Intervista con Peter Hammond, Cristianità n. 308 (2001)
Rappresenta soltanto un puntino nell’immagine radar dei principali media degli Stati Uniti d’America, ma la persecuzione dei neri cristiani nel Sudan meridionale da parte del governo musulmano continua a peggiorare. La guerra nel Paese più grande dell’Africa ha infuriato per oltre 45 anni e vi sono ancora molti in Occidente che hanno una conoscenza scarsa del genocidio sudanese. Il dottor Peter Hammond, direttore di Frontline Fellowship [un’associazione di sostegno alle comunità evangelical in difficoltà], è fra quanti cercano maggiormente d’informare il mondo sull’oppressione dei cristiani in Sudan e di esercitare pressioni su coloro che ne sono responsabili.
D. Che cosa sta accadendo oggi in Sudan? Quant’è grave la situazione?
R. Dal 1955 il Sudan vive la più lunga fra le guerre che si stanno combattendo oggi nel mondo. Sul finire degli anni 1970 fu proclamato un cessate il fuoco, che però è stato di breve durata e così nel 1983 il conflitto è ripreso a pieno ritmo: negli ultimi diciassette anni sono morti due milioni di persone. È una guerra intensissima fra il Settentrione arabo-musulmano e il Meridione nero e cristiano. Gli arabo-musulmani settentrionali sono la maggioranza, ma i neri-cristiani sono la maggioranza nel Sud. Benché in tutto il Paese siano una minoranza, i cristiani costituiscono la maggioranza della popolazione nel Sudan meridionale. In pratica, si tratta di due Paesi: il Nord arabo-musulmano e il Sud nero e cristiano. Benché si tratti di due popoli completamente differenti dal punto di vista culturale, religioso ed etnico, il governo sudanese mira a imporre la legge islamica anche ai cristiani del Meridione. E, quando i cristiani vi si sono opposti, il governo ha cominciato a bombardarne gli ospedali e le scuole, e a ridurne i bambini in schiavitù. La situazione è gravissima.
D. Se non leggessi quanto pubblicato da WorldNetDaily, non avrei la chiave di volta giusta per capire quanto accade in Sudan. Nel complesso, l’Africa è in preda alla confusione. Lei riferisce di chiese bombardate, di uomini, di donne e di bambini violentati, torturati e uccisi, e di arti amputati, ma di questa tragedia l’opinione pubblica non sa nulla. Eppure si tratta del genere di atrocità su cui di solito letteralmente si gettano le organizzazioni tematicamente impegnate a raccogliere e a diffondere informazioni. Perché la storia del Sudan è ignorata?
R. È una domanda più che pertinente. Per me è uno scandalo. Come possono i mass media di tutto il mondo ignorare il Paese più grande dell’Africa? Come possono i corrispondenti di guerra ignorare la più lunga guerra che si stia combattendo ancora? Sono morte più persone nel conflitto oggi in corso in Sudan che non in tutte le guerre che hanno insanguinato l’[ex] Jugoslavia, il Rwanda e la Somalia messe assieme. È una guerra caldissima e il bersaglio sono i cristiani.
D. Si è fatto un gran parlare della presunta pulizia etnica nei Balcani, eppure in Sudan si sta verificando una vera e propria crociata religiosa.
R. Il governo musulmano la chiama un jihad, ovvero una guerra santa, definisce i propri uomini che combattono contro il Meridione “guerrieri santi”, ovvero mujahedin, e afferma che chi fra loro muore in battaglia è un “martire santo”. Per il governo sudanese si tratta decisamente di una guerra di religione ed esiste addirittura una politica ufficiale di “arabizzazione” e d’”islamizzazione”. Tutti devono diventare arabi nella lingua e nella cultura, così come islamici quanto alla religione, oppure vengono ridotti in schiavitù, uccisi o esiliati. Questa è la politica ufficiale pubblicamente espressa dai capi del Sudan.
D. Una ragione evidente, benché materiale, che dovrebbe spingere l’Occidente a interessarsi delle atrocità perpetrate in Sudan è il petrolio. In questo Paese africano vi sono truppe cinesi schierate a difesa dei campi petroliferi. Sbaglio o il Sudan è ricco di petrolio?
R. Sì, è senza dubbio il petrolio a “carburare” la guerra. Si tratta ancora una volta di sangue contro petrolio: il sangue dei neri cristiani in cambio del petrolio. Sono le compagnie petrolifere Talisman Energy, di Calgary in Canada, e China Petroleum che oggi alimentano la guerra mediante i massicci investimenti di centinaia di milioni di dollari a favore di questo governo del Fronte Nazionale Islamico, il quale ha pubblicamente detto che la maggior parte delle entrate prodotte dalla ricerca e dallo sfruttamento petroliferi del Paese vengono sempre più impiegate per acquistare le armi poi utilizzate nella guerra contro il Sud. Il governo descrive ufficialmente così la propria politica. E, per assicurarsi la possibilità di sfruttare i campi petroliferi, ha distrutto le abitazioni di più di 40.000 persone, che poi, con la politica della “terra bruciata”, ha costretto con la forza ad andarsene. In questo modo lascia totale libertà di manovra alle compagnie petrolifere, che così agiscono senza più preoccuparsi degli abitanti di quei luoghi.
D. Non vorrei apparire indelicato, ma questa situazione si protrae da molto tempo… Nel Sud è rimasto un qualche significativo numero di cristiani?
R. Certo. Sono appena tornato da quel Paese e negli ultimi sette mesi ho partecipato a sei missioni, quattro delle quali proprio in Sudan. Ero proprio là alla fine di aprile e in quel momento la presenza cristiana mostrava di essere in forte crescita. È sbalorditivo. È il Paese più vasto dell’Africa, stretto nella morsa del più lungo conflitto del secolo XX, è la comunità cristiana più antica del Continente. Lì i cristiani stanno patendo la più terribile delle persecuzioni, ma la loro Chiesa è quella che cresce con rapidità maggiore. Il numero delle chiese sta crescendo tanto velocemente che si stenta a credervi. Una delle diverse denominazioni cristiane presenti nel Paese è passata da due a centoquaranta comunità in appena dieci anni. Un ministro di culto cristiano di mia conoscenza ha portato alla propria Chiesa diciottomila persone negli ultimi due anni e mezzo. La Chiesa del Sudan si sta sviluppando in maniera enorme e talvolta giungono a Cristo persino dei musulmani. Ciononostante, i morti e i sofferenti sono moltissimi, e il numero delle atrocità commesse nel Paese è enorme.
D. Oltre a questa notevolissima crescita spirituale, esiste qualcuno che aiuti le popolazioni del Sud con armi e viveri?
R. Non molto. A quelle popolazioni arriva qualche genere di conforto attraverso alcune organizzazioni internazionali, ma non attraverso l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Benché sembri disporre dei fondi maggiori e sostenga d’impegnarsi seriamente nella vicenda, l’ONU elargisce la maggior parte dei propri aiuti a quello stesso governo sudanese che è la causa principale delle sofferenze del Paese. Attraverso Operation Lifeline Sudan, l’ONU sta letteralmente contribuendo al prolungarsi della guerra.
D. In che modo?
R. L’ONU fornisce aiuti al governo, che ha provocato la carestia che attanaglia il Sudan. Questa carestia non è infatti dovuta a ragioni di tipo climatico o geografico, ma è opera dell’uomo. Il governo sudanese dà alle fiamme i raccolti del Paese, ne avvelena i pozzi e ne stermina o ne ruba gli armenti. Ecco la politica della “terra bruciata”. In una guerra, specialmente in una guerra combattuta con questa tecnica, il cibo diventa un’arma. A fronte di ciò, ecco che l’ONU decide di fornire soccorsi alimentari proprio a quel governo che di tale scarsità è la prima causa, confidando che esso sappia e voglia distribuire gli aiuti ricevuti in modo equo e generoso alla popolazione. Ovviamente, il governo del Sudan usa gli aiuti alimentari dell’ONU per perseguire le proprie politiche d’islamizzazione e di arabizzazione forzate. Infatti, per ricevere a propria volta qualche aiuto, la popolazione deve anzitutto convertirsi all’islam e quindi mendicare cibo in nome di Allah.
D. E cosa succede a chi non si adegua?
R. Molti di questi muoiono di fame. A volte capita che qualcuno affermi di essersi convertito solo per poter ottenere cibo. Ma in un Paese islamico come il Sudan vigono leggi contro l’apostasia. Si macchia infatti di una colpa capitale chi, pur avendo recitato il credo musulmano — “Non vi è altro Dio al di fuori di Allah e Maometto è il suo profeta” —, professa la fede in modo superficiale e finisce per commettere apostasia o per allontanarsi dall’islam onde tornare alla fede cristiana. La legislazione sudanese prevede che persone così possano essere giustiziate e molti di loro, appunto accusati di apostasia, lo sono stati. Qualche tempo fa, la Corte Suprema sudanese ha stabilito che la crocifissione degli apostati — cioè di persone che erano musulmani praticanti e che si sono convertiti al cristianesimo — è costituzionale.
D. È cosa!?
R. Costituzionale! Ossia conforme alla Costituzione. E questo è il governo che ha rimpiazzato quello statunitense nella Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite.
D. Quanto alla divisione fra il Sudan settentrionale e meridionale, esistono legislazioni diverse e separate, oppure è il Nord che controlla il Paese intero?
R. Tecnicamente è il Nord a controllare tutto il territorio nazionale, ma, in pratica, il Sud costituisce un Paese a sé, dal momento che ha varato istituzioni proprie. Benché né le carte geografiche internazionali e nemmeno i governi del mondo o il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America lo riconoscano, il Sud ha di fatto operato una secessione dal Nord. Nella realtà è così; si tratta di due Paesi distinti. La popolazione del Sud possiede tribunali e sovrintendenti di contea propri, propri sindaci e propri parlamentari. E si comporta come se il Nord fosse un Paese diverso, che a un certo punto ha invaso il Sud. In concreto le cose stanno esattamente così. Del resto, non è possibile sentire come proprio un governo che bombarda i suoi cittadini.
D. A quei lettori che potrebbero considerare tutto questo solo un’iperbole va ripetuto che il dottor Hammond ha esperienza diretta e personale delle atrocità commesse in Sudan. Ricordo, per esempio l’articolo con cui la giornalista Julie Foster [cfr. Church bombed in Sudan, in WorldNetDaily, 17-11-2000] descrive uno degli episodi che hanno visto protagonista Hammond… Ma perché non racconta lei stesso ai nostri lettori cosa successe durante quella famosa celebrazione liturgica?
R. Nel Sudan meridionale stavo formando un gruppo di Evangelism Explosion [un’agenzia missionaria di area evangelical] e con me vi erano ministri di culto, cappellani e formatori. Affluivano, insomma, molte persone. Quel giorno, andando verso la nostra chiesa, udimmo un bombardiere Antonov, di fabbricazione sovietica e appartenente all’Aviazione Militare Sudanese che si avvicinava. Riuscimmo anche a vederlo distintamente. Dapprima la credemmo una missione di ricognizione e così raggiungemmo la chiesa. Qualcuno mostrava un poco di nervosismo, ma cantammo e pregammo. Improvvisamente, sentimmo il rumore di bombardamenti a circa dodici miglia di distanza. Uscimmo all’aperto e vedemmo cadere le bombe sul villaggio vicino, dove ci saremmo recati nel pomeriggio per una funzione religiosa. Il villaggio fu colpito da circa quattordici bombe, sganciate nel corso di tre diverse incursioni aeree su quella comunità. Ci radunammo e pregammo per la gente che stava subendo quel bombardamento, leggendo il Salmo 91.
D. E poi che cos’è successo?
R. Prendemmo a leggere lo schema di formazione di Evangelism Explosion che inizia così: “Se dovessi morire oggi, sei sicuro di andare in Paradiso?”. A quel punto qualcuno ci raggiunse di corsa, gridando: “Sta arrivando l’Antonov!”. Tutti si affrettarono ad abbandonare la chiesa e io fui l’ultimo ad andarmene. Non appena uscii, udii il fischio terribile delle bombe che si avvicinavano a grande velocità, intenso come un crescendo musicale. Sapevo di non aver nemmeno il tempo di alzare gli occhi e così non feci altro che gettarmi immediatamente a terra, sdraiandomi il più aderente possibile al terreno. Mentre toccavo terra, cinque bombe esplosero in rapida successione. La terra tremò. Colonne di fuoco e di fumo si alzarono tutto intorno alla chiesa. Che era l’unico edificio nel raggio di un miglio in tutte le direzioni.
D. Quindi non si trattò di un errore.
R. L’obiettivo era evidentemente la chiesa. Era domenica mattina e l’aviazione stava disinvoltamente bombardando la chiesa. Se qualcuno nutrisse dubbi su quale fosse il vero obiettivo del bombardamento, tenga presente che l’aereo girò su sé stesso e tornò a sferrare un secondo attacco. Fu allora che riuscii a vederlo distintamente. Vidi l’aeroplano chiaro come il giorno sopra di noi. Vidi i due motori. Si trattava di un Antonov 32. Riuscii perfino a sentirne il suono metallico e, guardando in alto, vidi tre puntini che si avvicinavano crescendo sempre più di misura: erano tre bombe che cadevano esattamente sopra di noi. Sembra che il cuore si fermi. Eccoci qui, una domenica mattina riuniti in una chiesa per adorare il Signore con un velivolo militare del governo che ci viene a bombardare.
D. È sorprendente che non vi siano state vittime.
R. La cosa incredibile è infatti proprio questa! Ciascuna di quelle otto bombe ha toccato il suolo entro cento metri dalla chiesa. Quel mattino erano trecento le persone riunite per la cerimonia liturgica nella chiesa e i frammenti di proiettili esplosi erano abbondantissimi. Sto parlando di centinaia di pezzi metallici taglienti e scheggiati, scaraventati dappertutto. Gli alberi ne erano pieni. Io stesso mi sono trovato sepolto dai detriti sparsi da una bomba atterrata a una quindicina di metri da me. Quando mi fui rialzato, rimasi davvero sorpreso di non esser stato ferito. Mi affrettai subito per cercare e quindi soccorrere i feriti, ma non ve n’era nessuno. Trecento persone, otto bombe concentrate in un’area ristretta e nessun ferito. Fu un miracolo.
D. E lei aggiunge che non è stato l’unico…
R. Quello successivo accadde nel giro di un’ora. Riunitesi di nuovo nella chiesa le trecento persone, la cerimonia liturgica riprese con la prospettiva di durare ancora per altre quattro ore e mezza nonostante il grande pericolo del ritorno del bombardiere. Dove trovate gente che torna a riunirsi in una chiesa appena bombardata?
D. A quanto pare nel Sudan meridionale. Dal 1989, e malgrado le proteste di Jesse Jackson [leader statunitense nero, già candidato sconfitto alla nomination presidenziale per il Partito Democratico nel 1984 e nel 1988, e presidente della National Rainbow Coalition], Al Sharpton [reverendo protestante nero, accusato di antisemitismo] e altri, in Sudan prospera il commercio di schiavi; o mi sbaglio?
R. È proprio così. Siamo nel secolo XXI e in Sudan la tratta degli schiavi non solo è fiorente, ma così è con l’incoraggiamento del governo, il quale agisce in questo per due motivi. Il primo è perché questo commercio incentiva economicamente le truppe arabe a spingersi nel Sud del Paese, dove è possibile abbandonarsi ai saccheggi e alle razzie di persone di colore onde arricchirsi attraverso la vendita o l’asservimento a sé delle stesse. Il secondo è che il commercio di schiavi viene usato come un’arma terroristica al fine di destabilizzare il Sud.
D. Spesso mi lamento delle prevaricazioni operate dai grandi mezzi di comunicazione, ma la condizione in cui versa il Sudan configura un’atrocità vera e propria. Gli intellettualoidi di sinistra, che ripetono: “Possibile che nessuno abbia mosso un dito per fermare il genocidio operato da Hitler?”, sono gli stessi che tacciono di fronte alla continuazione del genocidio in Sudan.
R. Sì. Sia Louis Farrakhan [al secolo Louis Eugene Walcott, discepolo di Malcolm X (Malcolm Little, 1925-1965) e attuale leader nero della statunitense The Nation of Islam, accusato di antisemitismo], sia Jesse Jackson si sono recati in Sudan, ma nessuno ha detto nulla sulla tratta degli schiavi. Di fatto, sono stati entrambi ospitati dagli schiavisti arabi che il regime non solo tollera, ma pure incoraggia. E costoro sarebbero i “campioni” della popolazione nera e della “giustizia”…
D. A proposito, Al Sharpton ha avuto una sorta di rivelazione mentre sedeva ai piedi di un albero in Sudan, in seguito alla quale ha dichiarato di voler partecipare alle primarie del Partito Democratico onde cercare di diventare presidente degli Stati Uniti d’America…
R. Oh, cielo… Quando si recò in Africa nel 1998, Bill Clinton si scusò per la partecipazione americana al commercio degli schiavi avvenuto circa centottant’anni prima e anche lui non disse una parola sul commercio di schiavi che si sta consumando oggi in quel Continente. Costa poco scusarsi per i peccati commessi da altri in un altro tempo e in un altro luogo, per poi ignorare quanto accade oggi.
D. Mi perdoni, ma l’espressione “costa poco” centra esattamente la personalità dell’uomo a cui ha fatto riferimento. E le Nazioni Unite che cosa stanno facendo per ridurre l’intensità della tragedia del Sudan?
R. Le Nazioni Unite hanno l’incredibile capacità d’interessarsi di una situazione brutta e di renderla molto, molto peggiore. Le ho viste all’opera in Angola. Le ho viste in Rwanda. Sappiamo bene che cos’hanno fatto in Somalia. Quanto al Sudan, dichiarano che dal 1989, anno in cui hanno dato vita all’Operation Lifeline Sudan, sono stati spesi oltre tre miliardi di dollari statunitensi. Il punto è proprio questo: secondo i rapporti prodotti dalle stesse Nazioni Unite, il numero delle persone che oggi muoiono di fame è uguale a quello di quando le Nazioni Unite hanno inaugurato il proprio intervento. Con quella somma di denaro avrebbero potuto costruire un Mc Donald’s in ogni villaggio sudanese, distribuire cibo gratis per gli ultimi dodici anni e averne ancora da spendere.
D. E allora che cosa ne hanno fatto di tutti quegli aiuti?
R. Tutte le popolazioni che ho visitato sui Monti Nuba affermano che mai, dico mai, è arrivato loro qualcosa dalle Nazioni Unite o da uno delle basi di Operation Lifeline Sudan. La popolazione della maggior parte delle regioni che ho visitato non ha mai ricevuto nulla. La maggior parte degli aiuti alimentari stanziati dalle Nazioni Unite raggiunge la stessa gente che causa la carestia, che brucia i raccolti agricoli e che avvelena i pozzi dei sudanesi.
D. Nel Paese vi è una qualche presenza delle Nazioni Unite?
R. In realtà no. Mantengono qualche base qua e là, a cui inviano whisky e birra, e dove fingono di aiutare la gente, ma la popolazione locale le disprezza. Per i sudanesi, le Nazioni Unite hanno un nome adatto: basta metterne la sigla inglese “UN” davanti a certe parole ed è facile ottenere aggettivi come ungrateful, unregenerate, uncooperative, unreasonable, unfriendly e unaccountable, ovvero “ingrato”, “pervicace”, “scansafatiche”, “irragionevole”, “ostile” e “inaffidabile”. Sono queste le Nazioni Unite.
D. Per quanto riguarda i collegamenti fra la Cina comunista e il Sudan, si tratta di un vero rapporto simbiotico o assomiglia più a un matrimonio di convenienza?
R. Buona domanda. Senza dubbio, la Cina comunista è il primo fornitore di armi al governo sudanese del Fronte Nazionale Islamico. Le bombe che ci sganciano sulla testa, gli aerei che pilotano e le armi che adoperano provengono tutte dalla Cina comunista, ma non credo che questa lo faccia gratuitamente. Per quanto ci è dato di capire, sono l’Iran, la Malaysia e l’Indonesia gli Stati che pagano davvero la Cina comunista per le forniture di armi, che poi il Sudan usa contro le popolazioni del Sud. Ma oggi la questione ha una dimensione nuova. Sulla scena ha fatto il suo ingresso la rossa China Petroleum, che, assieme alla canadese Talisman, estrae petrolio. Da una parte, quindi, abbiamo i cinesi che forniscono armi; dall’altra abbiamo i cinesi che investono in oro nero, laddove la maggior parte del denaro che il Sudan ricava da questo commercio serve per acquistare, sempre dai cinesi, altre armi. La Cina comunista è stretta al Sudan da molti legami.
D. Recentemente, i media hanno riportato la storia di un gruppo di ragazzi, più di un migliaio, che ha abbandonato il Sudan per cercare di evitare la riduzione in stato di schiavitù.
R. Sì, quella che è stata definita “La Generazione Perduta”.
D. Dopo essere stati rifiutati dall’Etiopia e dal Kenya, pare che molti di loro siano stati adottati o in qualche modo aiutati dagli Stati Uniti d’America subendo peraltro un grosso shock culturale. Ha idea di quali siano le loro attuali condizioni?
R. L’esperienza che si può ricavare dall’osservazione di quanto accaduto ad altri popoli, che sono stati sradicati, sembrerebbe proprio che ogni qualvolta si trasporta una popolazione come quella dall’Africa a un Paese moderno del primo mondo, quale potrebbero essere gli Stati Uniti d’America, i risultati siano negativi. Noi siamo cresciuti tutta la vita solo con l’obiettivo di farcela in questa competizione estremamente materialistica, in questa società colma di ogni tipo di tentazione e di ogni genere di eccessi. In generale, si è constatato che, dal punto di vista spirituale, le persone provenienti da Paesi del terzo mondo finiscono immensamente peggio. Nel gioco ci perdono. Vengono ampiamente disorientati. Li si separa dalle loro strutture familiari, da quanto li sostiene esistenzialmente e dai loro ambienti di vita, insomma da tutto quanto dà significato, senso e stabilità alla loro vite. Normalmente, il tutto si risolve in un disastro completo giacché molte di queste persone vengono risucchiate in uno stile di vita estremamente distruttivo.
D. Aspetti un momento. Sta forse suggerendo che se la caverebbero meglio se rimanessero in Sudan?
R. Non certo là dove erano vittime degli schiavisti. Ma esiste anche un Sudan libero. Esiste un nuovo Sudan controllato dai combattenti cristiani per la libertà. La politica attuata dal governo sudanese mira a spopolare il meridione del Paese massacrandone gli abitanti, o costringendoli all’esilio, oppure rendendoli schiavi. Ma l’85% del Sud è sotto il controllo della resistenza. I suoi membri stanno combattendo per le proprie vite, per la libertà e per un Sudan meridionale cristiano e indipendente. Per questo giudico negativamente l’idea di rimuovere da quei luoghi la gente, che potrebbe rafforzare questo grande tentativo di creare un Sudan libero.
D. Oltre allo scandaloso comportamento tenuto da quei media che tacciono questa situazione, qual è, secondo lei, il problema maggiore del Sudan?
R. Uno dei maggiori problemi che funestano l’Africa oggi è costituito dal fatto che gli aiuti provenienti dall’estero vengono incassati dai governi dei vari Stati. I governi costituiscono il problema, non la soluzione. Se vi è gente che vuole aiutare le popolazioni africane, è necessario che faccia le proprie donazioni direttamente a iniziative private, a gruppi precisi, a singole persone oppure alle Chiese. Queste persone controlleranno che il denaro venga amministrato correttamente; invece, dando il denaro ai governi, tutto quello che si ottiene è il foraggiamento della corruzione e dell’oppressione. È necessario tagliare i fondi delle Nazioni Unite. È necessario tagliare i fondi a queste agenzie che aiutano i governi a opprimere i propri cittadini.
D. Che cosa possono fare i nostri lettori per esercitare pressioni, affinché i grandi media si decidano a dare notizia di quanto veramente accade in Sudan? E, in secondo luogo, come possono fare i lettori per aiutare, qualora lo volessero, lei e la sua Frontline Fellowship?
R. Le priorità stanno in tre “i”: informarsi, impegnarsi e intercedere. Il non sapere distrugge le persone. Vi è bisogno d’informazione. Per questo abbiamo bisogno di WorldNetDaily.com e di trasmissioni come quelle che lei conduce, impegnate a informare gli americani. Non possiamo dipendere dai grandi media come nostra fonte d’informazione. A essi non importa alcunché se i cristiani vengono perseguitati, crocifissi o resi schiavi dall’altra parte del mondo in Sudan.
D. Già, ma ciò di cui abbiamo parlato non è un foruncolo sulla schiena di una pulce. Quella guerra va avanti da molto tempo.
R. Certamente! Esiste di fatto una congiura del silenzio. Credo si tratti della classica mentalità da ABC, Anything But Christianity, “tutto fuorché il cristianesimo”. Sembra che quando le vittime sono cristiani, i media laici non sappiano far altro che riscoprire il proprio inveterato pregiudizio e semplicemente non ne raccontano le storie. Informiamoci attraverso canali indipendenti. La gente può visitare il nostro sito Internet e aggiornarsi su quanto accade in Sudan così come lo raccontiamo noi.
D. Ovvero?
R. Il nostro sito Internet è <http://www.frontline.org.za>. Vi si possono trovare aggiornamenti su quanto avviene oggi in Sudan e rapporti anche piuttosto vecchi. Vi sono fotografie ed è possibile ascoltare i racconti. La gente può inoltre ottenere informazioni dirette da noi attraverso le nostre lettere d’informazione o i nostri libri. Lasciate che vi raccomandi caldamente la videocassetta che WorldNetDaily.com sta promuovendo, intitolata Sudan: The Hidden Holocaust, “Sudan. L’Olocausto nascosto”. Si tratta di un eccellente strumento per informare, motivare e mobilitare le vostre comunità religiosa e civile a operare in favore del Sudan. È una potente arma per la libertà nel Sudan. Uno dei modi migliori per aiutare è acquistarlo, guardarlo e mostrarlo. Prestatelo ai vicini di casa.
D. Mi permetta di aggiungere che è possibile acquistare la videocassetta online oppure telefonando allo 001-877-909-1776.
R. Qualcuno potrebbe essere poi interessato anche al libro che pubblicai nel 1998 con il titolo Faith Under Fire in Sudan, “La fede sotto fuoco in Sudan”, e su cui è basata la videocassetta. Contiene centoquaranta fotografie, sette cartine geografiche e i retroscena di quanto avviene in pendenza della peggiore persecuzione esistente oggi nel mondo.
D. Fare apostolato in Sudan è pericoloso…
R. Nel corso dell’ultimo anno, ho subito due bombardamenti mentre predicavo in chiesa per il servizio religioso domenicale. Inoltre, la sede della nostra missione in Sudan, dove sorge l’unica scuola secondaria superiore cristiana di tutto il Sudan meridionale, è stata bombardata dal governo nove volte. Ci siamo visti arrivare i MiG e gli Antonov che hanno scaricato sulla comunità, incluso il nostro centro missionario, più di cento bombe. Non vi è dubbio che l’obiettivo designato siano i cristiani.
D. Che perdite avete subito?
R. Ogni volta che sono venuti a bombardarci, ci siamo meravigliati del fatto che, in tutta la nostra scuola, non vi sia stato un solo morto. Ci sono cadute addosso cento bombe e nella comunità non è stata uccisa una sola persona. È straordinario. Dopo tutto, ci siamo detti, la gente sta certamente pregando per noi. Non sottovalutate la potenza delle vostre preghiere. Non abbiamo alcuna protezione aerea. Non abbiamo alcun missile Stinger, alcuna contraerea. Davanti ai bombardieri siamo completamente vulnerabili e senza aiuto. L’unica forza di contrasto aereo su cui possiamo contare sono le vostre preghiere e gli angeli di Dio.
D. Non intendo minimamente denigrare l’aspetto missionario di tutto questo, ma il Sud non sta ricevendo davvero nessun aiuto per quanto strettamente concerne le concrete attività di guerra, tese a combattere gli abusi perpetrati dal Nord?
R. Purtroppo no. Tutte le armi che il Sud ha sono quelle prese al nemico. Nulla m’induce a pensare che dall’estero provengano aiuti di questo tipo. In realtà, la gente di quei luoghi dice: “Se il mondo musulmano aiuta militarmente il governo del Sudan, perché quello cristiano non aiuta noi?”. Per loro è molto difficile comprendere perché le nazioni islamiche sono felici di allinearsi al jihad decretato contro i cristiani e perché invece le nazioni cristiane non si schierano a fianco dei cristiani che lottano per la propria sopravvivenza.
D. Uno degli ostacoli maggiori da superare è il fatto che molte delle nazioni cristiane che potrebbero prestare il proprio aiuto non lo sanno nemmeno!
R. È assolutamente vero e qui è dove c’inseriamo noi. Scrivendo direttamente ai membri del Congresso per fornire loro suggerimenti concreti, i nostri lettori potrebbero produrre un maggiore impatto. Nel 1985 ero tornato in Angola durante i bombardamenti cubani. Una notte le stazioni radiofoniche locali della BBC trasmisero il discorso in cui il presidente Ronald W. Reagan annunciò che gli Stati Uniti d’America avrebbero fornito missili Stinger ai combattenti per la libertà in Afghanistan e in Angola. E questo fu fatto. Reagan mantenne la parola data. Gli Stinger arrivarono e con essi vennero abbattuti molti elicotteri e aerei da caccia delle forze comuniste. Il bombardamento di chiese e di villaggi passò di moda. Una delle cose che gli statunitensi possono fare è proporre l’invio di armi difensive affinché in Sudan sia possibile proteggere villaggi, chiese e scuole da questi bombardamenti terroristici.
D. Ci dia un ultimo suggerimento…
R. Sarebbe opportuno istituire una zona interdetta al volo. Negli ultimi dieci anni, i piloti statunitensi hanno fatto rispettare una no-fly zone sul Nord dell’Iraq al fine di proteggere i curdi musulmani dai bombardamenti del loro stesso governo. Perché non istituire una zona chiusa al volo anche sul Sudan meridionale, onde proteggere i neri cristiani dai bombardamenti del governo musulmano del Sudan?
a cura di
Geoff Metcalf
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Sudan’s ignored atrocities. Geoff Metcalf interviews Peter Hammond on world’s longest war, in WorldNetDaily, 27-5-2001 © 2001 WorldNetDaily.com. Traduzione e inserzioni fra parentesi quadre della redazione di Cristianità.