Alfredo Mantovano, Cristianità n. 364 (2012)
Intervento, riveduto e annotato, al convegno su Il Pdl e i valori non negoziabili, organizzato il 19-4-2011 a Roma, al Teatro Rossini, dalla Fondazione Magna Carta.
Il Pdl e i valori non negoziabili
L’orario pomeridiano nel quale si svolge questo nostro convegno ce lo permette: anche se siamo a teatro, andiamo al cinema. Per vedere un film che per qualche giorno è passato dalle sale italiane: non ha avuto grande successo di pubblico, ma la critica lo ha notato e lo ha recensito. È un film francese, 17 ragazze (1), e ha le caratteristiche salienti della cinematografia d’Oltralpe: è lento, in qualche caso le immagini sono proprio fisse e — per usare un eufemismo — non è particolarmente avvincente. È però ispirato a una storia vera, accaduta nel Massachusetts nel 2008, pur se nella trasposizione su pellicola è ambientato in una città sul mare, in Bretagna, nel Nord della Francia.
Il contesto è la classe di un liceo. Camille Fourier, una ragazza di 17 anni, resta incinta e decide di tenere il figlio; non lo fa per ragioni religiose o per convinzioni profonde o perché glielo chiede il ragazzo, che — come tutti i maschi della storia — ha un ruolo molto marginale.
Lei è una ragazza disinibita, si spinella, consuma bottiglie di birra una dietro l’altra, prende la macchina di nascosto dalla madre e si lancia ad alta velocità. Perché una persona così vuol tenere il figlio? Chissà, per sfida: per sfida verso la madre, che vuole farla abortire, per sfida verso gl’insegnanti che cercano d’isolarla, quasi sia portatrice di un virus contagioso più che di un bambino, e forse per sfida nei confronti di sé stessa… Camille è legata a un gruppo di quattro-cinque amiche e dopo pochi giorni il virus si diffonde: le convince a fare lo stesso, le convince cioè a farsi mettere incinta dal primo che ciascuna incontra, anzi insieme organizzano una festa sulla spiaggia per favorire gli “incontri”. Nel giro di poche settimane quella classe di liceo diventa un caso nazionale, con articoli in prima pagina sui quotidiani: si arriverà — in una sola classe — a sedici ragazze incinte, e una diciassettesima fa finta di esserlo per restare nella compagnia.
Il film non ha alcuna ambizione di ordine morale, o moralistico, e si limita a descrivere un fatto realmente accaduto. Certo, s’inserisce in quello che sta diventando un filone, con Juno (2), uscito già da qualche anno, e poi October baby (3), ancora in distribuzione. Ma 17 ragazze non è prodotto dal Movimento per la Vita. Il cinema è arte e l’arte da sempre descrive il sentire di un’epoca, nel bene o nel male: è lo “strumento per cogliere le caratteristiche di un’epoca” (4).
Nel film colpiscono tre aspetti:
1) quarant’anni fa magari non la singola drammatica vicenda abortiva, bensì la rivendicazione teorizzata del “diritto” all’aborto costituiva uno dei gesti di ribellione più significativi, ed era una modalità al tempo stesso per mostrarsi padroni del proprio corpo e quindi — ancora, e implicitamente — per affermare il dominio della propria volontà su un diritto altrui. Oggi la ribellione viene descritta non nel rifiuto ma nell’accoglienza del figlio;
2) nel film quelli della mia generazione fanno veramente una figura patetica: per i genitori non esiste altra strada che quella dell’aborto e gl’insegnanti si esercitano in elucubrazioni sociologiste. E questo mentre la realtà avanza, cioè mentre le pance aumentano e i bimbi crescono. Fra gli adulti il tratto comune è l’impreparazione di fronte a questo singolare desiderio di maternità: per gli adulti è un imprevisto, qualcosa che rompe l’organizzazione di una società che non lo prevede;
3) vi è un momento — è la scena più bella di un film, come si è detto, abbastanza noioso, pur se ne raccomando la visione — in cui le ragazze capiscono che “non è un gioco”. Questo momento è quando una per una vanno dal ginecologo, si sottopongono all’ecografia e si accorgono che “è vero”: quello che sta nella pancia fa le capriole, si succhia il dito, tira i calci, non è una “cosa”. È la realtà contro cui vai a sbattere, anche se provi a sbattertene.
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“Princìpi non negoziabili” — anch’io, come Gaetano Quagliariello, preferisco il termine “princìpi” al termine “valori” — può apparire un’espressione generica. È vero il contrario. È quel “coso” che dentro la pancia si stropiccia gli occhi e di cui senti il battito del cuore. Che fai? Discuti se è un essere umano? Sarebbe già tanto: magari iniziasse una discussione sul punto… La presenza del direttore del Tg3, Bianca Berlinguer, mi fa ricordare un siparietto grazie al quale ci siamo rivisti più volte su Blob: nel maggio 2005, in prossimità del referendum riguardante la legge sulla fecondazione artificiale, ero stato invitato a parlare dei temi refendari alla trasmissione Primo Piano, condotta su Rai 3 proprio dalla dottoressa Berlinguer, in compagnia della sen. Emma Bonino. È stato sufficiente che, sulla premessa che la discussione dovesse avere presupposti in fatto certi e condivisi, io abbia domandato alla sen. Bonino quando a suo avviso comincia la vita e quale sia l’identità dell’embrione, perché la mia interlocutrice si alzasse e mostrasse di abbandonare lo studio televisivo, inseguita dalla conduttrice, che mi esortava a non porre questioni non pertinenti. Dunque, per non affrontare la discussione la si rimuove. Che fai? “Negozi” se è giusto mantenerlo in vita?
Princìpi o valori “non negoziabili” (5) è un’espressione cara a Papa Benedetto XVI. Ma noi non stiamo operando un approfondimento riguardante qualche paragrafo del Catechismo della Chiesa Cattolica: poiché abbiamo responsabilità politiche, da parte della politica fare attenzione a quella realtà vera che è la vita significa provare a fare qualcosa di meglio e di più rispetto a pur importanti enunciazioni teoriche. Significa, cioè, aver presente non la vita in senso astratto, ma la vita concreta di ogni essere umano, indipendentemente dalla circostanza che sia molto piccolo o molto anziano, perfettamente sano o gravemente ammalato.
Certo, il diritto non negoziabile alla vita è negato nei reparti dove si praticano aborti (ivg) e compie un’azione meritoria chi, non contro la legge n. 194 del 1978, ma in ossequio a quanto tale legge — sia pure ipocritamente — prevede espressamente nella parte che attende attuazione da più di trent’anni, prova a indicare concrete alternative all’aborto (6). Ma sbaglieremmo se ci occupassimo solo dei reparti ivg. Vi sono comportamenti d’istituzioni, di aziende e di ambienti lavorativi che ostacolano la maternità:
— vogliamo parlare della prassi diffusa delle dimissioni “in bianco”, cioè, delle dimissioni fatte firmare anticipatamente alle donne e utilizzate dalle aziende per licenziarle se restano incinte?
— o dei contratti a tempo determinato, che allontanano la maternità nel tempo?
— o del mobbing verso le donne che aspettano un figlio, sottilmente praticato in taluni uffici pubblici, nonostante la legislazione italiana sia fra le più avanzate al mondo?
Poi vi sono i luoghi comuni, che annoiano più di un film francese. Così come sbadigliamo quando ascoltiamo che “non vi sono più le mezze stagioni”, egualmente si prova noia quando ragionamenti come quelli che stiamo tentando di fare sono stroncati definendoli come posizioni confessionali, proposti da chi ha nostalgia dello “Stato etico” e pone a rischio la libertà dell’individuo.
In fondo, i “princìpi non negoziabili” coincidono con i presupposti di ciò che una volta si chiamava, e ancora adesso si chiama, “diritto naturale”. E noi sappiamo bene che il cristianesimo non desidera il monopolio della legge naturale: non è un caso se il Catechismo della Chiesa Cattolica, quando intende definirla, riporta un brano di Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), che aveva sì un seggio nel Senato romano, ma non era entrato nella lista bloccata su indicazione del presidente Quagliariello. Quel “laico” pre-cristiano affermava: “La vera legge è la retta ragione, in accordo con la natura, diffusa tra tutti gli uomini, immutabile, eterna, quella che chiama al dovere con il suo comando, con il suo divieto distoglie dalla frode […]. Non è permesso proporre modifiche a questa legge, né è lecito derogare a una qualche sua disposizione, né è possibile abrogarla interamente” (7).
Non ci piace il cinema? Preferiamo il teatro? Allora, torniamo a vedere Antigone: torniamo, cioè, non a una recita parrocchiale, ma a una tragedia della seconda metà del secolo V prima di Cristo. E riascoltiamo lo straordinario dialogo tra la figlia di Edipo, Antigone, e il re Creonte. Conosciamo la storia: dopo la partenza da Tebe di Edipo, entrambi i suoi figli maschi, Eteocle e Polinice, aspirano al trono, si affrontano e si uccidono l’uno con l’altro, Eteocle difendendo una delle sette porte della città e Polinice dandole l’assalto. Creonte, che detiene il potere nella città, emana un bando: chi dà sepoltura al ribelle Polinice è condannato alla lapidazione. Antigone contravviene volontariamente al divieto del re Creonte, poiché per lei gli onori funebri sono dovuti a chiunque, e ci mancherebbe che non sia così per il fratello: e questo dovere supera ogni legge umana, in nome delle leggi non scritte e immutabili.
Il dialogo fra i due è stupendo:
“Creonte: […] hai osato trasgredire questa norma?
Antigone: Sì, perché questo editto non Zeus proclamò per me, né Dike, che abita con gli dei sotterranei. No, essi non hanno sancito per gli uomini queste leggi; né avrei attribuito ai tuoi proclami tanta forza che un mortale potesse violare le leggi non scritte, incrollabili, degli dei, che non da oggi né da ieri, ma da sempre sono in vita, né alcuno sa quando vennero alla luce” (8).
L’arroganza di Creonte richiama vagamente quella di qualche sezione della Corte di Cassazione, ma è certo che Antigone non fosse iscritta all’Azione Cattolica.
Saremmo alfieri dello “Stato etico”? Ma quanto si deve ancora ripetere che una cosa è lo “Stato etico”, altra cosa è lo Stato che riconosce l’esistenza dell’etica. Le due nozioni non sono uguali. Uno Stato che, fondandosi sul potere dei giudici, pretende di uccidere Eluana Englaro (1970-2009) è uno “Stato etico”: considera sé stesso e le sue leggi fonti di eticità e non riconosce l’esistenza di un diritto naturale alla vita che né il legislatore né il giudice possono violare. Se vale il principio secondo cui “lo dice il giudice, quindi è morale”, ciò vuol dire che un potere dello Stato diventa la fonte dell’etica.
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In tempi di commissariamento della politica, la politica può sopravvivere se riscopre la necessità di operare scelte importanti e soprattutto di stabilire il giusto rapporto fra gli scopi e i mezzi, senza subordinare gli scopi ai mezzi. La tecnica è un mezzo; le conquiste della tecnica, per esempio quelle che permettono, a differenza del passato, la diagnosi prenatale, sono un mezzo per curare le malattie che con questa tecnica vengono meglio individuate, non un mezzo per negare il rispetto dei diritti, uccidendo chi appare ammalato.
Quel grande genetista che è stato Jerome Lejeune (1926-1994) era solito ricordare un dato storico concreto, che rende il discorso meglio di qualsiasi disquisizione teorica: circa sessant’anni fa il dottor John B. Thiersch (1910-1993), esecutore di aborti negli Stati Uniti d’America, ebbe l’idea di applicare alla sua pratica l’effetto tossico dell’aminopterina, un elemento chimico che inibisce il metabolismo dell’acido folico. In questo modo bloccava la divisione delle cellule: poiché le cellule dell’embrione si dividono attivamente, l’uso di quella sostanza doveva secondo Thiersch uccidere infallibilmente il bambino nel ventre della madre. L’infallibilità non fu così completa, perché se l’effetto letale dell’applicazione fu immediato per alcuni feti, per altri la morte arrivò dopo qualche tempo, a seguito di gravi anomalie al sistema nervoso, dalla spina bifida all’anencefalia.
Trent’anni dopo due medici d’impostazione differente, Richard Worthington Smithells (1924-2002) e Michael Laurence, scoprirono che l’acido folico somministrato alla madre, in dosi particolari e controllate, all’inizio della gravidanza protegge i bambini proprio contro quelle stesse malformazioni del sistema nervoso centrale derivate da un uso distorto della sostanza. Perché richiamavo il rapporto fra scopo e mezzi? Perché, se lo scopo perseguito da Thiersch fosse stato la lotta contro una malattia e non l’aggressione in utero dei nascituri, probabilmente la profilassi della spina bifida o dell’idrocefalia sarebbe arrivata con tre decenni di anticipo e decine di migliaia di bambini in tutto il mondo ne avrebbero tratto giovamento. E sarebbe stata l’ennesima conferma che il corretto rapporto fra scopo e mezzi — ove “corretto” vuol dire rispettoso dell’uomo — è a favore e non contro la ricerca scientifica.
“Politica” vuol dire riappropriarsi dell’indicazione degli obiettivi di vita senza negare, ma facendo buon uso della tecnica. Vi sembra poco?
Note:
(1) Cfr. 17 ragazze (17 Filles, Francia 2011). Registe: Delphine e Muriel Coulin. Interpreti principali: Roxane Duran, Louise Grinberg, Esther Garrel, Solène Rigo.
(2) Cfr. Juno (USA 2007). Regista: Jason Reitman. Interprete principale: Ellen Page. Presentato in anteprima al Festival internazionale di Roma il 26-10-2007, ha vinto il premio Marco Aurelio come miglior film.
(3) Cfr. October Baby (USA 2011). Registi: Jon e Andrew Erwin. Interprete principale: Rachel Hendrix. Rifiutato dalle grandi produzioni statunitensi e stroncato dalla critica, ha conquistato il cuore del pubblico, incassando milioni di dollari. Racconta la storia — anch’essa ispirata da una vicenda vera — di Hannah, una ragazza di 19 anni che scopre di essere il frutto di un aborto non riuscito e di essere stata adottata subito dopo una nascita non facile.
(4) Hans Sedlmayr (1896-1984), Perdita del centro. Le arti figurative dei secoli XIX e XX come sintomo e simbolo di un’epoca, trad. it., Rusconi, Milano 1974, p. 9.
(5) Cfr. Benedetto XVI, Discorso “Vita, famiglia, educazione: tre valori “non negoziabili”” ai partecipanti al convegno promosso dal Partito Popolare Europeo, del 30-3-2006, testo originale inglese in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. II, 1, 2007. (Gennaio-Giugno), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, pp. 382-384, trad. it. in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 31-3-2006.
(6) L’articolo 5, comma 1, della legge n. 194 del 1978 prevede: “Il consultorio […] ha […] il compito […] di esaminare con la donna […] le possibili soluzioni ai problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto”. È singolare che questa parte della legge abbia trovato attuazione solo — o prevalentemente — a opera di organizzazioni pro file, in primis i Centri di Aiuto alla Vita.
(7) Marco Tullio Cicerone, De re publica, libro terzo, cap. 22, 33 [testo e trad. it., in Idem, La Repubblica, introduzione, traduzione e note di Francesca Nenci, BUR, Milano 2010, p. 473].
(8) Sofocle (496-406 a.C.), Antigone, vv. 449-457, trad. it., in Idem, Antigone, Edipo Re, Edipo a Colono, introduzione, traduzione, premessa al testo e note di Franco Ferrari, BUR, Milano 2009, pp. 57-157 (pp. 91 e 93).