Intervista con Russel Kirk
Su invito dell’assessorato alla Cultura e della Biblioteca Civica del Comune di Monza, nell’ambito di una serie di incontri dal titolo Oltre la terra desolata, promossi in onore di Thomas Stearns Eliot, Russell Kirk, biografo e amico del poeta e saggista anglosassone, venerdì 26 maggio, al teatrino della Villa Reale di Monza, ha portato una testimonianza su Thomas S. Eliot e il suo tempo, presentato al numeroso pubblico da Mario Marcolla, studioso della cultura nordamericana.
Sabato 27 maggio, il pensatore e saggista statunitense, che era accompagnato nella sua tournée italiana dalla moglie Annette, ha tenuto una conferenza sul tema Rivoluzione francese e/o Rivoluzione americana, organizzata a Milano, nella Sala del Grechetto di Palazzo Sormani, da Alleanza Cattolica. Introdotto da Giovanni Cantoni, direttore di Cristianità, e presentato da Mario Marcolla, che ha brevemente esposto la storia intellettuale del Conservative Movement così come viene tracciata nell’opera più famosa dello stesso pensatore americano, The Conservative Mind. From Burke to Eliot (7ª ed. riveduta, Regnery Gateway, Chicago-Washington 1987), “Il pensiero conservatore. Da Burke a Eliot”, Russell Kirk ha trattato l’argomento di fronte a un pubblico qualificato dalla presenza, fra altri, del professor Luigi Prosdocimi, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, del professor Enrico Fasana, dell’Università di Trieste, del senatore Alfredo Mantica e del consigliere provinciale Flavio Nucci.
Sullo stesso tema, sempre per iniziativa di Alleanza Cattolica, Russell Kirk ha parlato lunedì 29 maggio a Torino, nella Sala Carducci dell’Hotel Jolly Ambasciatori, presentato dal professor Mauro Ronco, dell’Università di Cagliari nonché esponente dell’associazione organizzatrice, e di nuovo introdotto da Mario Marcolla; quindi, martedì 30 maggio, a Lecce, nella Sala Maria Luisa Ferrari del Palazzo Ateneo, è stato protagonista di un incontro promosso dal Centro Studi Giuridici e Politici e dalla sezione salentina della Società Filosofica Italiana, presentato dal professor Antonio Verri, segretario di questa sezione, e dal magistrato Alfredo Mantovano, di Alleanza Cattolica, alla presenza, fra altri, del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Lecce, dottor Vincenzo Chiriacò. In occasione del suo soggiorno leccese il pensatore americano è stato anche intervistato dalle emittenti televisive teledue e telenorba.
Nato a Plymouth, nel Michigan, nel 1918, Russell Kirk ha conseguito il baccellierato alla Michigan State University e si è laureato alla Duke University. Unico americano addottorato in lettere nell’antica università scozzese di St. Andrews, ha ricevuto dodici lauree honoris causa da altrettante università americane. Nato e cresciuto in una famiglia non appartenente ad alcuna confessione religiosa, è stato battezzato nel 1964, quando è entrato nella Chiesa cattolica. L’incontro con la filosofia politica di Edmund Burke e con la produzione letteraria di Thomas S. Eliot l’aveva portato a superare una posizione stoica coltivata durante gli anni Quaranta. Con la pubblicazione, nel 1953, della sua opera principale, il già ricordato The Conservative Mind. From Burke to Eliot – in prima edizione con il sottotitolo From Burke to Santayana – egli diventa l’esponente principale della filosofia politica conservatrice negli Stati Uniti d’America. La sua produzione intellettuale consta di una ventina di opere, tradotte in numerose lingue – fra cui il tedesco, l’olandese, lo spagnolo e il coreano -, con una diffusione complessiva di oltre un milione di copie. Visiting professor presso diverse università del Nuovo e del Vecchio Mondo, vive a Mecosta, nella parte centrale del nativo Michigan, ove, con la collaborazione della moglie Annette, organizza e gestisce i Piety Hill Seminar. Presidente della Marguerite Eyer Wilbur Foundation, dirige ed edita l’influente trimestrale The University Bookman. Gli interessi di Russell Kirk spaziano dalla storia al pensiero politico, dalla letteratura al giornalismo, e ancora oggi è il pensatore più significativo del Conservative Movement americano, i cui fondamenti dottrinali risalgono al pensiero dell’irlandese Edmund Burke, da questo esposti principalmente nelle sue Reflections on the Revolution in France, pubblicate in Inghilterra nel 1790, opera che ha costituito un ostacolo rilevante alla diffusione dell’ideologia rivoluzionaria nel mondo anglosassone (cfr. Riflessioni sulla Rivoluzione Francese, trad. it., Ciarrapico, Roma 1984).
Nell’opera The Conservative Mind. From Burke to Eliot viene tracciata la storia dell’influenza del pensiero di Edmund Burke in Inghilterra e negli Stati Uniti, attraverso tutto l’Ottocento e la prima metà del secolo XX. Come ha detto Mario Marcolla, presentando il pensatore americano al pubblico italiano, i cardini del pensiero conservatore, esposti nella sua opera, sono cinque: “1. Il credere che un divino intento go-verna la società e le coscienze, forgiando un’eterna catena di diritti e di doveri, la quale lega i grandi e gli oscuri, i vivi e i morti, così che i problemi politici sono, in ultima analisi, problemi morali e religiosi, e la politica è l’arte di apprendere e di applicare la giustizia; 2. l’amore per la varietà e il mi-stero della vita tradizionale, perché distinta dalla stretta uniformità e dai fini egualitari e utilitaristici dei sistemi ra-dicali; 3. la convinzione che la società civile richiede ordini e classi, e che la sola uguaglianza è quella morale, dal mo-mento che tutti gli altri tentativi di livellamento conducono all’annientamento; 4. la persuasione che la proprietà e la libertà sono inseparabilmente connesse, e che il livellamento economico non rappresenta nessuna forma di progresso; 5. la fiducia nelle leggi tramandate e la diffidenza nei riguardi dei sofisti e dei calcolatori”.
Dagli anni Cinquanta all’avvento, nel 1980, di Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti, il Conservative Movement è riuscito a diffondere la propria concezione del mondo in diversi settori della vita americana, opponendosi sia all’ideologia progressista dei liberal, sia – come ha spiegato lo stesso Mario Marcolla – alle teorie individualistiche, libertarie e antistatalistiche, di intellettuali come Ayn Rand – autrice del famoso romanzo Noi vivi. Addio Kira (trad. it., Baldini-Castoldi, Milano 1938) – e dei suoi seguaci, come Frank Chodorov, i quali – anch’essi definiti conservatori – hanno offerto in Europa l’immagine vincente dell’era reaganiana.
Negli incontri con il pubblico italiano a Milano, a Torino e a Lecce, Russell Kirk, illustrando le profonde differenze che separano la Rivoluzione americana da quella francese, ha così presentato l’immagine di un’altra America, quasi completamente sconosciuta almeno in Italia, quell’America che difende i valori della tradizione classica e cristiana anche attraverso l’opera culturale di uomini come Richard Weaver, Daniel Boorstin, Peter Stanlis, Peter Viereck – di cui fu tradotto il volume Dai romantici a Hitler (Einaudi, Torino 1948) -, Francis Graham Wilson, William Buckley – direttore di The National Review – e i più anziani Donald Davidson, Allen Tate, James Burnham – ex allievo di Lev Trotsky in Messico, poi passato a posizioni conservatrici e noto anche in Italia per il suo La rivoluzione dei tecnici (trad. it., Mondadori, Milano 1946) -, William Henry Chamberlin, John Davenport, Joseph Chamberlain, Ross J. S. Hoffman ed Eliseo Vivas.
Nei suoi studi, Russell Kirk raccoglie e unifica idealmente l’opera culturale di questi uomini e quella, conosciuta quasi esclusivamente nel suo aspetto letterario, di Thomas S. Eliot, di cui meritano di essere ricordati gli scritti L’idea di una società cristiana (trad. it., Comunità, Milano 1948) e Appunti per una definizione della cultura (trad. it., Bompiani, Milano 1952).
In occasione della sua permanenza in Italia, ho potuto porre al pensatore americano alcune domande.
D. Si è soliti accomunare la Rivoluzione americana e quella francese, come espressioni di uno stesso progetto illuministico. Il Conservative Mind, a partire da Edmund Burke, ha negato questo legame: quali sono le principali differenze?
R. La prima illustrazione adeguatamente argomentata del diverso carattere dei due fenomeni storici è contenuta in un’opera pubblicata nel 1800 da Friedrich von Gentz, uomo politico e scrittore prussiano, amico del principe Clemens von Metternich e uno dei principali architetti della ricostruzione dell’Europa dopo la caduta di Napoleone nel 1815. Le riflessioni di Edmund Burke – tradotte in tedesco dallo stesso Friedrich von Gentz – gli avevano fatto aborrire le teorie e le conseguenze della Rivoluzione francese: egli scrisse un saggio nel quale sostiene la tesi secondo cui la Rivoluzione americana fu “una rivoluzione non fatta, ma impedita”, in quanto gli americani erano insorti in difesa dei loro diritti fondamentali e le loro richieste erano moderate; al contrario, i rivoluzionari francesi, sperando di riplasmare la natura umana e la società, rompevano con il passato, sfidavano la storia, abbracciavano dogmi astratti, cadendo così sotto il dominio crudele di un’ideologia mostruosa. Importa ricordare che questo studio di Friedrich von Gentz fu tradotto in inglese da John Quincy Adams, poi sesto presidente degli Stati Uniti, con il titolo The American and French Revolutions Compared.
D. Nei due episodi, fu diverso l’atteggiamento tenuto anche in relazione alla religione cristiana?
R. Friedrich von Gentz non tratta della maggiore differenza, costituita appunto dall’ostilità dei rivoluzionari francesi nei confronti della religione cristiana e, al contrario, dal forte attaccamento a essa da parte di quelli americani. Infatti, contrariamente a quanto fece la Rivoluzione francese, in America non venne inferto nessun colpo alla fede cristiana. La grande maggioranza dei firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza era costituita da cristiani praticanti dell’una o dell’altra confessione e i cinquantacinque delegati alla Convenzione Costituzionale erano quasi tutti – fatta eccezione per tre o quattro – membri di una Chiesa. Così, nel corso della Rivoluzione americana, nessuno venne perseguitato per la sua fede religiosa.
Durante quegli anni, quando le idee di Jean-Jacques Rousseau dominavano il pensiero francese, la più potente influenza intellettuale nell’America Settentrionale britannica era quella prodotta dal rigido calvinismo di Jonathan Edwards. Mentre il pensatore ginevrino sosteneva la naturale bontà del genere umano, Jonathan Edwards ricordava nel suo insegnamento la depravazione della natura umana.
D. Eppure le idee illuministiche, che erano già dominanti in Francia prima dell’Ottantanove, sono almeno in parte penetrate nella Rivoluzione americana. Com’è potuto accadere, se gli americani si erano ribellati alla Corona inglese soltanto per affermare i loro diritti tradizionali di autonomia e di libertà?
R. Gli uomini che hanno fatto la Rivoluzione americana non intendevano rifondare sostanzialmente la loro società: affermavano di opporre resistenza alle pericolose innovazioni di re Giorgio III d’Inghilterra e dei suoi amici – cioè dei King’s Friends, un gruppo che, nel parlamento inglese, sosteneva una politica centralizzatrice – in nome di quelli che Edmund Burke chiamava “i diritti costitutivi degli inglesi”. Perciò erano piuttosto conservatori che innovatori, e tentavano di evitare e non di promuovere una rivoluzione. Le cose cambieranno nel 1776, quando ai rivoluzionari americani apparirà indispensabile l’alleanza con la Francia; in questo senso si possono spiegare le frasi congeniali ai philosophes francesi presenti nella Dichiarazione d’Indipendenza: esse ricordano il linguaggio di Thomas Jefferson piuttosto che il tono e la moderazione dei tipici membri del Congresso Continentale del 1776, che riuniva i rappresentanti dei primi tredici Stati Uniti americani.
D. All’inizio del secolo, nell’History of American Political Theories di Charles E. Merriam, le due tendenze emerse dopo la Rivoluzione americana vengono descritte in questi termini: “Dopo che l’indipendenza dalla Gran Bretagna fu conseguita e formalmente riconosciuta, due nette tendenze apparvero durante il periodo iniziale dell’Unione: la reazionaria e la radicale. La teoria del primo partito è chiaramente espressa nella stessa Costituzione, nel Federalist e negli scritti di John Adams e di Alexander Hamilton. La teoria del partito radicale è enunciata nel modo migliore da Thomas Jefferson, la figura centrale, sia nell’azione pratica come nella filosofia politica, della scuola democratica”.
R. Il francofilo Thomas Jefferson era atipico rispetto agli uomini che sedevano nel Congresso Continentale. Carl Becker, nella sua opera The Declaration of Indipendence, lo descrive in questi termini: “Non senza ragione, Jefferson si sentiva quasi a casa propria a Parigi. Per la qualità del suo pensiero e per il suo temperamento apparteneva realmente alla scuola filosofica degli enciclopedisti, quelle anime generose che amavano il genere umano in virtù del fatto che non conoscevano molto gli uomini, che adoravano la ragione con una fede irragionevole, e compivano studi sulla Natura mentre coltivavano una studiata avversione per l'”entusiasmo” e la forte emozione religiosa. Come loro Jefferson, specialmente nei suoi primi anni, stupisce perché si professa espressamente un radicale. Spesso percepiamo come egli difenda alcune pratiche e idee, come denunci alcuni costumi e istituzioni non tanto per riflessione autonoma o per convinzione profonda circa la particolare posta in gioco, quanto perché, in generale, questi sono temi che un filosofo o un “uomo virtuoso” deve naturalmente difendere o denunciare”.
D. Come si sono sviluppate successivamente queste due tendenze, quella radicale, liberal, e quella conservatrice nella storia americana?
R. La tendenza liberal, che si richiama a Thomas Jefferson – presidente degli Stati Uniti dal 1801 al 1809 – continuerà nel Partito Democratico, fondato durante la presidenza del generale Andrew Jackson, fra il 1829 e il 1837, fino alla presidenza di Franklin Delano Roosevelt. Dopo la morte di quest’ultimo, nel 1945, i seguaci di Thomas Jefferson non saranno molti; bisogna anche ricordare che quando i liberal si appropriano della sua figura, molto spesso la adattano alle loro esigenze.
D. Anche John Fitzgerald Kennedy può essere ascritto a questa tendenza?
R. Il presidente John F. Kennedy rappresentava gli interessi delle classi lavoratrici, degli immigrati e del mondo agricolo; aveva inoltre una connotazione cattolica, anche se era più un’ispirazione che un reale attaccamento alla Chiesa. È riuscito a far presa sui poveri e sugli immigrati, contrapponendoli ai cosiddetti “interessi costituiti” che, secondo i liberal del Partito Democratico, erano rappresentati dal Partito Repubblicano.
Con la presidenza di Ronald Reagan tutto questo è cambiato, anche perché gli immigrati si sono inseriti nel paese aumentando il loro tenore di vita. Si è così potuto parlare di “conservatorismo popolare”, che ha inoltre costretto anche il Partito Democratico ad assumere posizioni più conservatrici. Il problema del Partito Democratico consiste nel fatto che è molto diviso al suo interno, mentre il Partito Repubblicano è ormai diventato la forza politica pro-life, favorendo in questo modo l’ingresso al proprio interno di molti cattolici e di cristiani di altre confessioni, che un tempo avevano sostenuto John F. Kennedy e il Partito Democratico.
Bisogna anche notare che il miglioramento delle condizioni di vita ha favorito lo spostamento della lotta politica a livello dei princìpi, non più soltanto a quello degli interessi da difendere oppure da conquistare.
a cura di
Marco Invernizzi