Marco Respinti, Cristianità n. 217 (1993)
Intervista con il professor Thomas J. Fleming
“La rivoluzione americana — scriveva negli anni Sessanta il politologo tedesco-americano Eric Voegelin —, benché i suoi dibattiti fossero più fortemente influenzati dalla psicologia dell’illuminismo, ebbe tuttavia […] la buona sorte di giungere a conclusione nel clima istituzionale e cristiano dell’ancien régime. Nella rivoluzione francese, invece, la spinta radicale dello gnosticismo fu così forte che spezzò per sempre la nazione in una metà laicista che si richiama alla rivoluzione e in un’altra metà conservatrice che ha tentato, e tenta, di salvare la tradizione cristiana”: “In una situazione di questo genere resta una favilla di speranza, perché le democrazie americana e inglese […] sono anche le potenze più forti sul piano esistenziale” (Eric Voegelin, La nuova scienza politica, trad. it. con un saggio di Augusto Del Noce su Eric Voegelin e la critica dell’idea di modernità, Borla, Torino 1968, pp. 270-271).
Sia nella misura in cui queste considerazioni sono ancora attuali, sia — comunque — in una prospettiva storico-culturale, è utile tentare di definire, attraverso approssimazioni successive, l’”altro volto” dell’identità della nazione nordamericana. La problematica è già stata affrontata in occasione di visite in Italia di Russell Kirk (cfr. le interviste Le due anime dell’America, a cura di Marco Invernizzi, in Cristianità, anno XVII, n. 170, giugno 1989; e Dove vanno gli Stati Uniti? La politica estera nordamericana e il “Nuovo Ordine Mondiale”, a mia cura, ibid., anno XIX, n. 195-196, luglio-agosto 1991). L’esame può proseguire grazie alla presenza nel nostro paese di Thomas J. Fleming, figlio di una cultura conservatrice che, se da un lato mostra qualche differenza rispetto alla tradizione a cui si richiama Russell Kirk, dall’altro perviene alle medesime conclusioni e ad analoghi giudizi storici e morali.
Nato a Superior, nello Stato del Wisconsin, da una famiglia di origine sudista, nel 1945, Thomas J. Fleming aderisce alla denominazione episcopaliana. Ottenuto il baccellierato in lettere greche e francesi, nel 1973 consegue il dottorato di ricerca in materie classiche, presso l’università del North Carolina di Chapel Hill, discutendo una tesi sul drammaturgo greco Eschilo. Già assistente universitario e professore aggiunto presso diversi atenei e college statunitensi, tiene corsi di letterature classiche, letteratura inglese, lingua latina e greca, retorica, Nuovo Testamento e scienza antica. Nel 1979 fonda la rivista Southern Partisan, una pubblicazione di letteratura, storia e politica “sudista” che dirige fino al 1982. Nel 1984 è chiamato alla direzione del mensile Chronicles. A Magazine of American Culture, edito da The Rockford Institute, nell’omonima cittadina dello Stato dell’Illinois.
Thomas J. Fleming, attento alle tematiche politologiche, storiche, letterarie e filosofiche, nonché ai temi relativi alla cultura americana “sudista” e alla politica del decentramento e del federalismo, è autore di The Politics of Human Nature (Transaction, New Brunswick 1988), e, insieme a Paul Gottfried, dell’opera The Conservative Movement (Twayne, Boston 1988), una concisa e penetrante storia del conservatorismo americano dal secondo dopo guerra a oggi, oltre che di saggi, di poesie e di articoli pubblicati su importanti quotidiani statunitensi.
In italiano sono apparsi La Democrazia Americana: libertà e uguaglianza nella teoria e nella prassi e La Frontiera e la libertà, nonché l’intervista, a cura di Giuditta Podestà, I paradossi di Thomas Fleming, rispettivamente nei volumi Comunità europea e democrazia americana (1991, pp. 59-68), L’esplorazione dell’ignoto e la definizione dei segni (1992, pp. 33-40) e Scommessa Est-Ovest (1991, pp. 157-160): essi raccolgono gli atti dei congressi organizzati nel 1990, nel 1992 e nel 1991 dal Centro Internazionale di Studi Lombardi, di Santa Maria la Vite di Olginate, in provincia di Lecco, e sono editi dallo stesso Centro.
L’ambiente umano e culturale che si raggruppa intorno a Chronicles. A Magazine of American Culture ha ufficialmente sostenuto la candidatura, per le elezioni presidenziali del 1992, di Patrick J. Buchanan, l’outsider — come l’hanno definito i media, ignorando la tradizione politica alla quale si richiamava — che ha raccolto i favori del mondo conservatore e cristiano e che ha osato sfidare l’establishment dei due partiti, benché si presentasse per i repubblicani.
Come ha scritto in Southern Partisan (vol. XII, secondo quarto del 1992, p. 24), James McClellan, direttore di The Jesse Helms Center di Wingate, nello Stato del North Carolina, “solo un aspirante alla presidenza — Pat Buchanan — ha abbracciato princìpi sudisti, a dispetto dell’ironia del fatto che quasi ogni candidato avesse legami familiari con la vecchia Confederazione. Con Buchanan fuori dalla corsa, possiamo attenderci ancora, non ha importanza chi vince, quattro anni di Reconstruction [la colonizzazione yankee del Sud, dopo la Guerra Civile] e una maggior dose di dottrine da Rivoluzione francese”.
In viaggio di studio in Italia — paese che visita frequentemente — Thomas J. Fleming ha tenuto alcune conferenze pubbliche nell’Italia Settentrionale. Domenica 25 aprile, grazie alla collaborazione dello scrittore Mario Marcolla, che ne ha organizzato il breve tour italiano, lo studioso americano ha svolto una lezione sulle diverse anime della cultura e della storia degli Stati Uniti d’America per militanti di Alleanza Cattolica, riuniti in occasione di un ritiro spirituale e culturale a San Paolo d’Argon, in provincia di Bergamo, presso l’abbazia Oasi dello Spirito.
Al termine di alcune conversazioni, ho raccolto un’intervista.
D. Spesso si equiparano Rivoluzione francese e Guerra d’Indipendenza americana, pretendendo di definire la nascita degli Stati Uniti d’America in termini ideologici moderni…
R. È una sciocchezza dire che gli Stati Uniti d’America sono un paese fondato sui princìpi di libertà e di uguaglianza; essi non furono istituiti come una repubblica rivoluzionaria o giacobina, né la Costituzione americana è “democratica” nel modo di quella francese.
L’autentica storia americana non si può ridurre a due o a tre brani di Thomas Paine e di Abraham Lincoln: essa è anzitutto la saga delle genti britanniche che hanno colonizzato la “frontiera”, un termine che da noi si usa per indicare il confine fra la terra selvaggia e la terra coltivata, fra la civiltà e il deserto ignoto.
Nel 1992 italiani e americani hanno celebrato Cristoforo Colombo e il quinto centenario della scoperta dell’America. L’espansione dell’uomo europeo sul continente americano è una delle saghe più importanti della storia, anche se gli storici contemporanei la descrivono come una serie di massacri per distruggere le popolazioni indigene. Senza dimenticare colpe ed errori di personaggi come Cristoforo Colombo e Hernán Cortés, non dovremmo perderne di vista la grandezza. Per questo i rivoluzionari messicani volevano dissotterrare le ossa di Hernán Cortés e profanarle.
La loro temerarietà definisce nel migliore dei modi il temperamento americano e certa storiografia ufficiale — come quella redatta, per esempio, da Frederick Jackson Turner —, che proscrive i conquistadores e i cow-boys, tenta in realtà di rifiutare l’intera identità occidentale.
Certe interpretazioni vedono nella frontiera il male, la feccia, l’individualismo, il primitivismo fondato sulla famiglia, la tendenza anti-sociale, la licenziosità; il “giocatore”, il “furfante” o il vigilante della California, sono citati come esempi della schiuma lasciata dalle flotte della civiltà che avanzava. E l’uso del termine inglese scum, che significa sia “schiuma” sia “feccia”, non è casuale.
Recenti studi hanno rivelato una “frontiera” totalmente diversa da quella proposta con il mito del “selvaggio West”. Si parla di “diritto civile” e laddove esso mancava esploratori e pionieri mantenevano l’ordine e componevano i litigi. La maggioranza dei delitti violenti avveniva nelle città della costa orientale come Boston e New York. Infatti, gli uomini armati e pronti a difendersi costituivano un deterrente per i malintenzionati. Ma il seme di verità presente nell’esposizione di Frederick Jackson Turner è l’importanza centrale ascritta alla famiglia; l’organizzazione sociale primitiva fondata sulla famiglia costituisce la “patriarchia”, la forma più originale e naturale della società umana. La definisco più originale, in quanto essa deriva dalle affezioni naturali.
Infatti, l’uomo moderno, spinto nel mondo di natura, può riscoprire senza difficoltà le istituzioni naturali. Pertanto, il fondamento della libertà americana non è per nulla la filosofia banale di John Locke, colma di “diritti umani”. La libertà politica fu invece creazione di famiglie autonome. D’altronde esse non erano prive di regole: gli esempi proposti da Frederick Jackson Turner — i vigilantes delle due Carolina e della California — confutano le sue tesi. I comitati di vigilanza sono l’espressione suprema dell’ordine morale delle comunità e non rappresentavano esplosioni di violenza: al contrario, nacquero per far fronte al disordine e si sciolsero una volta ristabilito l’ordine pubblico.
Frederick Jackson Turner ha altrove ripetuto certe osservazioni di Alexis de Tocqueville, apprezzando i consorzi volontari e privati: i pionieri hanno mostrato la straordinaria capacità di associarsi per scopi comuni, senza dover ricorrere al governo. Se con Frederick Jackson Turner e Alexis de Tocqueville non è, comunque, priva di senso la distinzione fra Vecchio e Nuovo Mondo, di fatto i consorzi volontari americani derivano dalle immemorabili usanze dei paesi europei.
D. Dunque, gli Stati Uniti d’America sono un paese molto più culturalmente composito di quanto suggerisca l’immagine stereotipata e monolitica presentata dai mass-media?
R. I puritani della Nuova Inghilterra hanno ottenuto straordinari successi in America e gli yankee che hanno conquistato il Sud hanno riscritto la storia dal loro punto di vista. Non esiste una sola storia americana, ma ve ne sono diverse a seconda dei popoli che hanno colonizzato il Nuovo Mondo. Esistono differenze fra Nord e Sud. La Nuova Inghilterra fu colonizzata dai puritani originari dell’East Anglia, mentre — per esempio — la Virginia fu fondata dagli anglosassoni del Wessex, genti signorili, feudali e aristocratiche. Le montagne furono colonizzate da scozzesi e da irlandesi di cultura celtica, strutturati in clan. Sempre per esempio, ancora durante la Guerra Civile il grido di guerra dei sudisti, il Rebel yell, era lo stesso delle tribù celtiche. I signori anglosassoni e celtici si unirono in America e diedero vita a una cultura dell’onore, del coraggio e dell’indipendenza: le piantagioni ricordavano le baronie feudali..
Durante la rivoluzione voluta dai commercianti yankee, l’aristocrazia del Sud rimase a combattere le truppe inglesi e tedesche. Le genti del Nord fedeli al re inglese emigrarono in gran parte nel Canada lasciando il posto alla borghesia commerciale che assunse il potere, mentre il ceto dirigente del Sud rimaneva aristocratico.
Dopo l’indipendenza si formarono il partito federalista — in verità centralista — e quello anti-federalista, che in realtà proponeva una visione dello Stato fortemente decentrata. Il primo fu il partito di Alexander Hamilton, del commercio e delle banche, un partito che vedeva nello Stato lo strumento idoneo al miglioramento dell’uomo e che desiderava legare al governo la classe commerciale. Il secondo, gli anti-federalisti, divennero poi i repubblicani di Thomas Jefferson e quindi il Partito Democratico.
Lo statalismo federalista derivò dalla visione teologica puritana che vedeva nella Nuova Inghilterra la Nuova Gerusalemme, considerando i ministri del governo come i nuovi apostoli o i nuovi patriarchi. La secolarizzazione, soprattutto grazie al sistema delle scuole statali che omogeneizzavano le culture, prese il posto del puritanesimo.
Secondo gli anti-federalisti sudisti, invece, la Costituzione aveva stigmatizzato una volta per tutte i poteri del governo centrale, definendoli e limitandoli.
Poi con la Guerra fra gli Stati, che gli yankee hanno chiamato “Guerra Civile”, fra il 1861 e il 1865, il Sud fu completamente distrutto e colonizzato dal Nord, le particolarità distrutte e la politica accentrata nelle mani del governo federale.
D. La cultura agraria del Sud, religiosa e conservatrice, scomparì completamente?
R. Negli anni Trenta, nello Stato del Tennessee, si formò un gruppo di scrittori e di poeti sudisti, che si denominavano “agrari” e che sostanzialmente vivevano dei grandi temi di opposizione culturale alla Modernità. Anti-socialcomunisti e pure fondamentalmente anti-capitalisti, furono contrari all’industrializzazione forzata e alla commercializzazione della vita agraria. I più famosi fra costoro furono Allen Tate, Robert Penn Warren e Donald Davidson. Nel 1930 essi pubblicarono il manifesto politico-letterario I’ll Take My Stand: The South and the Agrarian Tradition (con un’introduzione di Louis D. Rubin, Jr., e saggi biografici di Virginia Rock, 4a ed., Louisiana State University Press, Baton Rouge 1977) e nel 1936 collaborarono con i distributivisti inglesi Gilbert Keith Chesterton e Hilaire Belloc, producendo assieme il volume Who Owns America? A New Declaration of Indipendence (a cura di Herbert Agar e Allen Tate, Houghton, Mifflin, Company, Boston 1936), testo fortemente anticapitalista. Accusati di sentimentalismo medioevalista, essi si richiamavano alla realtà sociale dei secoli XII e XIII, nell’Europa cattolica, ossia a una società che ritenevano esser stata incorporata dal Sud del Nordamerica, ma distrutta nel resto del mondo. Di quel gruppo sopravvive oggi solo Andrew Nelson Lytle, mentre fra gli eredi più significativi di esso vi è stato Richard M. Weaver, autore, nel 1948, di Ideas Have Consequences (The University of Chicago Press, Chicago 1984), volume che descrive la rivoluzione gnostica realizzata contro il pensiero cristiano nell’epoca moderna.
D. Negli Stati Uniti d’America e nel mondo si fa un gran parlare di democrazia; ma dopo l’Illuminismo e dopo la Rivoluzione francese essa ha assunto il significato di ennesima ideologia dagli accenti immanentistici e “messianici”. Come l’ha intesa la tradizione politica statunitense?
R. In alcuni dei miei scritti ho cercato di distinguere fra “democrazia ideologica” e “democrazia jeffersoniana” o democrazia della “vecchia America”. La prima è la democrazia “messianica” concepita a partire dalla Rivoluzione francese e basata sull’astrazione di idee come la libertà, l’uguaglianza e la fraternità, che si è immaginato fossero un credo universale da imporre a chiunque e da esportare ovunque, ma che in realtà è solito distruggere tutti i fondamenti tradizionali dell’ordine sociale. La seconda, la definisco come una nozione di filosofia della politica secondo la quale gli uomini responsabili sono tenuti a badare all’amministrazione dei propri interessi, senza che il governo indichi come vendere o come comperare o come coltivare le messi. Nella storia americana, ciò si è tradotto nel concetto di “repubblicanesimo classico”, basato sulla virtù civica e sul buono stato di istituzioni organiche come la famiglia, il quartiere, la Chiesa.
L’intenzione era quella di resistere alla crescita di un governo centralizzato, che si è sempre diffuso come un cancro a spese di tutte le forme naturali di associazione umana. È successo che, in America e in Europa, con l’espressione “democrazia” si è inteso solo la “democrazia ideologica e messianica” che permette, in nome della libertà e dell’uguaglianza, la distruzione di tutte le istituzioni che rendono significativa l’esistenza umana.
D. Ha parlato di “democrazia jeffersoniana”. L’Old Republic, la “vecchia repubblica” era contraddistinta dalla salvaguardia degli States Rights, cioè dei diritti dei singoli Stati contrapposti al forte potere centralizzato tendenzialmente livellatore. Può spiegare in che cosa consistano gli States Rights?
R. Patrick Henry — il grande statista della Virginia — si oppose a certe idee contenute nella Costituzione degli Stati Uniti perché era stato colpito dal fatto che essa iniziasse con l’espressione “We the people”, “Noi il popolo”; a suo avviso questa frase non rispettava abbastanza l’esistenza dei tredici Stati sovrani, che erano in realtà visti come paesi indipendenti strettisi in unione
Il governo nazionale, secondo quanto prescritto dal Bill of Rights — gli emendamenti incorporati nella Costituzione americana —, doveva esistere solo per regolare le questioni e le relazioni fra gli Stati: il potere dei singoli Stati doveva, a sua volta, esprimersi in misura minore rispetto al potere proprio delle amministrazioni, delle cittadine e delle comunità locali. Quando Alexis de Tocqueville visitò il paese, scrivendo poi il suo famoso La Democrazia in America (trad. it., Rizzoli, Milano 1992), notò che il potere del governo centrale degli Stati Uniti era molto debole. Ciò è stato spesso frainteso attribuendo incapacità al governo della nazione; in realtà si trattava solo del fatto che il governo non aveva una struttura di potere centralistica così come, a loro volta, non l’avevano i governi dei singoli Stati.
Thomas Jefferson articolò tutto questo in un’ampia visione generale, sperimentata nello Stato della Virginia. Egli definì questo sistema con una vecchia espressione inglese, “a system of wards”, cioè un’”organizzazione di rioni”. Thomas Jefferson generalizzò l’idea del decentramento scolastico facendone un progetto di governo che dava la possibilità ai singoli quartieri di regolare le proprie questioni. Poi la città avrebbe controllato i rapporti fra i quartieri, la contea quelli fra le città, lo Stato quelli fra le contee e, infine, il governo nazionale quelli fra gli Stati. In questo impianto la famiglia era vista come una sorta di entità sovrana, senza che nulla di esterno potesse interferire in quanto vi accadeva all’interno. Questi sono gli States Rights, secondo la concezione propria dei Founding Fathers, i Padri Fondatori della Patria, e di Thomas Jefferson: un aspetto di quel concetto generale che nel secolo XX sarebbe stato definito come “principio di sussidiarietà”.
Quello che in America chiamiamo “federalismo” non è altro che il principio di sussidiarietà visto da un’altra prospettiva, ma con la medesima introspezione della vita sociale umana.
D. Lei conosce la storia europea medioevale. La salvaguardia degli States Rights ricorda una concezione e un’organizzazione della società come quelle che storicamente si sono realizzate durante il cosiddetto Medioevo. Esiste un rapporto fra questa struttura e la difesa delle prerogative locali, patrimonio — ieri come oggi — del conservatorismo “sudista” americano?
R. Certo, e non è accidentale che una delle migliori articolazioni a livello filosofico di quanto sto cercando di descrivere sia contenuta nelle opere di Johannes Althaus, latinizzato in Althusius, un calvinista tedesco che basò, di fatto, il proprio sistema politico ancora sulla descrizione di quella che si riteneva essere l’organizzazione del Sacro Romano Impero. Johannes Althusius era un aristotelico e descrisse questo sistema molto chiaramente: la famiglia genera la comunità, le comunità generano la provincia e l’insieme di queste generano la nazione. Se vi è una vacanza di potere, il trono non viene lasciato, neppure teoricamente, in balìa di elezioni democratiche plebiscitarie o cose simili, ma si ricorre al livello gerarchico successivo: dalla nazione emerge il successore. Delle comunità organiche Johannes Althusius aveva questa visione: crescita della politica dalla famiglia e le cittadine come raggruppamento ed estensione delle famiglie, a formare l’unità del regno e la completezza dell’ordine sociale.
La tradizione positiva della filosofia politica inizia con la Politica di Aristotele, viene continuata da san Tommaso d’Aquino, poi anche da autori come il citato Johannes Althusius, per riemergere in America in alcuni statisti dell’inizio del secolo XIX come Thomas Jefferson e John Cadwell Calhoun.
La teoria politica più malevola è quella dell’individualismo disorganico che inizia nel Rinascimento e raggiunge il culmine con pensatori come Thomas Hobbes, John Locke e Jean-Jacques Rousseau: l’ordine sociale viene ridotto a un insieme di palle da biliardo isolate che rotolano su un tavolo, senza alcuna relazione fra loro.
D. Come si esprime e come si connette la questione dell’autorità con il problema dell’esercizio del potere, in questa visione di “democrazia territoriale”, un’espressione con cui, per esempio, Orestes A. Brownson indicava una democrazia legata non solo ai “numeri” ma soprattutto — secondo il modello della classicità — alle comunità concretamente presenti sul territorio?
R. L’autorità, nella sua vera natura, è organica piuttosto che artificiale: non è creata, ma viene riconosciuta. In una monarchia ereditaria l’autorità della famiglia che esercita il potere viene riconosciuta per tradizione e se qualcuno cerca di assumere il potere attraverso metodi non tradizionali viene dichiarato un tiranno. Vi è sempre un’importante distinzione fra l’autorità riconosciuta e la pura imposizione di forza.
Per questo il sistema di scelta dei membri del Senato americano non avveniva tramite elezioni dirette — che giudico essere, in generale, una cattiva soluzione —, ma era il corpo legislativo degli Stati stessi a scegliere i rappresentanti per il Senato. La ragione per cui penso che questo secondo sia un buon sistema sta nel fatto che pure in uno Stato piccolo — diciamo di 100.000 persone — gli elettori non possono conoscere direttamente i candidati al Senato, mentre si possono e si devono conoscere gli uomini che compongono i corpi legislativi locali, che possono anche, a questo punto, essere designati tramite votazioni. Infatti, tale mandato si fonda su un rapporto di fiducia. Questo è il sistema organico della rappresentanza opposto all’idea artificiale del “one man, one vote”, un uomo, un voto. Lo scrittore cattolico inglese Gilbert Keith Chesterton suggeriva l’idea che è meno importante conoscere “quanto” si vota, piuttosto di “come”.
D. Esistono, però, pure ideologie “di sinistra” che si fanno propugnatrici della “filosofia del decentramento”, delle autonomie e del federalismo. Esiste anche una tradizione che individua nel presidente Thomas Jefferson uno dei rappresentanti americani dell’”ideologismo” moderno, che sta a monte della concezione della democrazia relativistica.
R. Thomas Jefferson non fu privo di colpe: era chiaramente un uomo entusiasta del pensiero illuminista e pensava davvero che l’ingegnosità umana di per sé stessa potesse risolvere molti problemi. In realtà, il nucleo centrale della visione politica jeffersoniana riguardava il decentramento del potere e dell’autorità: sempre contro ogni tentativo di usare un governo nazionale per livellare le comunità locali. Lui e i suoi seguaci — i primi repubblicani democratici —, fino al 1850, svilupparono questa visione, lontana da quella di tipo “francese” molto più autoritaria rispetto al sistema delle comunità organiche. Alcuni pensatori del Sud — non è un caso —, a quell’epoca, riscoprirono Aristotele come loro ispiratore.
Il marxismo deriva dall’individualismo hobbesiano quando tenta di imporre le comunità dall’alto, il che è un’impresa impossibile: Robert A. Nisbet in La tradizione sociologica, del 1966 (trad. it., con una presentazione di Filippo Barbano, reprint La Nuova Italia, Scandicci [Firenze] 1987), mostra — come anche in La comunità e lo Stato. Studio sull’etica dell’ordine e della libertà, del 1953 (trad. it. con una Introduzione di Franco Ferrarotti, Comunità, Milano 1957) — che il peggior male del mondo, nei trascorsi cento anni, è venuto dal tentativo di imporre artificialmente le comunità.
Comunque, certe persone che oggi parlano di “federalismo mondiale” — una tendenza originatasi intorno agli anni Venti — non si riferiscono a qualcosa di simile al Sacro Romano Impero, cioè a un’organica associazione di piccole comunità che culminano in princìpi organizzatori come lo Stato e la Chiesa. Ciò che tali persone vogliono è una forte struttura di potere, che mediante l’esercito e la polizia operi in tutto il mondo quanto lo Stato nazionale compie nei confronti delle comunità locali. Per esempio come è successo in Italia dopo il Risorgimento, dove vennero eliminate le peculiarità locali delle varie regioni, anche se erano state fatte promesse a proposito di qualcosa di simile a un sistema federale; così aveva fatto l’antica Roma quando, conquistati altri popoli, ne rispettava le particolarità. Invece, in Italia fu adottato il “modello francese”, quel modello che ha sempre fatto guerra alle province.
D. A proposito degli States Rights, ha richiamato il principio di sussidiarietà e in alcuni suoi scritti ha fatto riferimento anche all’enciclica Quadragesimo anno, pubblicata da Papa Pio XI il 15 maggio 1931. Esiste, dunque, una sorta di corrispondenza fra i princìpi e le tematiche proprie della dottrina sociale cattolica e il patrimonio politico-culturale del pensiero conservatore americano?
R. Molto è implicita convergenza perché entrambe le dottrine hanno un’origine aristotelica e una prospettiva cristiana: così inevitabilmente si parla una lingua comune e si hanno scopi comuni. Per esempio, il motivo dell’insurrezione delle colonie inglesi in America fu la politica di abusi rispetto al principio di sussidiarietà praticata da re Giorgio III d’Inghilterra. Non è accidentale che nelle guerre fra gli Stati, quando la democrazia rivoluzionaria, ai tempi della presidenza di Abraham Lincoln, tentò di schiacciare il modello democratico jeffersoniano del Sud, i vescovi cattolici del Meridione degli Stati Uniti d’America si schierarono con la Confederazione “sudista”. Venne pure inviata una delegazione in Vaticano per cercare di spiegare che la guerra in atto era un guerra per la civiltà: la civiltà cristiana da una parte contro la democrazia “alla francese”, barbara, tecnocratica e radicale, dall’altra. Il sistema pubblico scolastico del Nord venne instaurato in maniera tale da costringere le famiglie cattoliche a pagare per avere i loro figli indottrinati dal protestantesimo. Nel Sud, invece, i cattolici vennero bene accolti e divennero pure i leader sociali di grandi città in Stati come l’Alabama, la Georgia e il South Carolina. Donald Davidson, uno degli “agrari sudisti”, ha raccolto importanti riflessioni riguardo a tutto questo nel volume Still Rebels, Still Yankees (Louisiana State University Press, Baton Rouge 1957).
a cura di Marco Respinti