Alfredo Mantovano, Cristianità n. 363 (2012)
Intervento al convegno su Élite di potere ed etica, organizzato il 9-12-2011 a Genova, nel Palazzo della Meridiana, dall’UCID, l’Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti, della Liguria, cui hanno preso parte il dottor Ettore Gotti Tedeschi e il dottor Marco Tronchetti Provera. Ha concluso i lavori S. Em. il card. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, presidente della Conferenza Episcopale Italiana.
“I capi non s’improvvisano, soprattutto in epoca di crisi. Trascurare il compito di preparare nei tempi lunghi e con severità d’impegno gli uomini che dovranno risolverla, significa abbandonare alla deriva il corso delle vicende storiche” (1). Papa beato Giovanni Paolo II (1978-2005) ha pronunciato queste parole il 3 novembre 1984, al Collegio Borromeo di Pavia, nel discorso tenuto in onore di san Carlo Borromeo (1538-1584). Com’è noto, il Collegio è stato fondato dal santo nel 1561 per rispondere sia al disagio materiale sia al disordine morale in cui versava larga parte della gioventù studentesca.
I nostri sono tempi difficili. Ma neppure quelli erano facili: l’Europa era attraversata dalla crisi della Riforma protestante, il Concilio di Trento (1545-1563) era ancora in corso, sia pure nella sua terza e conclusiva fase, il mondo della politica e quello dell’economia risentivano già da decenni dell’allontanamento da un quadro di princìpi oggettivi in nome di una concezione antropocentrica a-cristiana, se non anti-cristiana.
Allora, come oggi, c’era bisogno di “capi”. Proseguiva, nella medesima circostanza, Papa beato Giovanni Paolo II: “Nell’ideare il “suo” collegio, San Carlo s’ispirò certo alla mentalità corrente del signorile mecenatismo, ma solo per raggiungere il superiore obiettivo della promozione umana […]: creazione dei Seminari per la formazione del Clero, e sviluppo della cultura superiore imbevuta di spirito religioso […] per la preparazione dei quadri dirigenti laici cristiani della società emergente” (2).
Tante altre volte nella nostra storia d’italiani vi è stata la necessità di élite che guidassero le popolazioni e spesso non se ne sono trovate, o non erano adeguate: pensiamo allo sconvolgimento dei vari territori italiani alla fine del secolo XVIII, al momento dell’invasione di Napoleone Bonaparte (1769-1821), e alla parallela fuga delle élite non solo dall’esercizio delle proprie responsabilità, ma anche dai territori nei quali ci si attendeva che prendessero l’iniziativa. Pensiamo allo smarrimento delle popolazioni, che spesso hanno difeso i doni che ritenevano più preziosi — la fede e l’identità, cioè la cultura —, senza che qualcuno indicasse loro una strada. Pensiamo alle tragedie accadute dopo l’8 settembre 1943, anche in quel caso dovute in larga parte all’assenza di “capi” nel senso proprio del termine, di capi non improvvisati, di capi capaci di scegliere una strada che non fosse quella della fuga, anche fisica.
Non la tiro per le lunghe e non voglio continuare a prenderla da lontano: la cronaca delle settimane e dei giorni che viviamo danno ragione e attualità a quanto diceva ventisette anni fa Papa Wojtyla. Intendiamoci: non ho intenzione di far coincidere le mie minuscole considerazioni che, in coerenza con il tema del convegno, puntano a mantenersi su un piano generale, con la realtà contingente del quadro politico italiano. Accade però che il riferimento alla realtà contingente, oltre a essere atteso da chi riveste un incarico politico, permette forse di rendere meno astratte quelle considerazioni.
Sintetizzo, correndo il rischio della eccessiva semplificazione: la presenza di un governo cosiddetto “di tecnici” denuncia l’inadeguatezza dell’élite del potere politico nazionale nel dare risposta alle sfide del momento; vedremo oltre quali sono le controindicazioni o gli effetti collaterali del farmaco “tecnici al governo”, ma intanto quest’assioma oggi è difficilmente contestabile. Ciò che vale la pena chiedersi è se questa inadeguatezza venga fuori solo nell’autunno 2011, o se non sia piuttosto un dato consolidato nel tempo, tendenzialmente strutturale e proprio non soltanto dell’Italia.
È consolidato nel tempo. S’impone una retrodatazione per lo meno dall’inizio degli anni 1990. Quel decennio si apre con gli ultimi muri che crollano, sancendo la conclusione della Guerra Fredda (1946-1991) e producendo un effetto in Italia: la fine della Prima Repubblica. In particolare, gli anni 1990 descrivono un itinerario che comincia con il mettere da parte la Democrazia Cristiana, prosegue sancendo l’irrilevanza del Partito Popolare Italiano, quindi fa porre il problema della rappresentanza politica dei cattolici italiani. Ma tutto questo accade in un quadro che già conosce il primo vero commissariamento “tecnico” del governo e della politica. Nel 1993 l’allora governatore della Banca d’Italia, “tecnico” qualificatissimo ma — come oggi il professor Mario Monti — non eletto da nessuno, diventa presidente del Consiglio e, sei anni dopo, a sancire la definizione dell’itinerario, presidente della Repubblica (3).
In questo modo è addirittura fisicamente visibile l’instaurazione di un regime che potremmo definire “manageriale”, in cui il commis dell’estabilishment conta più del rappresentante del popolo e la politica si mostra con evidenza, alla luce del sole, limitata dalla finanza — dalla finanza più che dall’economia. Quando parlo di “politica” faccio riferimento a tutta l’élite politica, senza distinzioni di schieramenti o di partiti; e parlo di limitazione della politica da parte della finanza più che da parte dell’economia, perché la stessa economia subisce a sua volta e parallelamente una forte limitazione da parte della finanza.
Ma l’inadeguatezza dell’élite del potere politico nazionale ha anche un profilo strutturale. Oggi, con il “governo tecnico”, più d’uno parla di deficit di democrazia. Ma siamo proprio certi che, quando — fino a poche settimane fa — era in carica un governo politico, le scelte di alto profilo, quelle più significative, fossero nella disponibilità degli eletti e, in qualche modo, degli elettori? Se, come stiamo facendo, orientiamo il discorso al livello politico del cosiddetto Stato nazionale, non è più così da un bel po’ di tempo. Lo Stato nazionale è da decenni, in misura progressivamente crescente, schiacciato da una tenaglia: un braccio della tenaglia sono le istituzioni europee, e in particolare la Commissione Europea; l’altro braccio sono gli enti territoriali, e in particolare le regioni (4). Più della metà delle norme di carattere generale che regolano la nostra vita quotidiana sono di fonte europea, non nazionale, e ordinariamente provengono da realtà non direttamente elette; e ciò rappresenta senza alcun dubbio un minus di democrazia. Gran parte delle scelte politiche che incidono sulla fruizione di servizi essenziali — per tutti, la sanità — dipendono dalle regioni. Ovviamente non pongo sullo stesso piano le burocrazie dell’Unione Europea, che non rispondono ad alcun mandato elettorale, e le regioni, i cui organi rappresentativi sono invece democraticamente eletti: mi limito a segnalare gli elementi di debolezza della politica nazionale.
Aggiungo, in virtù di una minuscola esperienza al governo nazionale durata all’incirca dieci anni: la politica nazionale conosce un’ulteriore sensibile limitazione da parte delle proprie burocrazie interne. E tale limitazione si manifesta o nella forma dell’inerzia talora opposta di fronte alle scelte del vertice politico: in momenti di crisi finanziaria il fattore tempo è spesso decisivo, sì che l’inerzia della burocrazia può bloccare, per esempio, la realizzazione di un’importante opera pubblica; salvo a riversare esclusivamente sulla politica la responsabilità della mancata attuazione. Oppure si manifesta nella forma di un’interdizione “tecnica”; è quando, per esempio, nel richiamare il doveroso “rispetto dei vincoli europei”, li si rende più rigidi: ogni riferimento al ruolo che gli uffici tecnici del ministero dell’Economia hanno avuto negli anni del governo Berlusconi è assolutamente voluto. Quante manovre finanziarie durante il governo di centrodestra — ma anche prima, con il governo Prodi — sono arrivate sulla Gazzetta Ufficiale direttamente dagli uffici tecnici di via XX settembre, con passaggi intermedi tutto sommato veloci e poco contrastati: rapida approvazione in Consiglio dei ministri, quindi altrettanto rapido varo in Parlamento con voto di fiducia!
Non è un fenomeno soltanto italiano. L’ultima immagine in ordine di tempo che lo mostra tangibilmente è il giro di tavolo del vertice dei capi di governo di questa notte, che ha sottolineato per l’ennesima volta il carattere velleitario di un’unità monetaria non accompagnata da un’unità fiscale, e soprattutto da un’unità di politica economica.
E così giungiamo alla conclusione di un itinerario plurisecolare: se oggi la finanza primeggia sull’economia e sulla politica, è perché in una fase antecedente l’economia e la politica hanno preteso di primeggiare sull’etica. E quando parlo di etica collegata alla politica non faccio riferimento a giudizi moralistici che riguardino comportamenti individuali; faccio riferimento al tratto culturale di fondare l’azione della politica sull’adesione alla realtà e sullo sforzo di ricavare dall’osservazione della realtà le regole della vita quotidiana. Lo ricorda in modo magistrale Papa Benedetto XVI nel discorso al Reichstag tedesco dello scorso 22 settembre: “contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato […]. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto — ha rimandato all’armonia fra ragione oggettiva e soggettiva” (5). È quello che si chiama diritto naturale, un movimento filosofico e giuridico che non a caso matura prima dell’affermazione del cristianesimo, fin dal secolo II a.C. I problemi iniziano —ricorda il Santo Padre — quando si afferma progressivamente la “[…] ragione positivista, che si presenta in modo esclusivo e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale” (6).
Viene alla mente un film di Woody Allen di un paio d’anni fa, Whatever works, “basta che funzioni”; sembra esser diventato il motto di un mondo che si è “liberato” di qualsiasi “complicazione” di natura etica. È sempre Papa Benedetto XVI ad ammonire che “la ragione positivista […] assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue dal mondo vasto di Dio” (7).
Dunque, nel corso dei secoli, dal rispetto del reale, dal creato quale fonte di conoscenza e di etica, si è passati al culto della Dea ragione, cioè alla ragione positivista chiusa in sé stessa, che a sua volta ha condizionato i mutamenti della politica e dell’economia. Non vi è da meravigliarsi se dall’astrazione concettuale dal reale si sia giunti coerentemente all’astrazione monetaria: dal culto della Dea ragione al culto del Dio denaro (8). E se l’astrazione dalla realtà, l’astrazione concettuale, produce “pensiero debole”, cioè relativismo, l’astrazione monetaria e finanziaria produce, o meglio esprime, “poteri forti”, cioè una élite “tecnica” al posto delle élite politiche. Io ovviamente non riesco a gioire per la dichiarazione ufficiale d’inadeguatezza della categoria a cui appartengo: non tanto per una questione di difesa della “casta” dei politici nazionali, quanto per l’affievolimento di una funzione essenziale per il corpo sociale.
Se andiamo oltre la vulgata — per la quale i “tecnici” sono coloro che possiedono il know how necessario per destreggiarsi in momenti di crisi, sono quelli che la sanno, che sono bravi, che non si perdono nelle pastoie delle partigianerie politiche, sono una sorta di superman — ci accorgiamo che nella lingua che parla Superman il termine “tecnico” si traduce technocrat (9). Se poi, andando indietro nella storia e nella filosofia, ci ricordiamo che la tecnocrazia è stata teorizzata per la prima volta dal socialista utopistico Claude Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon (1760-1825), e quindi dal padre del positivismo Auguste Comte (1798-1857), ci rendiamo conto che l’affermarsi di un’ideologia e di profili strutturali tecnocratici fa correre dei rischi.
Il primo rischio è che il criterio della valutazione discrezionale, tipico della politica, che nella sua declinazione migliore implica il confronto con parametri di natura etica, è rimpiazzato da una semplice valutazione metrica: pesano soltanto i calcoli e le previsioni matematiche improntate a logiche di efficienza e perciò apparentemente neutre sul piano etico. Sottolineo apparentemente, perché sappiamo bene che nulla è neutro, nemmeno la scienza, come ci attesta l’esperienza di ogni giorno: è forse eticamente neutro l’uso delle cellule staminali ricavate dall’embrione, che secondo “tecnici” autorevoli concorrerebbero a curare gravi patologie? Anche su questo Papa Benedetto XVI è chiarissimo: nell’enciclica Caritas in veritate ricorda che “[…] la tecnica non è mai solo tecnica” (10); e aggiunge che l’”orizzonte culturale tecnocratico […] [fa] coincidere il vero con il fattibile. Ma quando l’unico criterio della verità è l’efficienza e l’utilità, lo sviluppo viene automaticamente negato” (11).
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Concludo tornando al punto di partenza: quando il Papa beato Giovanni Paolo II afferma che “i capi non si improvvisano, soprattutto in un’epoca di crisi”, precisa che “il compito di preparare gli uomini che dovranno risolverla” richiede “tempi lunghi” e “severità d’impegno”. Ma aggiunge che non farlo “significa abbandonare alla deriva il corso delle vicende storiche”.
I cattolici in Parlamento esistono. Non sono pochi. E anche — me escluso — di buona qualità. Molti di loro hanno esperienze di movimenti ecclesiali. In tanti hanno contribuito a impedire talune derive in tema di princìpi non negoziabili: penso al lavoro svolto per evitare che, a differenza di altri Stati europei, in Italia vi fosse una legge sull’eutanasia; per fissare, in precedenti legislature, qualche regola sul fronte della biogenetica con la legge n. 40 sulla fecondazione artificiale; per varare, nel 2006, una legislazione sulla droga avanzata, che coniuga il necessario rigore con l’altrettanto indispensabile recupero di chi lotta per uscire dalla dipendenza; per bloccare, a differenza di altri Stati europei e a dispetto di quanto vorrebbe imporci l’Unione Europea, il varo di una legge cosiddetta antiomofobia; per garantire l’effettivo rispetto della libertà religiosa, qualunque sia la confessione di riferimento, senza tuttavia trascurare il legame indissolubile della nostra tradizione con i simboli del cattolicesimo, a cominciare dal Crocifisso.
E se i cattolici in politica esistono, esistono gli strumenti di quadro per orientarli: il Catechismo della Chiesa Cattolica e il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa. Esistono il Magistero pontificio — di valore straordinario, come documenta, da ultimo, il discorso al Reichstag — e l’applicazione di tale Magistero all’Italia da parte dei vescovi: penso al discorso pronunciato dal cardinale Angelo Bagnasco al seminario di Todi.
Che cosa manca? Talora, non sempre, manca il gioco di squadra, e non si può immaginare che il singolo calciatore faccia anche da allenatore. Il gioco di squadra può essere organizzato da strutture intermedie che orientino e che consiglino. Il che può permettere di lavorare su un fronte di maggiore omogeneità culturale e di fare argine con più forza sul fronte del condizionamento relativistico. Se l’opera della nuova evangelizzazione riguarda l’intera realtà della nostra vita, essa non può saltare la sfera della politica: e questo sia nella prospettiva della gestione dell’esistente, sia nella prospettiva della trasformazione dell’esistente secondo criteri etici. Dico una cosa scontata, ma spero non banale: il problema della rappresentanza politica dei cattolici segue, non precede, quello dell’esistenza dei cattolici, di una fede che diventa cultura, e quindi anche cultura politica.
San Carlo Borromeo fondò a Pavia il collegio che porta il suo nome “per la preparazione dei quadri dirigenti laici cristiani della società emergente”. Per la preparazione di élite politiche rispettose dell’etica naturale è necessario mandarci in collegio, ovviamente in un collegio virtuale, ma che abbia quelle caratteristiche formative. Senza avere l’ansia del risultato immediato, i “tempi lunghi”, e senza gettarci nell’improvvisazione, la “severità d’impegno”.
Note:
(1) Beato Giovanni Paolo II, Discorso alla grande Famiglia dell’Istituto Borromeo di Pavia, del 3-11-1984, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. VII, 2, 1984. (Giugno-Dicembre), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1985, pp. 1113-1118 (p. 1116).
(2) Ibid., pp. 1115-1116.
(3) Cfr. Giovanni Cantoni, Fine della Democrazia Cristiana, inizio della Seconda Repubblica e del regime tecnocratico, in Cristianità, anno XXVII, n. 289, maggio 1999, pp. 3-4 e 30; cfr. anche la nota Alleanza Cattolica sul governo Monti, del 5-12-2011, ibid., anno XXXIX, n. 362, ottobre-dicembre 2011, pp. 61-64.
(4) Cfr. G. Cantoni, La presenza politica dei cattolici a dieci anni dalla caduta del Muro di Berlino, fra l’ininfluenza e la nuova evangelizzazione, ibid., anno XXVIII, n. 297, gennaio-febbraio 2000, pp. 3-8.
(5) Benedetto XVI, Visita al Parlamento Federale nel Reichstag di Berlino, del 22-9-2011, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 24-9-2011; cfr. Massimo Introvigne, L’Europa fra tragedie e speranze. Papa Benedetto XVI in Spagna e in Germania, in Cristianità, anno XXXIX, n. 362, ottobre-dicembre 2011, pp. 1-43.
(6) Ibidem.
(7) Ibidem.
(8) Cfr. G. Cantoni, Fine della Democrazia Cristiana, inizio della Seconda Repubblica e del regime tecnocratico, cit., p. 4.
(9) Cfr. Marco Respinti, Il fascino discreto della tecnocrazia, consultabile all’indirizzo: <www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-il-fascino-discreto-della-tecnocrazia-3585.htm>, visitato l’ultima volta il 21-3-2012.
(10) Benedetto XVI, Enciclica “Caritas in veritate” sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità, del 29-6-2009, n. 69; cfr. M. Introvigne, “Caritas in veritate”. La dottrina sociale della Chiesa contro la tecnocrazia, in Cristianità, anno XXXVII, n. 353, luglio-settembre 2009, pp. 1-19.
(11) Ibid., n. 70.