita, almeno in quel determinato momento in cui viola la sua legge” (22).
Quanto ho citato potrebbe essere considerato una sorta di “prologo in cielo”, le cui conseguenze sono però immediatamente rilevabili: infatti “nelle narrazioni bibliche […] ricordate la rottura con Dio sfocia drammaticamente nella divisione tra i fratelli.
“Nella descrizione del “primo peccato”, la rottura con Jahvè spezza al tempo stesso il filo dell’amicizia che univa la famiglia umana, cosicché le pagine successive della Genesi ci mostrano l’uomo e la donna, che puntano quasi il dito accusatore l’uno contro l’altra; poi il fratello che, ostile al fratello, finisce col togliergli la vita.
“Secondo la narrazione dei fatti di Babele, la conseguenza del peccato è la frantumazione della famiglia umana, già cominciata col primo peccato e ora giunta all’estremo nella sua forma sociale” (23).
Dopo aver esaminato i fatti scritturali, il Sommo Pontefice passa a esporre la dottrina relativa ai principali rapporti dell’uomo — con Dio, con sé stesso, con gli altri uomini e con il creato — e alla loro tragica rottura : “Chi vuole indagare il mistero del peccato non può non considerare questa concatenazione di causa e di effetto. Come rottura con Dio, il peccato è l’atto di disobbedienza di una creatura che, almeno implicitamente, rifiuta colui dal quale è uscita e che la mantiene in vita; è, dunque, un atto suicida. Poiché col peccato l’uomo rifiuta di sottomettersi a Dio, anche il suo equilibrio interiore si rompe e proprio al suo interno scoppiano contraddizioni e conflitti. Così lacerato, l’uomo produce quasi inevitabilmente una lacerazione nel tessuto dei suoi rapporti con gli altri uomini e col mondo creato. È una legge e un fatto oggettivo, che hanno riscontro in tanti momenti della psicologia umana e della vita spirituale, come pure nella realtà della vita sociale, dov’è facile osservare le ripercussioni e i segni del disordine interiore.
“Il mistero del peccato si compone di questa doppia ferita, che il peccatore apre nel suo proprio fianco e nel rapporto col prossimo. Perciò, si può parlare di peccato personale e sociale: ogni peccato è personale sotto un aspetto; sotto un altro aspetto, ogni peccato è sociale, in quanto e perché ha anche conseguenze sociali” (24). Infatti, se “il peccato, in senso vero e proprio, è sempre un atto della persona, perché è un atto di libertà di un singolo uomo, e non propriamente di un gruppo o di una comunità”, in quanto “atto della persona, […] ha le sue prime e più importanti conseguenze nel peccatore stesso: cioè, nella relazione di questi con Dio, che è il fondamento stesso della vita umana; nel suo spirito, indebolendone la volontà e oscurandone l’intelligenza” (25). Qual è, allora, il significato del peccato sociale? “Parlare di peccato sociale vuol dire, anzitutto, riconoscere che, in virtù di una solidarietà umana tanto misteriosa e impercettibile quanto reale e concreta, il peccato di ciascuno si ripercuote in qualche modo sugli altri. È, questa, l’altra faccia di quella solidarietà che, a livello religioso, si sviluppa nel profondo e magnifico mistero della comunione dei santi, grazie alla quale si è potuto dire che “ogni anima che si eleva, eleva il mondo”. A questa legge dell’ascesa corrisponde, purtroppo, la legge della discesa, sicché si può parlare di una comunione del peccato, per cui un’anima che si abbassa per il peccato abbassa con sé la Chiesa e, in qualche modo, il mondo intero. In altri termini, non c’è alcun peccato, anche il più intimo e segreto, il più strettamente individuale, che riguardi esclusivamente colui che lo commette. Ogni peccato si ripercuote, con maggiore o minore veemenza, con maggiore o minore danno, su tutta la compagine ecclesiale e sull’intera famiglia umana. Secondo questa prima accezione, a ciascun peccato si può attribuire indiscutibilmente il carattere di peccato sociale.
“Alcuni peccati, però, costituiscono, per il loro oggetto stesso, un’aggressione diretta al prossimo e — più esattamente, in base al linguaggio evangelico — al fratello. Essi sono un’offesa a Dio, perché offendono il prossimo. A tali peccati si suole dare la qualifica di sociali, e questa è la seconda accezione del termi- ne” (26).
“La terza accezione di peccato sociale riguarda i rapporti tra le varie comunità umane. Questi rapporti non sempre sono in sintonia col disegno di Dio, che vuole nel mondo giustizia, libertà e pace tra gli individui, i gruppi, i popoli. Così la lotta di classe, chiunque ne sia il responsabile e, a volte, il codificatore, è un male sociale“ (27).
Il Magistero afferma, dunque, l’esistenza di una solidarietà sia anagogica che catagogica, un contributo individuale all’elevazione oppure alla degradazione collettiva: si tratta di una solidarietà che definisce una comunione dei santi e una comunione del peccato, e che opera secondo una legge dell’ascesa alla quale corrisponde, in negativo, una legge della discesa, rispettivamente attivate dal mysterium o sacramentum pietatis e dal mysterium iniquitatis. E, con ogni evidenza, il mysterium pietatis e il mysterium iniquitatis costruiscono rispettivamente, attraverso le ripercussioni ecclesiali e generalmente sociali degli atti delle persone, l’ordine sociale giusto e l’ordine sociale ingiusto. Infatti, il “[…] mistero della pietà […] nella storia dell’uomo si oppone al peccato, al mistero dell’iniquità. Da un lato, come si esprime sant’Agostino, c’è l’”amore di sé fino al disprezzo di Dio”; dall’altro, c’è l’”amore di Dio fino al disprezzo di sé”” (28); e “la maturazione dell’uomo in questa vita è impedita dai condizionamenti e dalle pressioni, che su di lui esercitano le strutture e i meccanismi dominanti nei diversi settori della società. Si può dire che in molti casi i fattori sociali, anziché favorire lo sviluppo e l’espansione dello spirito umano, finiscono con lo strapparlo alla genuina verità del suo essere e della sua vita — sulla quale veglia lo Spirito Santo — per sottometterlo al “principe di questo mondo”” (29).
8. La Contro-Rivoluzione come collaborazione dell’uomo con il “mysterium pietatis”
Attraverso le indicazioni del Magistero ho descritto la necessità di un ordine sociale che rispetti e favorisca lo sviluppo della vita sociale e ho definito i caratteri fondamentali di questa necessità. Ma la descrizione dell’ordine sociale naturale — cioè dell’ordine voluto da Dio — e la sua collocazione all’interno del dramma della storia definisce le necessità materiali e spirituali dell’uomo e, fra esse, le condizioni del loro libero soddisfacimento, cioè precisamente quelle libertà concrete che si manifestano e si realizzano “[…] nelle azioni, nelle strutture e nelle istituzioni” (30) rispettose di tali necessità e continuamente insidiate da uno stimolo al disordine e alla sregolatezza, così che la Città degli uomini vive in stato di costante seduzione da parte della Città del demonio e di non meno costante attrazione ad opera della Città di Dio.
Dopo aver esposti i fatti ed enunciate le categorie sulla cui base vanno giudicati, mi sembra giunto il momento di trattare delle attività pratiche, operative, quindi di passare dalla morale e dalla sua fondazione teologica, cioè dalla morale come dottrina alla morale come pratica e all’esercizio di essa, cioè alla penitenza. Collegata alla metanoia, “[…] penitenza significa l’intimo cambiamento del cuore“, ma “[…] vuol dire anche cambiare la vita in coerenza col cambiamento del cuore, ed in questo senso il fare penitenza si completa col fare degni frutti della penitenza: è tutta l’esistenza che diventa penitenziale, tesa cioè ad un continuo cammino verso il meglio. Fare penitenza, però, è qualcosa di autentico ed efficace soltanto se si traduce in atti e gesti di penitenza. In questo senso, penitenza significa, nel vocabolario cristiano teologico e spirituale, l’ascesi, vale a dire lo sforzo concreto e quotidiano dell’uomo, sorretto dalla grazia di Dio”, fra l’altro “[…] per superare in se stesso ciò che è carnale, affinché prevalga ciò che è spirituale […]. La penitenza, pertanto, è la conversione che passa dal cuore alle opere e, quindi, all’intera vita del cristiano” (31). E frutto della penitenza è la riconciliazione, la “[…] quadruplice riconciliazione”: “[…] con Dio, con se stesso, con i fratelli, con tutto il creato” (32).
Se poi è vero che la riconciliazione viene da Dio e che la Chiesa è il grande sacramento di riconciliazione, è ugualmente vero che il mysterium iniquitatis “[…] contrasta come antagonista con un altro principio operante“, il già ricordato mysterium pietatis: “Il peccato dell’uomo sarebbe vincente e alla fine distruttivo, il disegno salvifico di Dio rimarrebbe incompiuto o, addirittura, sconfitto, se questo mysterium pietatis non si fosse inserito nel dinamismo della storia per vincere il peccato dell’uomo” (33). “Il mistero o sacramento della pietà, pertanto, è il mistero stesso del Cristo. Esso è, in una sintesi pregnante, il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione, della piena Pasqua di Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria: mistero della sua passione e morte, della sua risurrezione e glorificazione. Ciò che san Paolo […] ha voluto ribadire è che questo mistero è il segreto principio vitale che fa della Chiesa la casa di Dio, la colonna e il sostegno della verità. Nel solco dell’insegnamento paolino, noi possiamo affermare che questo medesimo mistero dell’infinita pietà di Dio verso di noi è capace di penetrare fino alle nascoste radici della nostra iniquità, per suscitare nell’anima un movimento di conversione, per redimerla e scioglierne le vele verso la riconciliazione” (34).
“Ma c’è nel mysterium pietatis un altro versante: la pietà di Dio verso il cristiano deve aver corrispondenza nella pietà del cristiano verso Dio. In questa seconda accezione, la pietà (eusébeia) significa appunto il comportamento del cristiano, che alla pietà paterna di Dio risponde con la sua pietà filiale” (35), causa dello sforzo da parte del cristiano affinché “[…] non aumenti nel mondo quel peccato chiamato dal Vangelo “bestemmia contro lo Spirito Santo”; […] esso, anzi, retroceda nelle anime degli uomini — e per riflesso negli stessi ambienti e nella varie forme della società” (36), e “[…] perché la storia delle coscienze e la storia della società nella grande famiglia umana non si abbassino verso il polo del peccato col rifiuto dei comandamenti divini “fino al disprezzo di Dio”, ma piuttosto si elevino verso l’amore, in cui si rivela lo Spirito che dà la vita” (37).
Quindi,“[…] essendo il peccato il principio attivo della divisione — divisione fra l’uomo e il Creatore, divisione nel cuore e nell’essere dell’uomo, divisione fra gli uomini singoli e fra i gruppi umani, divisione fra l’uomo e la natura creata da Dio —, soltanto la conversione dal peccato è capace di operare una profonda e duratura riconciliazione dovunque sia penetrata la divisione” (38); e “[…] la conversione che passa dal cuore alle opere e, quindi, all’intera vita del cristiano” (39) coincide con la Contro-Rivoluzione, che ha come fine la restaurazione, cioè la riconciliazione dell’ordine sociale con la propria natura, con le leggi volute da Dio a sua proposito. Si tratta di una pratica sociopolitica, la cui regola è costituita dalla dottrina sociale naturale e cristiana, cioè dalla dottrina sociale della Chiesa, “[…] un ampio e solido corpo di dottrina riguardante le molteplici esigenze inerenti alla vita della comunità umana, ai rapporti tra individui, famiglie, gruppi nei suoi diversi àmbiti, e alla stessa costituzione di una società che voglia essere coerente con la legge morale, che è fondamento della civiltà.
“Alla base di questo insegnamento sociale della Chiesa si trova, ovviamente, la visione che essa trae dalla parola di Dio circa i diritti e i doveri degli individui, della famiglia e della comunità; circa il valore della libertà e le dimensioni della giustizia; circa il primato della carità; circa la dignità della persona umana e le esigenze del bene comune, al quale devono mirare la politica e la stessa economia: Su questi fondamentali principi del magistero sociale, che confermano e ripropongono i dettami universali della ragione e della coscienza dei popoli, poggia in gran parte la speranza di una pacifica soluzione di tanti conflitti sociali e, in definitiva, della riconciliazione universale” (40). Nella prospettiva di questa universale restaurazione la Contro-Rivoluzione non solo sceglie originariamente di orientare la Città degli uomini verso la Città di Dio in opposizione alla Città del demonio, ma mira pure alla realizzazione concreta delle condizioni che rendano possibile una vita sociale giusta. Infatti tutto l’umano, ogni realizzazione propriamente umana — che è più di quanto si realizza nell’uomo — è realizzazione di libertà, e “[…] la libertà si esprime e si realizza nelle azioni, nelle strutture e nelle istituzioni, grazie alle quali gli uomini comunicano tra loro ed organizzano la loro vita in comune” (41).
Per questo, la realizzazione delle libertà concrete costituisce la prima finalità dell’azione sociale, culturale e civica, del contro-rivoluzionario che, poiché ama i fini orientati al fine ultimo, Dio, ama realisticamente i mezzi per perseguirli e fra essi include la possibilità, la condizione e la libertà del loro perseguimento.
E della difesa di queste condizioni, quando sopravvivano, e della loro conquista o creazione, il contro-rivoluzionario fa mezzo per la restaurazione, cioè per la riconciliazione della società con la sua natura voluta da Dio. Questo è quanto si può leggere in un testo in proposito classico, dal momento che in esso Papa san Pio X espone l’essenza della Contro-Rivoluzione e, in filigrana, ne enuncia anche il nome: “[…] non si edificherà la società diversamente da come Dio l’ha edificata; non si edificherà la società se la Chiesa non ne pone le basi e non ne dirige i lavori; non si deve inventare la civiltà, né si deve costruire la nuova società tra le nuvole. Essa è esistita ed esiste; è la civiltà cristiana, è la società cattolica. Non si tratta che di instaurarla, ristabilirla incessantemente sulle sue naturali e divine fondamenta contro i rinascenti attacchi della malsana utopia, della rivolta e dell’empietà: “omnia instaurare in Christo”” (42).
Fra le libertà concrete merita poi di essere ricordata quella di essere contro-rivoluzionari e di fare la Contro-Rivoluzione, cioè, fra l’altro, la libertà di lottare per le libertà.
9. Conclusione
Terminato l’abbozzo, lo guardo con gioia, ma — a dire il vero — questa gioia non mi deriva dal mio apporto al tema — un apporto insignificante dal punto di vista quantitativo e risibile da quello qualitativo —, ma dal fatto di aver potuto esporre tesi di particolare portata all’interno del pensiero cattolico contro-rivoluzionario con materiale tratto dal più recente Magistero della Chiesa, con la sola difficoltà costituita dalla necessità di scegliere all’interno di un deposito straordinariamente ricco. Quale gioia più grande può provare un fedele del sentire Pietro in qualche modo confermare, se non quanto lui ha faticosamente elaborato, almeno ciò che ha ricevuto e intende trasmettere? E, se questa gioia è sempre grande, penso si possa definire enorme, straordinaria, in questo fine di secolo, che è anche fine di millennio. Infatti, che si sappia, in questi anni nessun contro-rivoluzionario ha scritto all’autorità ecclesiastica una lettera equivalente a quella indirizzata nel 1852 da Juan Donoso Cortés al cardinale Raffaele Fornari, allora prefetto della Sacra Congregazione degli Studi, in vista della pubblicazione del Sillabo da parte di Papa Pio IX (43), e ciononostante — e nonostante tutto — sembra che qualcosa di simile sia giunto!
Ancora a proposito del mio abbozzo, lo guardo di nuovo e immagino che la mia gioia potrebbe essere guastata da qualche amarezza. Infatti, nei testi magisteriali che ho citato non mancano elementi che, nella loro espressione verbale, sono certamente estranei alla cultura della scuola cattolica contro-rivoluzionaria: per tutti ricordo i “diritti dell’uomo”, ai quali fanno riferimento sia l’enciclica Redemptor hominis che l’Istruzione su libertà cristiana e liberazione “Libertatis conscientia”, anche se, chiaramente, nel tentativo di “[…] purificare questa espressione dalle escrescenze illuministiche e di dare a essa una dimensione che nessun razionalismo laicista è capace di raggiungere” (44). Per eliminare in radice questa amarezza sarebbe forse necessario prendere visione completa di un’opera spirituale scritta da un padre gesuita vissuto fra il secolo diciassettesimo e il secolo diciottesimo, Jean-Pierre de Caussade, e intitolata nel manoscritto originale Traité où l’on découvre la vraie science de la perfection du salut, ma pubblicata per la prima volta nel 1861 da padre Henri Ramière S.J., direttore dell’Apostolato della Preghiera e fondatore del Messager du S. Coeur, con il titolo L’Abandon à la Providence divine envisagé comme le moyen le plus facile de sanctification. Dal momento che in questa occasione ne è evidentemente impossibile la lettura integrale, mi limito a riproporre una tesi in essa fondamentale: “Così tutto quello che si oppone all’ordine di Dio non serve che a renderlo più adorabile. Tutti i nemici dell’equità sono servitori della giustizia, e l’azione divina costruisce la Gerusalemme celeste con gli strumenti di Babilonia che non si compone che dei loro frammenti consumati e dispersi” (45). La Madonna di Fatima ci aiuti a essere, anche in questo compito, “adiutores Dei”, “collaboratori di Dio” (46).
Giovanni Cantoni
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(1) Cfr. Juan Bms. Vallet de Goytisolo, Tres ensayos. Cuerpos intermedios. Representación política. Principio de subsidiariedad, Speiro, Madrid 1981, pp. 142-145.
(2) Cit. in padre Paolo Dezza S.J., Esercizi ignaziani. Corso di otto giorni per gruppi di gesuiti trascritto dalla registrazione e riveduto dall’autore, a cura dei Gesuiti di La Civiltà Cattolica (Roma) e di San Fedele (Milano), Milano 1987, p. 14.
(3) Cfr. Mt. 13, 52.
(4) Cfr. Francisco Elías de Tejada y Spínola, La Monarquía tradicional, Rialp, Madrid 1954; dell’opera esiste un’ed. it. nella quale sono mutati i capitoli I e VII: cfr. Idem, La monarchia tradizionale, Edizioni dell’Albero, Torino 1966.
(5) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977.
(6) Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione su libertà cristiana e liberazione “Libertatis conscientia”, del 22-3-1986, n. 32.
(7) Ibid., n. 33.
(8) Ibid., n. 28.
(9) Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Familiaris consortio, del 22-11-1981, n. 12.
(10) Ibid., n. 15.
(11) Ibid., n. 42.
(12) Idem, Lettera apostolica ai giovani e alle giovani del mondo in occasione dell’Anno Internazionale della Gioventù, del 31-3-1985, n. 11.
(13) Ibidem.
(14) Ibid., n. 12.
(15) Idem, Enciclica Laborem exercens, del 14-9-1981, n. 9.
(16) Ibidem.
(17) Ibid., n. 10.
(18) Ibid., n. 15.
(19) Idem, Enciclica Redemptor hominis, del 4-3-1979, n. 17.
(20) Idem, Discorso ai partecipanti al Convegno promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana sul tema: Dalla “Rerum novarum” ad oggi: la presenza dei cristiani alla luce dell’insegnamento sociale della Chiesa, del 31-10-1981, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. IV, 2, p. 523.
(21) Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione su libertà cristiana e liberazione “Libertatis conscientia”, cit., n. 32.
(22) Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia, del 2-12-1984, n. 14.
(23) Ibid., n. 15.
(24) Ibidem.
(25) Ibid., n. 16.
(26) Ibidem.
(27) Ibidem.
(28) Idem, Enciclica Dominum et vivificantem, del 18-5-1986, n. 48.
(29) Ibid., n. 60.
(30) Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione su libertà cristiana e liberazione “Libertatis conscientia”, cit., n. 32.
(31) Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia, cit., n. 4.
(32) Ibid., n. 8.
(33) Ibid., n. 19.
(34) Ibid., n. 20.
(35) Ibid., n. 21.
(36) Idem, Enciclica Dominum et vivificantem, cit., n. 47.
(37) Ibid., n. 48.
(38) Idem, Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia, cit., n. 23.
(39) Ibid., n. 4.
(40) Ibid., n. 26.
(41) Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione su libertà cristiana e liberazione “Libertatis conscientia”, cit., n. 32.
(42) San Pio X, Lettera apostolica Notre charge apostolique, del 25-8-1910, in La pace interna delle nazioni. Insegnamenti pontifici, con introduzione ed indici sistematici dei monaci di Solesmes, trad. it., 2a ed., Edizioni Paoline, Roma 1962, p. 274.
(43) Cfr. Juan Donoso Cortés, marchese di Valdegamás, Carta al cardenal Fornari, del 19-6-1852, in Idem, Obras completas, edizione, introduzione e note di Carlos Valverde S. J., vol. II, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1970, pp. 744-762; sull’occasione dello scritto, cfr. C. Valverde S. J., Introducción general, ibid., vol. I, pp. 73-74; trad. it. in Sillabo ovvero sommario dei principali errori dell’età nostra che sono notati nelle allocuzioni concistoriali, encicliche ed altre lettere apostoliche del SS. Signor Nostro Pio Papa IX, nuova ed. it. con testo a fronte e appendice documentaria, Cantagalli, Siena 1977, pp. 111-135.
(44) J. Bms. Vallet de Goytisolo, El hombre, sujeto de liberación (Referencia a los denominados “derechos humanos”), in Verbo, serie XXVI, n. 253-254, marzo-aprile 1987, p. 343.
(45) Jean-Pierre de Caussade S. J., L’abbandono alla divina Provvidenza, testo critico originale ristabilito e presentato da Miche1 Olphe-Galliard S. J., trad. it., 5a ed., Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1986, p. 127.
(46) I Cor. 3, 9.