GIOVANNI CANTONI, Cristianità n. 261-262 (1997)
1. Mi propongo di ricostruire, secondo le categorie interpretative della scuola cattolica contro-rivoluzionaria, quanto è accaduto ed è in via di accadimento nel mondo per relazione al socialcomunismo, avendo presente in modo particolare il suo focus storico sovietico e la sua agenzia italiana, facendo riferimento:
a. con l’espressione “accaduto” alla nascita del socialcomunismo dall’albero della Rivoluzione;
b. con l’espressione “in via di accadimento”, a quanto si viene producendo nello stesso albero a partire dal 1968/1989, due date collegate da qualcosa di ben maggiore del doppio rovesciamento delle loro ultime due cifre;infine,
c. non pretendo assolutamente di dare ragione — neppure in modo sintetico — dell’esistente storico nella sua globalità, ma di mettere a fuoco un momento d’avanguardia del processo rivoluzionario, soprattutto della transizione fra due fasi di esso, da quella a dominante socio-economica a quella a dominante socio-culturale, non per questo però priva di una dimensione macrostrutturale.
2. La prospettiva contro-rivoluzionaria è caratterizzata anzitutto dall’attenzione privilegiata al rapporto fra l’uomo e Dio, fra l’uomo “essere vivente sociale” e Dio, fra le comunità umane e Dio; quindi — in subordine — alla storia di questo rapporto per relazione alle singole comunità umane, articolazioni dell’unica famiglia umana. In altri termini, l’attenzione del cattolico contro-rivoluzionario è inevitabilmente e correttamente concentrata sulla natura dell’uomo, avendo però ben presente che questa natura ha una storia — un dinamismo intrinseco e una dinamica estrinseca —, che costituisce una preziosa fonte d’informazione su tale natura, quindi un ricco deposito di esperienza, perciò base adeguata di previsione.
3. L’uomo, “essere vivente in relazione”, ha rapporti con Dio, con gli altri uomini e con il creato, la realtà creata non umana: sebbene si possano identificare — e quindi descrivere — modelli di gran lunga più articolati, il rapporto con Dio può essere indicato brevemente, ma non per questo semplicisticamente, come religione, quello con gli altri come politica e quello con il creato come economia.
4. Lo storico soddisfacimento, la positiva saturazione di questi rapporti definisce il processo di civilizzazione, che si realizza come un processo di civilizzazione, cioè interessa immediatamente una porzione di umanità. Si tratta del ri-vestimento dell’uomo che si accorge di essere nudo dopo il peccato e si fornisce di vesti, di vestis — dice sant’Agostino (354-430) —, “id est hominum instituta”, cioè di “istituzioni umane” (1), sia attraverso l’opera propria, intrecciando foglie di fico (2), sia attraverso l’azione provvidente di Dio, la provvidenza naturale divina, che gli si manifesta con la fornitura di vesti di pelli (3).
5. In quest’ottica, il rapporto con Dio è evidentemente dominante per l’oggettiva rilevanza di un termine della relazione, cioè Dio; e la rottura del rapporto con Dio, la “caduta” dell’uomo, definisce la Rivoluzione come atto di insubordinazione e come processo nel corso del quale si consuma tale rottura, attraverso la sua proiezione a cascata, la sua “ri-caduta” sugli altri rapporti identificati.
6. Per relazione alla civiltà cristiana romano-germanica, indicata talora — con diverse sottolineature e con diversa precisione nonché con soggiacenti diverse limitazioni — anche come “Medioevo”, “Europa cristiana”, “Occidente”, “civiltà occidentale”, e così via, Papa Giovanni Paolo II osserva che, “nel corso […] del millennio che sta per chiudersi, l’Europa ha subìto la tentazione di una riconversione all’umanesimo pagano“ (4); ma, se “la crisi messa in moto dall’Umanesimo angosciò non pochi spiriti e raggiunse piena consapevolezza culturale nell’epoca dell’Illuminismo” (5), momento significativo di questo itinerario è stata la “[…] rivoluzione culturale del Rinascimento, la cui radice ultima consisteva nella sostituzione dell’idea di Dio con quella dell’uomo come misura e luce della creazione” (6). Attraverso questa rivoluzione culturale, dal punto di vista dottrinale e di lungo periodo si apre la strada alla socializzazione dell’ateismo: “[…] in una gigantesca sfida — afferma sempre il Sommo Pontefice —, l’uomo moderno, dopo il Rinascimento, si è eretto contro […] [il] messaggio di salvezza, e si è messo a rifiutare Dio nel nome della sua stessa dignità di uomo. Dapprima riservato a un piccolo gruppo di spiriti, l’”intellighentia” che si considerava come un’élite, l’ateismo è oggi divenuto un fenomeno di massa che investe le Chiese. Molto di più, esso le compenetra dall’interno, come se i credenti stessi, ivi compresi coloro che si rifanno a Gesù Cristo, trovassero in sé una segreta connivenza rovinosa della fede in Dio, nel nome dell’autonomia e della dignità dell’uomo. Si tratta di un “vero secolarismo”, secondo l’espressione di Paolo VI nella sua esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi: “Una concezione del mondo per la quale quest’ultimo si spiega da solo, senza che ci sia bisogno di ricorrere a Dio; Dio divenuto così superfluo e ingombrante. Un tale secolarismo per riconoscere il potere dell’uomo, finisce dunque per sorpassare Dio, e anche per negare Dio”“ (7).
7. La tesi citata potrebbe essere oggetto di un’immediata ripulsa, se non addirittura venire derisa, in quanto tesi smentita dai fatti. Se, all’inizio degli anni 1960, come esito del processo di secolarizzazione si poteva ipotizzare la fine della religione, quindi l’avvento dell’ateismo, nel terzo di secolo da allora trascorso l’esplosione del fenomeno delle nuove religioni e di quello pentecostale, la loro adeguata rilevazione sociologica e la legittima previsione pure sociologica a loro proposito smentiscono vistosamente la tesi enunciata (8). Però le cose non stanno in questi termini. Infatti, è più corretto dire: “smentirebbero la tesi enunciata”, se la tesi enunciata potesse essere lecitamente interpretata nei termini grossi secondo cui ateismo equivale all’esplicita negazione dell’esistenza di Dio e si esaurisce in essa. Ma la tesi pontificia si inscrive nel Magistero, e il Magistero si esprime in un corpo dottrinale che corretta ermeneutica, onesta e adeguata esegesi vuole venga interpretato tenendo conto per certo del significato primo, immediato e per così dire assoluto di ogni proposizione, ma anche del suo contesto e della sua relazione con il Magistero pregresso.
8. Ebbene, in questa prospettiva merita di essere finalmente letto — e finalmente vuol dire sia “infine” sia “non è mai troppo tardi” — quanto affermato nella costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes nei paragrafi n. 19, De formis et radicibus atheismi, n. 20, De atheismo systematico, e n. 21, De habitudine Ecclesiae ad atheismum. Mi limito a richiamare la fenomenologia dell’ateismo così com’è descritta al n. 19: “Con il termine “ateismo” vengono designati fenomeni assai diversi tra loro. Alcuni negano esplicitamente Dio; altri ritengono che l’uomo non possa dir niente di lui; altri poi prendono in esame il problema relativo a Dio con un metodo tale per cui il problema sembra privo di senso. Molti, oltrepassando indebitamente i confini delle scienze positive, o pretendono di spiegare tutto solo da questo punto di vista scientifico, oppure al contrario non ammettono più alcuna verità assoluta”, “[…] aut e contra nullam omnino veritatem absolutam admittunt”. E che altro è la non ammissione di nessuna verità assoluta se non il relativismo (9)?
9. Con queste categorie percorro rapidamente l’itinerario di “svestizione” quale ho detto essere la Rivoluzione nel linguaggio della scuola cattolica contro-rivoluzionaria — ma i termini del “ri-vestimento civile” e del “denudamento rivoluzionario” sono già ben presenti nell’opera di Edmund Burke (1729-1797) attraverso la dialettica del “nudo” e del “vestito” (10) —; e di questa scuola integro il patrimonio dottrinale non solamente con l’apporto del Magistero della Chiesa cattolica — l’attenzione tematica a esso è carattere della scuola citata a partire dalla seconda metà del secolo XIX e, soprattutto, nel secolo XX —, ma anche con il contributo implicito fornito al pensiero contro-rivoluzionario stesso da quello barocco, in primis et ante omnia da Giambattista Vico (1668-1744), così come — in precedenza — dall’umanesimo cristiano che conserva la nozione di senso comune: per tutti ricordo Juan Luís Vives (1492-1540).
Dunque, a partire dalla rivoluzione culturale del Rinascimento, l’ateismo — nell’accezione fenomenologicamente lata e culturalmente raffinata che ho richiamato dalla costituzione conciliare Gaudium et spes — si socializza in un duplice senso: da un lato, si estende ai diversi rapporti che l’uomo intrattiene come essere vivente relazionale e produce l’attenuazione e poi la tendenziale scomparsa del rimando morale nei diversi ambiti della vita umana; dall’altro, questa condizione di de-moralizzazione diventa, da fenomeno minoritario, elitario, fenomeno di massa. Così può venir descritto l’itinerario che, a partire dal Rinascimento e dalla collegata Riforma protestantica, vede l’ateismo come indifferenza alla religione e alla morale interessare prima la vita politica, poi quella economico-sociale, finalmente la vita culturale simpliciter delle masse: dopo il 1517, il 1789 e il 1917 viene il 1968. Così, la serie di avvenimenti storici macroscopici e delle epoche che richiamano la I, la II e la III Rivoluzione è delimitata da due rivoluzioni culturali: a monte una rivoluzione culturale elitaria, il Rinascimento — nella classificazione usata da Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione raccolta fra gli elementi della I Rivoluzione —, e a valle una rivoluzione culturale di massa, indicata dallo stesso pensatore brasiliano come IV Rivoluzione (11); e l’abbattimento — meglio, la riduzione della rilevanza delle grandi strutture di rivestimento — permette e favorisce il passaggio della corruzione dall’élite alla massa. L’esito è un’universale impudicitia, l’intronizzazione del contrario della pudicitia, del pudor, di quel pudor-metus che, coscienza della colpa e del negativo, è stato motore della riscoperta della pietas e del rivestimento in tutte le sue modalità; ove pudor, pudicitia e impudicitia vanno letti non solo nella loro accezione relazionata alla sessualità, ma anche nel senso lato che comporta il costante, rispettivo riferimento alla pietas animi e alla castitas mentis da un lato e all’empietà dall’altro, quindi alla sapientia e alla stultitia, infine allo sforzo, al conatus, di porre rimedio alle conseguenze tutte del peccato, cioè allo spogliamento nella sua globalità attraverso un altrettanto globale rivestimento (12).
10. Né si può negare l’ipotesi — avvalorata da significativi sintomi — di una macabra ulteriorità rispetto allo spogliamento, al denudamento, un processo di “naturalizzazione”, di trionfo di naturalismo, cioè di riduzione del reale a pura natura, con tematica negazione ed esclusione del soprannaturale; un processo spinto fino alla contro-natura e al preternaturale diabolico, cioè a un orizzonte che includa positivamente il demoniaco: ecco lo scorticamento, di cui dà emblematica descrizione Gustav Meyrink (1868-1932) nell’ultimo capitolo del romanzo La notte di Valpurga (13), significativamente intitolato Il tamburo di Lucifero (14), nel quale narra appunto di un tamburo costruito con pelle umana e al cui rullio vengono chiamati a raccolta e operano rivoluzionari, “[…] uomini dai pugni di ferro, casacche turchine, fasce scarlatte sul braccio. Hanno formato una guardia del corpo. Sull’esempio degli antichi Taboriti si fanno chiamare i “fratelli del monte Horeb”. […] vessilli rossi sventolano come vapori di sangue davanti alle case. Una moltitudine urlante, in delirio, li circonda reggendo fiaccole accese” (15).
11. Il 1968 ricorda due avvenimenti, letti consuetamente come alternativi, e certamente vissuti come tali dalla gran parte dei loro protagonisti, ma — forse — non privi di legame, naturalmente prescindendo dalle prime vittime di entrambi i fenomeni, costituite da quanti in essi hanno riposto fiducia nella loro lettera: il Maggio francese e la Primavera di Praga. In entrambi i casi, viene messo in questione l’establishment, e si dà inizio a una rivoluzione culturale. Ma “l’opera del ’68 era rimasta incompiuta: doveva essere ultimata, e la sarebbe stata nel 1989” (16): la notazione mi pare acuta, e per certo fatta da un punto di vista che non è il mio, ma non è la prima volta che vi è coincidenza di analisi fenomenologica fra destra e sinistra — localizzo con questi termini una diametrale contrapposizione di prospettive —, evidentemente accompagnata da diversa qualificazione dei fenomeni stessi. Però,
a. se “il Maggio francese è stato costretto a una brusca fine da un pagamento in contanti troppo generoso per poter essere rifiutato, e da un’energica azione riformista che ha ristrutturato alle radici il sistema scolastico, e ha liquidato a grandi passi la vecchia Francia” (17);
b. se “la primavera di Praga è stata costretta ad una fine altrettanto brusca dall’intervento militare sovietico, cui ha fatto seguito una sanguinosa repressione che ha restaurato la vacillante dittatura del Partito comunista” (18);
c. quanto è annunciato e represso nel 1968 con la Primavera di Praga prosegue nel 1989: “lo stesso Dubcek ha sottolineato le notevoli affinità esistenti fra il suo programma riformista, che aveva ispirato la Primavera di Praga nel 1968, e il programma di “apertura” e “rinnovamento” di Gorbaciov, che ha preparato il campo e, per molti aspetti, ha promosso i cambiamenti radicali avvenuti nel corso del 1989 nell’Europa dell’Est e nella stessa Unione Sovietica” (19).
Infatti, quanto è stato represso nel 1968 perché in contrasto con la conservazione di un sistema di potere, si è trasformato in àncora di salvezza, quindi in necessità, a fronte della sconfitta patita dal sistema imperiale socialcomunista nella terza guerra mondiale, sconfitta prodotta — faccio mia l’opinione condivisa secondo diverse prospettive, per esempio, da Aleksandr Isaevic’ Solz’enicyn (20), da Alexandre de Marenches (1921-1995) (21) e da François Fejto= (22) — dall’accelerazione impressa alla conflittualità e alla concorrenzialità tecnologica fra Occidente e Oriente nel corso delle due amministrazioni guidate da Ronald Wilson Reagan, soprattutto attraverso la realizzazione del programma Guerre Stellari: “L’Urss si è esaurita in una corsa in cui ha dovuto destinare al bilancio militare una parte sempre crescente del suo prodotto nazionale. Gli Stati Uniti hanno resistito meglio e, per lungo tempo, hanno potuto conciliare la prosperità con la difesa” (23).
12. Con riferimento al socialcomunismo parlo di “metamorfosi”, di “trasformazione”: con riferimento all’uso del termine da parte di Plinio Corrêa de Oliveira, credo che, quando si tratta di “metamorfosi della Rivoluzione”, esso vada inteso in un senso debole e non radicale, cioè tale da suggerire sì una diversa presentazione di una determinata realtà, ma non un mutamento della sua natura; quando si tratta di “metamorfosi del processo rivoluzionario”, cioè della prassi della Rivoluzione, penso si possa — se non addirittura si debba — intendere invece un senso forte (24).
13. Così, il processo rivoluzionario, detto socialcomunista nella sua fase socio-economica, ma erede e portatore di tutto il processo rivoluzionario — sono note le chiamate di correo di Karl Marx (1818-1883) relativamente alle fasi precedenti del processo e ai loro operatori principali (25) — passa dall’ateismo sistematico — i cui “[…] fautori […], quando arrivano a prendere in mano il governo, combattono con violenza la religione, e diffondono l’ateismo anche ricorrendo agli strumenti di pressione, di cui dispone il pubblico potere, soprattutto nel campo dell’educazione dei giovani” (26) — all’ateismo che si esprime attraverso la negazione dell’esistenza di ogni verità assoluta, cioè al relativismo.
A questa descrizione se ne potrebbe affiancare un’altra: il momento socio-economico della Rivoluzione perde la sua specificità, rifluisce nella corrente principale del processo, nella Rivoluzione mainline; e il suo relativismo aggressivo, il suo tentativo violento d’imposizione dell’inesistenza di verità assolute si spegne e confluisce con manifestazioni di relativismo di altra fonte, per esempio quello massonico (27). Così, dopo il divorzio fra ateismo sistematico e pubblico potere totalitario, si celebrano gli sponsali fra lo stesso pubblico potere, questa volta democratico, e l’ateismo relativistico: “Dopo la caduta, in molti Paesi, delle ideologie che legavano la politica ad una concezione totalitaria del mondo — e prima fra esse il marxismo —, si profila oggi un rischio non meno grave per la negazione dei fondamentali diritti della persona umana e per il riassorbimento nella politica della stessa domanda religiosa che abita nel cuore di ogni essere umano: è il rischio dell’alleanza fra democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento morale e la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità. Infatti, “se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia”“ (28).
14. Se qualcuno, ricordando l’affermazione del Manifesto del Partito comunista secondo cui “[…] i comunisti possono riassumere la loro dottrina in quest’unica espressione: abolizione della proprietà privata” (29), avesse correttamente a chiedermi che fine ha fatto uno dei temi maggiori e maggiormente caratterizzanti della propaganda e della dottrina socialcomunista, appunto l’avversione alla proprietà privata, credo di dover rispondere, sulla base dei fatti, nel modo seguente: si tratta di un’avversione non certo scomparsa in chi ne ha fatto propaganda per una vita — quando non la ragione di una vita, o addirittura una ragione di vita —, ma l’avversione tematica a uno dei comandamenti del decalogo, “Non rubare”, è come riassorbita nell’avversione formalmente soft alla premessa della stessa legge morale, “Io sono il Signore tuo Dio”, identificata come fondante ogni e singolo comandamento. L’avversione alla proprietà privata, manifestata nella sua “de-moralizzazione”, cioè nella sua “liberazione” dalla morale e dalla capitalizzazione storica della sua convivenza con la morale, nella sua assolutizzazione, nella sua trasformazione in un assoluto, è stata occasione dialettica per alimentare l’avversione radicale a essa, spinta fino al proposito della sua abolizione. Il danno anzitutto economico, poi globale, prodotto da tale abolizione costringe a ritornare alla sua accettazione, ma si tratta di un’accettazione senza vincoli morali: il passaggio è dal capitalismo di Stato al capitalismo selvaggio, e ciò che conta sembra essere appunto non tanto l’accettazione o il rifiuto della proprietà privata in quanto tale, ma la mancanza di ogni riferimento morale. Ma, se “selvaggio” si contrappone a “civile”, non è forse l’assenza o la presenza della morale che li distingue? Non è il legame con la morale che fa una società civile, che fa di una società una civiltà, cioè “[…] una società che voglia esser coerente con la legge morale, che è fondamento della civiltà” (30)? Perciò, allo stato, pare straordinariamente puntuale la proposizione LVIII condannata nel Sillabo di Papa Pio IX (1846-1878): “Altre forze non si devono ammettere fuori di quelle, che sono riposte nella materia, ed ogni regola ed onestà dei costumi si deve collocare nell’accumulare e nell’accrescere per qualsiasi maniera le ricchezze nonché nel soddisfare i piaceri” (31).
15. Fra il 25 novembre e il 14 dicembre 1991 si è svolta in Vaticano l’Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi, inaugurata e conclusa con solenni concelebrazioni, presiedute dal Sommo Pontefice Giovanni Paolo II nella basilica patriarcale di San Pietro. Il 13 dicembre è stato reso pubblico il testo della Dichiarazione “Siamo testimoni di Cristo che ci ha liberato”, nella quale si legge: “Oggi in Europa il comunismo come sistema è crollato, ma restano le sue ferite e la sua eredità nel cuore delle persone e nelle nuove società che stanno sorgendo. Le persone hanno difficoltà nel retto uso della libertà e del regime democratico; i valori morali radicalmente sovvertiti devono essere rivivificati. Allo stesso modo la Chiesa, resa povera nelle sue strutture e nei suoi mezzi, ha imparato più profondamente a confidare soltanto in Dio.
“Il crollo del comunismo mette in questione l’intero itinerario culturale e socio-politico dell’umanesimo europeo, segnato dall’ateismo non solo nel suo esito marxista, e mostra coi fatti, oltre che in linea di principio, che non è possibile disgiungere la causa di Dio dalla causa dell’uomo” (32).
E fra i paesi nei quali il comunismo è crollato credo non si possa escludere l’Italia, soggetta per decenni a un regime comunista sui generis, un regime comunista non marxista-leninista, ma marxista-gramsciano; un paese analogo, quindi non identico, a quelli oltre la Cortina di Ferro, analogo anche nella “restaurazione” comunista sui generis del 1996: e parlo non solo di regime sui generis, ma anche di “restaurazione” sui generis perché all’egemonia sulla società civile, mai perduta, si è aggiunta la significativa acquisizione anche della titolarità di parte del potere formale.
16. In occasione del IX Simposio dei Vescovi Europei sul tema Religione: “Fatto privato e realtà pubblica”. La Chiesa nella società pluralistica — tenuto a Roma dal 23 al 27 ottobre 1996 —, Papa Giovanni Paolo II ha inviato un messaggio al card. Miroslav Vlk, arcivescovo di Praga e presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa, in cui — fra l’altro — al n. 2 afferma: “L’avvenire si presenta dinanzi a noi carico di promesse e di inquietudini. […] Nell’attuale contesto storico non manca la tentazione di porre la Religione e la Chiesa ai margini della società. È tuttavia presente anche una forte spinta all’affermazione dei diritti umani fondamentali e, tra questi, del diritto alla libertà religiosa, nel contesto di una sete sincera di valori spirituali. Compito del presente Simposio non potrà non essere la proposta di opportune iniziative per venire incontro agli uomini e alle donne d’Europa, perché riscoprano la dimensione comunitaria e pubblica della fede. Non succeda che si ripeta l’errore di chi, volendo costruire un mondo senza Dio, ha realizzato soltanto una società contro l’uomo. A tal fine è richiesto l’apporto di tutti i credenti, perché mediante uno sforzo comune testimonino il primato di Dio nella loro vita e proclamino con ogni mezzo che se il “Signore non costruisce la casa invano vi faticano i costruttori” (Sal 126, 1)” (33).
Noto e faccio notare come il testo pontificio parli sia di “promesse” che di “inquietudini”, quindi solleciti attenzione sia alle promesse che alle inquietudini dell’ora presente, e come sia necessario evitare a questo proposito quanto accaduto relativamente alla costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, nel cui caso l’incipit ha avuto la meglio sul suo contenuto, o almeno ha fatto ritenere superfluo l’esame di esso, sì che “la gioia e la speranza” hanno prima messo in ombra, poi letteralmente cancellato la consapevolezza dei seguenti “luctus et angor”, “la tristezza e l’angoscia” (34): una mancata consapevolezza che ha segnato il tempo seguente il Concilio Ecumenico Vaticano II e le cui conseguenze hanno ampiamente caratterizzato tale postconcilio.
17. Il 13 ottobre 1996, il card. Joseph Ratzinger ha compiuto un pellegrinaggio a Fatima. Il giorno precedente, nel corso di un’intervista rilasciata all’emittente cattolica portoghese Radio Renascença, il porporato ha detto che, a Fatima, “[…] la Madonna ha parlato all’umanità in un momento importante e si vede sempre più come questo messaggio abbia una crescente attualità”; poi ha affermato: “[…] mi sembra un segno interessante e importante che nel 1917, nell’anno della grande rivoluzione che ha cambiato il mondo, i veggenti abbiano sentito dalla Madonna queste parole e per certo questi bambini non sapevano nulla sul problema della Russia, sugli avvenimenti di questa rivoluzione. Si tratta di una coincidenza che ci deve far pensare; il fatto che da questi bambini […] sia venuta una profezia che fa presentire questi problemi e rimane sempre come segnale di percorso”; ha inoltre dichiarato: “[…] Penso che anche i cambiamenti nell’Europa Orientale abbiano un certo rapporto con la realtà della fede, certamente con il pontificato attuale, principalmente con tutto il potere della preghiera che sta dietro”; quindi ha detto di essere preoccupato dalla “[…] stanchezza della fede in tanta parte del mondo, soprattutto in Europa, invece di essere felici perché conosciamo il vero Dio… il Signore ci ha parlato, sappiamo come vivere e qual è la vera vita. Invece di essere felici ed entusiasti e di avere anche lo zelo di aiutare gli altri a conoscere, consideriamo il cristianesimo piuttosto come un peso, come una semplice abitudine. Questa stanchezza della fede si perde anche nel relativismo del nostro tempo”; infine ha raccomandato di essere “[…] ubbidienti alla Madonna, perché la Madonna non è apparsa a bambini e a piccoli, ai semplici e agli sconosciuti nel mondo per provocare scalpore. È venuta per richiamare l’attenzione, attraverso questi semplici, sull’essenziale. Sulla conversione, sulla fede, e sui sacramenti”.
Dunque, né il messaggio di Fatima è fallito, né è esaurito (35). Anzi, costituisce la maggiore delle “promesse” del tempo presente, così come la sua parziale realizzazione è verificata dall’orizzonte apostolico senza ostacoli insormontabili — o almeno seriamente paragonabili a quelli precedenti il 1989 — che si stende davanti ai cattolici in una parte quantitativamente consistente e qualitativamente rilevante del mondo un tempo sottoposto a regime socialcomunista. Quindi tale messaggio va seguito come stimolo, orientamento e alimento dell’operosità apostolica e come modulo nella purificazione delle intenzioni.
Giovanni Cantoni
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* Relazione predisposta per il convegno internazionale Dalla Rivoluzione d’Ottobre al crollo del Muro: ascesa, caduta e metamorfosi del socialcomunismo — promosso da Cristianità e da Alleanza Cattolica in collaborazione con la Regione Lombardia Settore Trasparenza e Cultura, Milano 27-10-1996 —, ampliata e annotata.
(1) Cfr. sant’Agostino, La dottrina cristiana, libro 2, 40, trad. it., Città Nuova, Roma 1992, p. 130.
(2) Cfr. Gen. 3, 7.
(3) Cfr. ibid. 3, 21.
(4) Giovanni Paolo II, Discorso al Forum dei Rettori delle Università Europee, del 19-4-1991, n. 5, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XIV, 1, pp. 801-807 (p. 804).
(5) Ibidem.
(6) Idem, Messaggio televisivo alla Spagna in occasione del 400° anniversario della morte di S. Teresa d’Avila, del 15-10-1982, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. V, 3, pp. 824-825 (p. 825); traduco con “rivoluzione culturale” l’originale “conmoción cultural”, dal momento che, alla voce conmover, in María Moliner, Diccionario de uso del español, tomo I, Gredos, Madrid 1991, p. 727, si legge, fra i significati figurati, “un cambio de costumbres che conmueve los cimientos de la sociedad”, “un mutamento di costumi che scuote le fondamenta della società”; cfr. don Francesco Olgiati, L’anima dell’Umanesimo e del Rinascimento. Saggio filosofico, Vita e Pensiero, Milano 1924.
(7) Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale sul tema Evangelizzazione e ateismo, promosso dall’Istituto superiore per lo studio dell’ateismo della Pontificia Università Urbaniana, del 10-10-1980, n. 2, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III, 2, pp. 825-832 (p. 826); il rimando è a Paolo VI, Lettera apostolica Evangelii Nuntiandi circa l’evangelizzazione nel mondo contemporaneo, dell’8-12-1975, n. 55.
(8) Cfr. Massimo Introvigne, Il sacro postmoderno. Chiesa, relativismo e nuova religiosità, Gribaudi, Milano 1996, pp. 5-22; e il mio I “network” della religione in un mondo in frantumi, in CESNUR. Centro Studi sulle Nuove Religioni, La sfida pentecostale, a cura di M. Introvigne, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1996, pp. 121-147.
(9) Cfr. il mio Relativismo, realismo e verità, in Adveniat Regnum. Rivista di studi cattolici, anno 4, n. 3-4, inverno 1966-1967, pp. 45-52; Arturo Damm Arnal, Falacias Filosóficas, Editorial MiNos, Città di Messico 1991, pp. 37-50; e Georges Cottier O.P., Valori e transizione. Il rischio dell’indifferenza, Studium, Roma 1994; cfr. pure, paladini del relativismo, Gian Paolo Prandstraller, Relativismo e fondamentalismo, Laterza, Roma-Bari 1996; Idem, L’uomo senza certezze e le sue qualità, 3a ed. riveduta e ampliata, Laterza, Roma-Bari 1992; e Remo Bodei, Elogio del relativismo etico, in MicroMega, le ragioni della sinistra, n. 2, maggio-giugno 1995, pp. 146-155.
(10) Cfr. G. Elisa Bussi Parmiggiani, Edmund Burke: riflessioni e figure dalla rivoluzione francese, in Idem (a cura di), Rivoluzione e contro-rivoluzione: il linguaggio del conflitto, 1776-1793, Pàtron, Bologna 1992, pp. 85-114 (pp. 107-109).
(11) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, introduzione; parte I, cap. III, 5, A-D; parte III, cap. II, 1, e cap. III, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 60-61, 70-75, 173 e 189-195.
(12) Cfr. Giambattista Vico, De universi juris uno principio et fine uno, libro secondo: De constantia jurisprudentis, parte prima: De constantia philosophiae, cap. IV; e parte seconda: De constantia philologiae, capp. II e III, in Idem, Opere giuridiche. Il diritto universale, con una introduzione di Nicola Badaloni, a cura di Paolo Cristofolini, Sansoni, Firenze 1974, pp. 354-367 e 400-411; a commento, cfr. don Franco Amerio S.D.B., Introduzione allo studio di G. B. Vico, Società Editrice Internazionale, Torino 1946, pp. 318-323; Angela Maria Jacobelli Isoldi, G. B. Vico. Per una “scienza della storia”, Armando, Roma 1985, pp. 21-42; e Francesco Botturi, La sapienza della storia. Giambattista Vico e la filosofia pratica, Vita e Pensiero, Milano 1991, pp. 331-343.
(13) Cfr. Gustav Meyrink, La notte di Valpurga, con una presentazione di Marino Freschi, trad. it., Studio Tesi, Pordenone 1995.
(14) Cfr. ibid., pp. 179-190.
(15) Ibid., p. 181. Il riferimento è a un episodio storico, relativo a Jan Z”iz’ka (1360-1424), cui è espressamente dedicato un capitolo, Jan Zizka di Trocnov (pp. 111-132). L’episodio è richiamato in Russell Kirk [1918-1994], Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del nuovo mondo — trad. it., a cura di Marco Respinti e con un epilogo di Frank Shakespeare, Mondadori, Milano 1996, pp. 252-253 —, dove, all’interno di un capitolo intitolato Il tamburo dei riformatori (pp. 236-273), viene sinteticamente descritto nei termini seguenti: “Il più valoroso generale ussita era stato Giovanni Zizka, che, dopo aver perso la vista, aveva continuato a comandare in campo aperto ancora per tre anni. Quando nel 1424 il condottiero cieco morì vittima di una pestilenza, i suoi seguaci ne usarono la pelle per un tamburo, in modo che Zizka potesse continuare a chiamare gli ussiti alle armi. Un secolo dopo la fabbricazione di quel tamburo, negli stati tedeschi iniziarono a risuonare i tamburi protestanti”. Evidentemente l’episodio, già particolarmente suggestivo e significativo, viene caricato da Gustav Meyrink di ulteriori significati, a risonanza sciamanica.
(16) Giovanni Arrighi, Terence H. Hopkins e Immanuel Wallerstein, Antysistemic movements, trad. it., manifestolibri, Roma 1992, p. 105.
(17) Ibidem.
(18) Ibidem.
(19) Ibid., p. 111.
(20) Cfr. Aleksandr Isaevic’ Solz’enicyn, Terzo millennio, trad. it. del discorso tenuto a Vaduz, in Liechtenstein, in occasione del ricevimento del dottorato honoris causa dell’Accademia Internazionale di Filosofia, in Panorama, anno XXX, n. 1432, 26-9-1993, pp. 98-107 (p. 102).
(21) Cfr. il mio Alexandre de Marenches: Mikhail Gorbaciov e gli “struzzi”, in Cristianità, anno XVIII, n. 178, febbraio 1990, pp. 3-5.
(22) Cfr. François Fejto= con la collaborazione di Ewa Kulesza-Mietkowski, La fine delle democrazie popolari. L’Europa orientale dopo la rivoluzione del 1989, trad. it., Mondadori, Milano 1994, pp. 4-5.
(23) Jean-Marie Guéhenno, La fine della democrazia, con una postfazione di Franco Marcoaldi, trad. it., Garzanti, Milano 1994, p. 23.
(24) Cfr. P. Corrêa de Oliveira, op. cit., parte I, capitolo IV, pp. 79-80.
(25) Cfr. don Fernando Ocáriz, Il marxismo, ideologia della rivoluzione, trad. it., Ares, Milano 1977, soprattutto pp. 21-54.
(26) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, n. 20.
(27) Cfr. M. Introvigne, Che cos’è la massoneria: il problema delle origini e le origini del problema, in CESNUR. Centro Studi sulle Nuove Religioni, Massoneria e religioni, a cura di M. Introvigne, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1994, pp. 13-62; e il mio La massoneria nei documenti del Magistero della Chiesa cattolica, ibid., pp. 13-161.
(28) Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor sui fondamenti dell’insegnamento morale della Chiesa, del 6-8-1993, n. 101; la citazione è da Idem, Enciclica Centesimus annus nel centesimo della Rerum Novarum, del 1°-5-1991, n. 46.
(29) Karl Marx e Friedrich Engels [1820-1895], Manifesto del Partito comunista, introduzione e trad. it. di Palmiro Togliatti, XIV ed., Editori Riuniti, Roma 1971, p. 78.
(30) Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia circa la riconciliazione e la penitenza nella missione della Chiesa oggi, del 2-12-1984, n. 26.
(31) “Sillabo” (o elenco) dei principali errori della nostra epoca già condannati dal Pontefice Pio IX in atti, decreti, allocuzioni, dell’8-12-1864, n. LVIII, in I documenti sociali della Chiesa da Pio IX a Giovanni Paolo II, vol. I: Dal 1864 al 1965, a cura e con introduzione di padre Raimondo Spiazzi O.P., 2a ed. aggiornata a tutto il 1987, Massimo, Milano 1988, pp. 11-22 (p. 19).
(32) Sinodo dei Vescovi. Assemblea Speciale per l’Europa (28 novembre-14 dicembre 1991), Dichiarazione “Siamo testimoni di Cristo che ci ha liberati”, n. 1; a commento, cfr. il mio Per la “nuova evangelizzazione” dell’Europa, in Cristianità, anno XIX, n. 200, dicembre 1991, pp. 3-9.
(33) Giovanni Paolo II, Messaggio in occasione del IX Simposio dei Vescovi Europei sul tema “Religione: “Fatto privato e realtà pubblica”. La Chiesa nella società pluralistica, del 22-10-1996, in L’Osservatore Romano, 25-10-1996, n. 2.
(34) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, n. 1.
(35) Cfr. Antonio Augusto Borelli Machado, Le apparizioni e il messaggio di Fatima secondo i manoscritti di suor Lucia, con una prefazione di Plinio Corrêa de Oliveira Fatima in una visione d’insieme, 4a ed. it., Cristianità, Piacenza 1982; e il mio “Verità su Fatima”, in Cristianità, anno XIX, n. 193-194, maggio-giugno 1991, pp. 3-4.