Francesco Pappalardo, Cristianità n. 213-214 (1992)
Intervista con il professor Alberto Caturelli
Il 1992, anno cinquecentenario della scoperta dell’America, è stato caratterizzato da una campagna di disinformazione culturale di grande portata, volta a snaturare il vero significato della ricorrenza. Il sistema informativo dell’intero pianeta si è fatto portatore di una veemente polemica, che ha presentato la scoperta del Nuovo Mondo come un’”invasione”, la conquista come un “genocidio” e l’evangelizzazione come un’”oppressione culturale”. Dell’aggressione antispagnola e anticattolica sono stati protagonisti ambienti protestanti, movimenti indianisti, gruppi neomarxisti, ecologisti e terzomondisti, nonché frange cattoliche progressiste, tutti uniti dalla condanna globale dell’opera di evangelizzazione e di civilizzazione della Chiesa.
La mistificazione della realtà storica è stata sorretta dalla quasi totalità dei grandi mezzi d’informazione, così che il conferimento del premio Nobel per la pace all’india guatemalteca Rigoberta Menchú, che ha rappresentato il momento culminante dell’intera operazione propagandistica, ha offuscato le parole con cui Giovanni Paolo II ha celebrato, nel corso di tutto il 1992 e in particolare a Santo Domingo, il 12 ottobre, il quinto centenario dell’evangelizzazione dell’America.
Affronto questi temi, noti anche al pubblico italiano soprattutto attraverso luoghi comuni, con Alberto Caturelli, filosofo e cattedratico nell’università di Cordova, in Argentina, che incontro il 26 novembre 1992 in un albergo di Roma.
Alberto Caturelli nasce a Villa del Arroyito, presso la città argentina di Cordova, il 20 maggio 1927, da una famiglia di origini toscane. Nella stessa città compie i suoi studi e consegue il dottorato in filosofia nella locale università, la più antica del paese sudamericano, dal momento che è stata fondata nel 1613; nel 1956, all’età di ventinove anni, ottiene la cattedra di Storia della Filosofia presso il medesimo ateneo, dove insegna tuttora.
Parallelamente all’attività accademica, nel 1974 entra a far parte del Consiglio Nazionale della Ricerca Scientifica argentina, raggiungendo il grado più elevato, quello di Investigador Superior.
Divide il suo tempo fra la famiglia — è padre di otto figli — e lo studio, i cui frutti sono raccolti in oltre trenta volumi e in centinaia di articoli, tradotti e pubblicati in numerosi paesi del mondo. Fra gli scritti maggiori ricordo Donoso Cortés. Ensayos sobre su filosofía de la historia (Imprenta de la Universidad, Cordova 1958), El hombre y la historia. Filosofía y Teología de la historia (Editorial Guadalupe, Buenos Aires 1959), Tántalo. De lo negativo en el hombre (Editorial Assandri, Cordova 1960), América bifronte (Editorial Troquel, Buenos Aires 1961), Lecciones de Metafísica (Universidad de Córdoba, Cordova 1964), La Filosofía (Editorial Gredos, Madrid 1966), Pluralismo culturale e sapienza cristiana (trad. it., Edizioni Domenicane Italiane, Napoli 1966), La Filosofía Medieval (Dto. de Acción Social. Universidad de Córdoba, Cordova 1972), La Iglesia Católica y las catacumbas de hoy (Almena, Buenos Aires 1974), La filosofía in Argentina, Uruguay, Cile e Perù, in Grande Enciclopedia Filosofica (Marzorati, Milano 1978), Reflexiones para una filosofía cristiana de la educación (Universidad de Córdoba, Cordova 1982), Metafísica del trabajo (Librería Huemul, Buenos Aires 1982), La metafísica cristiana en el pensamiento occidental (Ediciones del Cruzamante, Buenos Aires 1983), Libertad y liberación (Promesa, Città di Messico 1989) e una grande monografia, in tre volumi, su Michele Federico Sciacca. Metafísica de la integralidad (Biblioteca degli Studi Sciacchiani, Genova 1989-1990). È in corso di pubblicazione una Historia de la filosofía en Córdoba. 1610-1983, in tre volumi, esito di una ricerca quasi ventennale, che spazia su tutto il pensiero teoretico ispanoamericano.
Nel mese di novembre del 1992 Alberto Caturelli è venuto in Italia, su invito dell’Università di Genova, dove il giorno 25 gli è stata conferita la laurea honoris causa in Pedagogia, svolgendo la lezione magistrale preceduta dalla laudatio tenuta dal professor Pier Paolo Ottonello. Segnalo che, nella stessa occasione, identico prestigioso riconoscimento ha ricevuto Jorge Uscatescu, professore emerito dell’Università Complutense di Madrid.
Quindi si è recato a Roma e, il 26 dello stesso mese, presso l’Ateneo Romano della Santa Croce, ha svolto una conferenza sul tema della scoperta e dell’evangelizzazione dell’America. Nell’occasione il professor don Carlos José Errazuriz, direttore degli studi di questa università, ha presentato l’ultima opera del filosofo argentino, Il Nuovo Mondo riscoperto. La scoperta, la conquista, l’evangelizzazione dell’America e la cultura occidentale (trad. it., a cura di P. P. Ottonello, Ares, Milano 1992), che propone in una densa esposizione, “insieme di metafisica, di storia e di teologia” (ibid., p. 13), le quarantennali riflessioni dell’autore sul tema.
Il Nuovo Mondo nelle interpretazioni deformanti del pensiero moderno
D. È possibile fare una lettura anche filosofica del cinquecentenario, che sul piano dell’interpretazione storica ha costituito l’occasione per riproporre la “leggenda nera” antispagnola e anticattolica?
R. L’aspetto più rilevante della polemica in corso è il rifiuto dell’originalità iberoamericana operato dal pensiero moderno, che ancora una volta si dimostra incapace di riflettere in modo adeguato su questa realtà.
Si tratta di un grave limite, che ha condotto al fraintendimento totale del senso degli avvenimenti svoltisi a partire dal 1492, avvenimenti che hanno cambiato la storia del mondo e hanno offerto alla Chiesa un nuovo e sconfinato campo di missione.
La Spagna ufficiale ha compiuto un atto di contrizione “laico”, chiedendo perdono al mondo per il suo passato “clericale” e rinnegando la sua vocazione, così che la gratitudine manifestata da Giovanni Paolo II verso la storia missionaria di quel paese cade nel vuoto e il ruolo “materno” svolto dalla Spagna nei confronti del Nuovo Mondo rischia di essere dimenticato del tutto.
Una funzione decisiva in questa direzione è stata svolta dalla “teologia della liberazione”. Questa corrente di pensiero, lungi dall’essere specificamente americana, affonda le sue radici nella speculazione moderna che, pur avendo avuto le sue origini e la sua culla in Europa, è antieuropea, perché nasce dalla negazione dell’autentica tradizione del vecchio continente e delle sue fondamenta naturali e cristiane.
D. Quali sono i caratteri salienti della riflessione compiuta dal pensiero moderno sulla realtà rappresentata dal Nuovo Mondo?
R. L’immanentismo filosofico e teologico, dall’empirismo al marxismo, dalle correnti indigeniste alla teologia della liberazione, ha condotto la sua riflessione sull’Iberoamerica da un lato cercando di rivalutare i caratteri originari del mondo antecedente la scoperta, dall’altro lato negando il carattere di novità dell’America.
Nel primo caso si appiglia a una impossibile e contraddittoria “mistica della terra”: impossibile, perché il processo di conversione e l’unione sostanziale con la cultura ispanica hanno trasfigurato in modo irreversibile i caratteri originari del mondo precolombiano, generando un’originalità storica e culturale che è appunto iberoamericana; contraddittoria, perché rivendica l’originarietà in nome di un europeismo ibrido e senza radici nella realtà del Nuovo Mondo.
Nel secondo caso l’America non rappresenta altro che il risultato della “eccedenza” dell’Europa: poiché non sembra concepibile un futuro storico al di là della pienezza dello Spirito raggiunta nel Vecchio Mondo, l’America può entrare nella storia solo come “residuo” della cultura europea, ovviamente quella anglosassone e protestante, che rappresenterebbe la fase culminante della millenaria storia di questo continente.
Entrambe le interpretazioni sono veramente e sostanzialmente aggressive nei confronti dell’autentica tradizione iberoamericana e costituiscono una forma di colonialismo culturale subdola e molto pericolosa.
La scoperta come atto della coscienza cristiana
D. Questa lettura della storia, propria di correnti di pensiero che non oltrepassano i limiti della soggettività e quindi rinunciano alla conoscenza del reale, non può dunque cogliere la vera portata della scoperta, che ha un significato anche metafisico…
R. La scoperta dell’America non può essere ridotta a un semplice rinvenimento, sebbene lo presupponga, né a un puro e semplice incontro fra mondi diversi, ma è un atto iniziale e graduale che porta allo svelamento dell’essere di quel continente, della sua originarietà, e alla sua incorporazione nella fede cattolica.
La scoperta è un atto della coscienza cristiana, cioé della coscienza dell’essere illuminata dalla fede che guidava Colombo, il Cristoforo, e i re spagnoli nella conquista e nell’evangelizzazione del Nuovo Mondo, impegnata fino alla fine dei tempi a proclamare la verità e a costruire il vero “mondo nuovo” nella carità, ossia attraverso il compito mai esaurito, perché sempre perfettibile, della continua conversione di sé e del prossimo. Pertanto la scoperta è progressiva e mai compiuta del tutto.
D. L’America dunque è un “mondo nuovo” non perché contrapposto e superiore al “vecchio” Occidente cristiano, ma in quanto ricreato dall’opera missionaria cattolica…
R. Il mondo precolombiano, sebbene celasse un oscuro sentimento del Dio sconosciuto e un’enigmatica attesa di qualcosa che doveva venire, era contrassegnato dalla corruzione, dalla magia e dall’idolatria. Con l’arrivo dei missionari tale realtà è stata prima purificata, attraverso un’opera di demitizzazione, quindi trasfigurata, mediante la conversione, in un “mondo nuovo”, redento da Cristo e liberato dalla schiavitù del peccato. L’America indigena perviene dunque a sé stessa abbracciando la nuova condizione cristiana, perché tutto quanto esiste di buono in ciascun uomo e nella sua cultura è sanato, elevato e completato dalla grazia.
Quanti fanno dell’indigenismo uno strumento contro la Chiesa cattolica e la Spagna, rivendicando una presunta originalità del mondo anteriore alla scoperta, sono incapaci di comprendere che fino alla sera dell’11 ottobre 1492 l’America non esisteva. Nelle comunità precolombiane non vi erano neppure barlumi di coscienza di continentalità e soltanto lo spirito ispano-cattolico, attraverso la diffusione del Vangelo e della lingua castigliana, funse da principio unitivo, dando vita a un meticciato somatico, culturale e spirituale unico nella storia. Il Nuovo Mondo è dunque inconcepibile fuori dalla linfa rigenerante della fede cattolica e senza la paternità storica della Spagna.
La conquista come sorpresa e come missione
D. Anche la conquista militare fu motivata con l’esigenza di proclamare la fede di Cristo?
R. All’atto della scoperta, nel cui ambito devono collocarsi anche l’esplorazione e la colonizzazione, si deve aggiungere la conquista militare, che in realtà fu una sorpresa per tutti, risultando come la conseguenza non di un piano preciso, ma di una serie di reazioni di fronte a situazioni impreviste oppure come il frutto di iniziative personali, come quella di Hernán Cortés in Messico.
In realtà, l’espressione “conquista” è applicabile in senso stretto solo alle comunità del Centroamerica e dell’America andina; per le altre aree, come quelle che oggi costituiscono l’Argentina, l’Uruguay e parte del Brasile, si deve parlare più propriamente di occupazione, perché quegli immensi spazi erano davvero res nullius.
In tutte le sue fasi questo processo fu considerato sempre in funzione dell’attività missionaria: dalla bolla Inter Caetera di Papa Alessandro VI, del 4 maggio 1493, fino alle Giunte di Valladolid, dalle istruzioni di Filippo II d’Asburgo fino alle disposizioni di Filippo III, lo scopo principale era la diffusione del Vangelo. Questo stato d’animo può essere rappresentato bene dalla condotta di Hernán Cortés che, dopo aver conquistato il Messico, si recò in ginocchio e a capo scoperto incontro ai primi missionari, nella consapevolezza di aver combattuto per aprire loro il cammino.
L’epopea missionaria e la fondazione dell’America
D. L’evangelizzazione ebbe dunque la priorità sugli altri obiettivi, anche se, da un punto di vista cronologico, ebbe inizio più tardi…
R. I re cattolici, prima ancora della scoperta, quando non si sapeva con certezza che cosa Cristoforo Colombo avrebbe trovato, stabilirono che l’obbiettivo principale della spedizione dovesse essere la diffusione del messaggio di Cristo, proposito che divenne esplicito appena si ebbe notizia dei risultati del viaggio.
Comunque, il processo fu di tale intensità che, verso il 1570, tutti gli indios erano stati battezzati; fu un’opera formidabile, sulle cui modalità e sulla cui portata si dovrebbe riflettere oggi, di fronte all’appello del Pontefice per una “nuova evangelizzazione”.
In questa impresa fu decisivo l’impulso della corona spagnola, i cui atti, sempre preceduti da un esame della “coscienza reale” — secondo un’espressione dell’imperatore Carlo V d’Asburgo — erano ordinati al perseguimento del bene comune, sia naturale che soprannaturale.
I problemi che i sovrani affrontarono furono visti sempre in una prospettiva che li trascendeva in maniera incommensurabile e che dava a essi un impianto metagiuridico e metapolitico.
D. Tuttavia, è noto che le debolezze della natura umana, nonché motivi di ordine pratico, più volte hanno reso difficile oppure impedita l’applicazione delle leggi reali…
R. Non si può negare che alla Corona e ai singoli interessassero anche l’onore e la grandezza della Spagna nonché i profitti materiali, ma è doveroso ribadire che l’evangelizzazione, come amava ripetere la regina Isabella di Castiglia, era il fine principale della conquista dell’America.
Certamente il peccato fu presente, come in tutte le vicende umane, ma ciò che deve stupire non sono gli abusi iniziali, semmai la grande capacità di autocritica che veniva, a tutti i livelli, da una profonda coscienza cristiana.
Nella storia dell’umanità non si conosce un atteggiamento simile: un re e un popolo si interrogano continuamente sulla legittimità e sulla moralità dei propri atti, con il proposito di non eludere i problemi che nascevano da una situazione del tutto nuova.
La Corona e l’intero popolo spagnolo costituirono davvero, nel Cinquecento e nel Seicento, una nazione missionaria.
D. Dunque non è un caso che i veri bersagli della polemica sulla scoperta dell’America siano stati l’opera civilizzatrice della Spagna e soprattutto l’attività evangelizzatrice della Chiesa…
R. Il mandato missionario di Cristo, che non ha alcun senso nella prospettiva immanentistica, perde vigore presso il progressismo teologico, sostenitore della tesi secondo cui la Chiesa cattolica sarebbe solo una possibilità, in quanto le altre religioni risponderebbero alla volontà salvifica di Dio e sarebbero tutte, anche le più contrarie all’ordine naturale, vie legittime di salvezza.
Dovremmo allora pensare che la reazione dei missionari spagnoli di fronte agli abominevoli riti delle religioni amerindie fosse un atteggiamento indebito contro quanto voluto da Dio per quegli uomini, sebbene essi compissero abitualmente sacrifici umani e si divorassero l’un l’altro.
La negazione più radicale di ogni prospettiva di evangelizzazione e di quella che Pio XII ha definito una “epopea missionaria” viene però da alcune frange della teologia della liberazione, che riducono la missione a strumento del mutamento rivoluzionario nelle relazioni fra le classi.
D. Queste falsità oscurano i meriti della Spagna cattolica nel processo di fondazione del Nuovo Mondo…
R. Non si deve mai dimenticare che l’Iberoamerica è stata generata dalla Spagna e ciò costituisce il senso fondamentale della conquista e della evangelizzazione dell’America.
Fin dal principio — immediatamente i conquistatori e mediatamente la Spagna — si procedette in modi diversi a un vero e proprio atto di fondazione: mediante l’erezione di città, la creazione di istituzioni di governo e di cultura, l’impulso dato alla fusione delle due razze in un meticciato su scala continentale; si giunse alla creazione di una nuova e originale realtà, con enormi conseguenze, anche culturali.
Basti pensare che i primi missionari fecero compiere alle lingue indigene, fino ad allora soltanto orali, un incommensurabile salto qualitativo, elevandole all’astrazione della scrittura alfabetica, che diede loro la possibilità di superare l’arcaica struttura che le caratterizzava e di pervenire alla cultura riflessiva.
I missionari favorirono anche la nascita del pensiero iberoamericano, che non risale al secolo XIX, cioé all’indipendenza degli Stati ispanoamericani, ma già al secolo XVI, com’è rappresentato emblematicamente dalla fondazione della Real Universidad di Città del Messico, nel 1551.
L’abbandono dell’ideale missionario
D. Occorre ricordare, a questo proposito, che i paesi del Nuovo Mondo non costituivano colonie, ma province d’oltremare del regno di Spagna.
R. Le Indie non erano semplici colonie, ma un raggruppamento gerarchico di province distinte all’interno dell’imperium dello spirito cristiano. Infatti, l’impero spagnolo rappresentava una realtà spirituale che, insieme con l’impero portoghese, come ha sottolineato José Pedro Galvão de Sousa, perpetuava la tradizione cattolica medievale.
Fu la crescente secolarizzazione del potere a creare la frattura, ben individuata da Francisco Elías de Tejada y Spínola, fra l’Europa moderna, che abbraccia la Rivoluzione, e la Cristianità, di cui era parte rilevante l’impero ispanoamericano, ancora tesa a conquistare il mondo intero a Cristo mediante la conversione e la trasfigurazione cristiana di tutti i popoli.
D. L’abbandono di questa tradizione imperiale provocò conseguenze enormi sia per l’America spagnola sia per la stessa Spagna…
R. La nascita dell’imperialismo secolarista, in antitesi all’imperium evangelizzatore, favorì la diffusione nel mondo intero di uno spirito laicista e utilitaristico, all’insegna dell’ideologia illuministica e della “religione” del progresso.
Purtroppo questa visione immanentistica conquistò gradualmente anche la Spagna, che abbandonò il progetto di cristianizzazione del mondo e si trasformò in un paese colonialista.
La rivolta dell’Iberoamerica rappresentò dunque la rivendicazione dell’antica tradizione ispanica e la reazione alla resa della Spagna allo spirito liberale.
Se la Spagna ha qualcosa di cui pentirsi in occasione dell’anno cinquecentenario, è proprio l’infedeltà alla propria missione, cioé l’abbandono dell’ideale della scoperta e della missionarietà.
Il suo dovere storico non sta allora nel rinnegare l’immensa opera civilizzatrice svolta nei secoli, ma nel rientrare in sé stessa, perché l’Iberoamerica, che ha conservato un senso della hispanidad maggiore di quello che si avverte oggi nella madrepatria, guarda a essa con le braccia aperte, come verso una madre che si porta sempre nel cuore.
L’Iberoamerica e la nuova evangelizzazione
D. Nel corso del 1992, Papa Giovanni Paolo II ha voluto ricordare e celebrare soprattutto l’inizio dell’evangelizzazione dell’America…
R. Insistendo sull’evangelizzazione, il Sommo Pontefice non ha voluto evitare di prendere posizione nelle polemiche sullo scontro fra la cultura europea e le culture indigene, bensì sottolineare il significato positivo del radicamento della cultura ispanoamericana nel Vangelo. È significativo che a Santo Domingo non abbia insistito tanto sui problemi sociali — enormi e non trascurati — quanto sull’urgenza di annunciare Cristo senza riduzioni e senza mimetismi alle generazioni del terzo millennio.
Nel suo denso discorso di apertura della IV Conferenza Generale del Consiglio Episcopale Latinoamericano ha ricordato che “la nuova evangelizzazione ha, come punto di partenza, la certezza che in Cristo vi è una “ricchezza insondabile” (Ef. 3, 8), che nessuna cultura di nessuna epoca può cancellare e alla quale noi uomini possiamo sempre ricorrere per arricchirci”. Ha sottolineato inoltre la necessità di “inculturare il messaggio di Gesù, così che i valori cristiani possano trasformare i diversi nuclei culturali, purificandoli, se necessario, e rendendo possibile il consolidarsi di una cultura cristiana che rinnovi, amplii e unifichi i valori storici passati e presenti”.
Dunque, la parola di Dio deve continuare a fecondare la cultura dei nostri popoli, divenendo parte integrante della loro storia.
D. Quale ruolo può svolgere l’America ispanica nella prospettiva della nuova evangelizzazione?
R. La cristianità del Nuovo Mondo è pericolosamente esposta alla tentazione rappresentata dall’edonismo relativista, divenuta ancora più forte dopo il crollo dell’altro materialismo, quello comunista, ma non deve rinunciare alla propria autentica tradizione.
Oggi la metà dei membri della Chiesa cattolica abita il continente iberoamericano, definito da Giovanni Paolo II — nella lettera apostolica Los caminos del Evangelio, del 29 giugno 1990, “il Continente della speranza”. L’America ispanica è chiamata a svolgere un compito analogo a quello portato a termine dai missionari del secolo XVI e consistente nella distruzione degli idoli prometeici creati dal mondo moderno, l’ideologismo, il democratismo, il consumismo. Questo sforzo di demitizzazione deve essere accompagnato da una operazione di riconquista interiore e di evangelizzazione del mondo, affinché la Croce piantata a Guanahaní — poi San Salvador — possa essere nuovamente inalberata nel Vecchio Mondo.
A questa suprema missione l’America ispanica non può rinunciare, nonostante l’estrema debolezza attuale, causata da rilevanti problemi materiali e dal contagio dell’eterodossia teologica e del relativismo filosofico.
È necessario aver fiducia in Maria — sotto la cui protezione fu posta la nave ammiraglia di Cristoforo Colombo e l’intera spedizione — perché Ella presiedette alla fondazione del Nuovo Mondo, alimentando lo zelo dei primi missionari e prefigurando a Guadalupe la nascita dell’Iberoamerica. La devozione del popolo iberoamericano verso Maria, definita da Pio XII “Regina della hispanidad“, è pegno di sicura vittoria.
a cura di Francesco Pappalardo