Alfredo Mantovano, Cristianità n. 190 (1991)
Intervista con il professor Mauro Ronco
«Il controllo penale degli stupefacenti»
Dopo circa un anno e mezzo di dibattito parlamentare, a sua volta preceduto da più mesi di trattative fra i partiti della coalizione di governo, tese a elaborare un disegno di legge unitario, il 13 giugno 1990 il Senato ha approvato in via definitiva la nuova disciplina sugli stupefacenti, la legge n. 162 del 26 giugno 1990, che apporta significative modifiche a quella legge n. 685 del 22 dicembre 1975, che regolava il settore da circa quindici anni.
I cardini della nuova normativa consistono, oltre che nella prescrizione analitica di un maggiore coordinamento fra gli enti pubblici interessati sotto ogni profilo alla materia e nella previsione di interventi d’informazione attraverso le strutture scolastiche, soprattutto nella sostanziale revisione del sistema sanzionatorio — nel cui ambito si situa la differente considerazione dell’assuntore di droghe —, nell’ampliamento dei poteri della polizia giudiziaria impegnata in attività di repressione, e nel ruolo di cura e di riabilitazione — d’intesa con gli enti locali — delle comunità terapeutiche.
Alla vigilia del varo della legge n. 162, è stato pubblicato uno studio — Il controllo penale degli stupefacenti. Verso la riforma della L. n. 685/1975, Jovene, Napoli 1990, pp. XII-396 — che consente di cogliere nel modo più adeguato il senso del passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina sulla droga. L’autore, Mauro Ronco, nasce a Torino il 19 febbraio 1946, nel capoluogo piemontese frequenta il Liceo Classico Massimo d’Azeglio, quindi si laurea in Giurisprudenza nel 1971 con una tesi su Il nazionalismo giuridico di Alfredo Rocco legislatore penale. Nel 1975 è assistente ordinario presso la cattedra di Diritto Penale della facoltà di Giurisprudenza, poi professore associato di Diritto Penale Comparato, successivamente professore di Diritto Penale nelle università di Cagliari e di Modena, sede quest’ultima dove insegna attualmente e dove è pure docente di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Accademia Militare. A lui si devono pubblicazioni di grande interesse in ambito penalistico, fra le quali segnalo le monografie Il principio di tipicità della fattispecie penale nell’ordinamento vigente (Giappichelli, Torino 1979) e L’azione “personale”. Contributo all’interpretazione dell’art. 27 comma 1° Costituzione (G. Bessone, Torino 1984). Procuratore legale dal 1974 e avvocato dal 1980, svolge la professione forense come penalista. Dal 1968 milita in Alleanza Cattolica, di cui è responsabile piemontese ed esponente nazionale; collabora inoltre a Cristianità, sulla quale ha affrontato temi di carattere morale e giuridico, relativi alla legislazione divorzista e abortista, nonché — in genere — alla giustizia penale.
L’uso delle droghe e il principio di solidarietà
Il controllo penale degli stupefacenti. Verso la riforma della L. n. 685/1975 costituisce un aiuto prezioso per chi, muovendosi a vario titolo nell’ambito del diritto, voglia affrontare il tema degli stupefacenti su basi scientifiche, tenendo conto, oltre che dei contributi della medicina legale, della dottrina giuridica, della giurisprudenza e della comparazione con altri ordinamenti, soprattutto dell’aggancio ineludibile che i problemi sollevati dalla disciplina dell’uso e del traffico delle droghe hanno con i fondamenti dello stesso ordinamento sociale. Si tratta del riferimento più trascurato quando si affronta la materia sulla spinta di sollecitazioni pragmatiche o, peggio, di “gabbie” ideologiche che impongono soluzioni lontane dalla realtà, e però di quello che andrebbe tenuto in maggiore considerazione, se non si intende rinunciare al corretto inquadramento, e quindi alle ipotesi di approccio, e di eventuale soluzione, del problema.
Uno dei passaggi più significativi dello studio è rappresentato dal collegamento fra il comportamento di chi fa uso di stupefacenti, la sua libertà e i doveri derivanti dall’appartenenza alla comunità sociale, approfondito alla luce dei princìpi fondamentali di ogni ordinamento — anzitutto del principio di solidarietà —, e in particolare dell’ordinamento costituzionale italiano: posta la necessità della “formulazione di un giudizio netto e radicale sul “valore” o sul “disvalore” dell’atto di soddisfazione appetitiva verso le “droghe”” (p. 271) — è questa la conclusione di uno sviluppo logico non riassumibile senza correre il rischio di perderne la ricchezza argomentativa —, “[…] strappare da sé stessi la struttura portante degli atti che possono concretamente attuare le varie ipotizzabili forme di collaborazione con gli altri uomini e consegnarsi all’autodistruzione [come avviene attraverso l’assunzione di stupefacenti], significa sottrarsi, in modo radicale e tendenzialmente irrimediabile, ai più fondamentali doveri di solidarietà che sono imposti dalla socialità della persona, dall’essenza della vita in comune e dal profilo costituzionale concernente la realizzazione delle potenzialità della persona nella dimensione della solidarietà, secondo il richiamo contenuto nell’art. 2 della Carta fondamentale” (p. 278).
I tre capitoli dell’opera indicano le piste seguite nella ricerca. Nel primo, dopo aver riassunto il contenuto delle convenzioni internazionali che si sono occupate delle droghe, e dopo aver tratteggiato lo sviluppo storico della legislazione italiana avvicendatasi sulla materia in questo secolo, l’autore si sofferma sul dibattito che ha animato il mondo giuridico — ma non solo quello — prima dell’approvazione della legge del 1975, e sull’esposizione critica delle differenti posizioni (pp. 1-131). Il secondo capitolo contiene la trattazione analitica delle problematiche riguardanti le varie ipotesi di reato introdotte dalla legge n. 685, delle circostanze aggravanti e della non punibilità prevista per la detenzione di stupefacente in “modica quantità” per uso personale (pp. 133-256). L’ultimo capitolo affronta le tematiche attinenti alla valutazione d’insieme dell’applicazione della legge n. 685, con particolare riferimento alla sostanziale distorta percezione da parte del corpo sociale, e soprattutto dei destinatari di quelle norme, del “messaggio” che il legislatore intendeva trasmettere, al contributo fornito per questo travisamento d’intenti sia dai decreti ministeriali autorizzativi della distribuzione del metadone intervenuti nel 1980 sia da una parte della dottrina giuridica; il capitolo si conclude, dopo un’interessante comparazione con la regolamentazione del settore negli ordinamenti di altre nazioni, con una disamina dei passaggi principali del disegno di legge governativo licenziato dal Senato nel dicembre del 1989, poi approvato definitivamente, con qualche modifica, nel giugno del 1990 (pp. 257-390).
E, proprio sugli aspetti di maggior rilievo della legge n. 162 del 1990, alla luce delle riflessioni contenute nel suo volume, ho rivolto alcune domande al professor Mauro Ronco.
I “modelli” relativi all’uso delle droghe
D. Alla base della legge n. 685 del 1975, era individuabile — come ha fatto nel suo studio — un modello di riferimento dominante: quello dell’assuntore di droga come “malato”, in quanto tale non suscettibile di rimprovero da parte della società, e quindi anzitutto non punibile penalmente, ma “vittima” da sottoporre a trattamento sanitario. Le norme contenute nella legge n. 162 del 1990 hanno modificato buona parte della disciplina precedente: è possibile identificare un differente “modello” a fondamento di esse?
R. Sul piano teorico si possono identificare tre diversi “modelli” relativi al controllo sociale degli stupefacenti. Secondo il primo, che sfocia nella richiesta conclusiva della loro liberalizzazione, l’uso per scopo voluttuario delle droghe esprimerebbe una condotta socialmente e giuridicamente indifferente, che dovrebbe essere garantita dalla legge nella sua possibilità di realizzazione. In base al secondo “modello”, il consumo delle droghe sarebbe qualificabile soltanto in termini di “malattia”, almeno nel senso di disagio soggettivo non risolto, e gli assuntori potrebbero, tutt’al più, essere sottoposti a cura riabilitativa, ma mai a sanzione. Secondo il terzo “modello”, il comportamento dell’assuntore di droghe, in sé e per sé considerato, non sarebbe assimilabile a quello di un malato, sì che potrebbero, con equilibrio e moderazione, essere previste sanzioni volte a dissuadere il consumo voluttuario.
La nuova normativa, avendo dovuto riconoscere il fallimento del secondo “modello” — espresso dalla legge n. 685 del 1975 —, e non avendo voluto accettare la spaventosa prospettiva della liberalizzazione, si è ispirato, almeno in qualche misura, al terzo modello sopra descritto, alla stregua del quale è possibile e giusto rivolgere un appello al senso di responsabilità di ciascuno, inteso a evitare la diffusione del consumo di stupefacenti.
Le modifiche apportate dalla nuova normativa
D. Posto che fino a due, tre anni fa, le proposte di modifica legislativa erano dirette verso un’ulteriore liberalizzazione della detenzione di stupefacenti, quali elementi, a suo avviso, hanno influito sul mutamento di prospettiva del legislatore nel 1990?
R. All’origine di questa modifica di prospettiva vi sono ragioni sia contingenti che di fondo. Sono del primo tipo la determinazione del Partito Socialista Italiano e in particolare del suo segretario, on. Bettino Craxi, di dare un segnale di concretezza e di effettività agli elettori nella lotta contro la diffusione degli stupefacenti, nonché la disponibilità di una parte della Democrazia Cristiana e in particolare del ministro per gli Affari Sociali, on. Rosa Russo Jervolino, ad attenuare le gravi conseguenze di una politica quindicennale di liberalizzazione strisciante delle droghe.
Sul piano più generale delle linee di tendenza nella lotta contro gli stupefacenti, occorre rilevare che la politica dell’Organizzazione delle Nazioni Unite è rivolta a intensificare e a rendere più dura la reazione degli Stati all’uso delle droghe. A questa tendenza delle organizzazioni internazionali ha dovuto fare eco anche il Governo italiano, modificando l’orientamento lassista precedentemente attuato. Inoltre, il fallimento della politica “medicalista” rendeva inevitabile la scelta fra la liberalizzazione delle droghe e un tentativo di contenimento delle stesse anche sul fronte del consumo.
Ora, nonostante la forte pressione di alcune potentissime lobbies, annidate nei grandi mezzi di comunicazione di massa e negli ambienti della sinistra radicale e comunista in Parlamento, volta a indirizzare la legge nel senso della liberalizzazione, il Governo è riuscito a ottenere dal Parlamento stesso l’adeguamento agli indirizzi internazionali, riproponendo il principio della responsabilità personale alla base del sistema.
D. L’approccio “medicalizzante” della disciplina del 1975 ha trascurato che la fenomenologia del consumatore di droga non coincide con il tossicomane, ma è ben più estesa e diversificata; ritiene che la nuova legge abbia fatto progressi nella direzione di una maggiore adeguatezza a cogliere questa realtà?
R. Il maggior pregio della nuova legge mi sembra proprio quello di aver contrastato l’approccio “medicalizzante” della disciplina del 1975, che aveva generato l’equazione fra consumatore di stupefacenti, malato e vittima sociale. Le nuove disposizioni prevedono una serie differenziata di sanzioni, assai moderate e scarsamente afflittive, che vogliono evidenziare il principio di responsabilità, riproponendo all’attenzione di ciascuno che l’uso degli stupefacenti non è consentito.
Il “messaggio” della nuova legge
D. Nel suo studio viene dedicata particolare attenzione alle difficoltà dell’uomo della strada a percepire se non il dettaglio di un testo di legge, quanto meno il “messaggio” che il legislatore vuole trasmettere attraverso la norma.
Questa difficoltà — per una serie di ragioni da Lei esposte — ha assunto il carattere di una vera e propria distorsione con riferimento alla legge n. 685 del 1975, che di fatto è stata intesa come sostanzialmente liberalizzatrice del consumo di stupefacenti e, come Lei ha scritto, ha “[…] portato il corpo sociale a sottovalutare il livello di pericolosità dell’aggressione recata dalle “droghe” alla salute dell’individuo e dell’intera collettività” (p. 263). Vi è il rischio che qualcosa di simile accada o stia accadendo anche per la nuova normativa, che da tempo viene presentata dalla maggior parte dei mass media — nella prospettiva opposta — come la legge delle “manette per il tossicodipendente”?
R. Ho il timore che molto difficilmente il “messaggio” espresso dalla nuova legge venga realmente compreso dalla società. Infatti i grandi mezzi di comunicazione di massa, nella quasi totalità, hanno rappresentato in modo distorto il contenuto e il significato della riforma, indicata come destinata a realizzare un aggravamento insopportabile della condizione dei tossicodipendenti.
Lo scopo così perseguito è di far ritenere, del tutto in contrasto con la realtà, che sia stata adottata una linea esasperatamente dura nei confronti degli assuntori di droghe, premendo in tal modo sull’opinione pubblica per modificare in senso lassista la disciplina e per attribuire le difficoltà di applicazione della legge alla presunta sua eccessiva severità. In realtà, come ho cercato di dimostrare nel mio studio, l’attuale sistema italiano — quello riformato — si colloca fra i meno severi in assoluto.
D. Il giudizio di disvalore verso l’uso di droghe, affermato a chiare lettere dall’art. 72 del Testo Unico sugli stupefacenti (Decreto del Presidente della Repubblica del 9 ottobre 1990, n. 309), trova riscontro, nella medesima legge, in una serie articolata di sanzioni, la cui irrogazione viene disposta in un primo momento dall’autorità amministrativa e poi dal giudice: quale ritiene possa essere la loro efficacia dissuasiva, tenendo conto anche della complessità della procedura e delle gravi difficoltà operative nelle quali si muovono le Prefetture e gli uffici giudiziari?
R. La domanda pone in evidenza il nodo fondamentale della questione. Temo fortemente che il marasma in cui versano gli uffici giudiziari, soprattutto dopo l’introduzione del nuovo codice di procedura penale, e la mancanza di una struttura adeguata degli uffici di Prefettura, competenti a irrogare le sanzioni amministrative nei confronti degli utenti di droghe, frustreranno in gran parte gli scopi della legge.
A ciò va aggiunto che molti operatori giudiziari — magistrati e avvocati soprattutto — sembrano sottovalutare il problema del controllo degli stupefacenti condotto sul fronte del consumo, e che le autorità amministrative — dalla polizia giudiziaria al personale di Prefettura — non sembrano, almeno nei primi mesi di applicazione della nuova normativa, essere consapevoli della grande importanza che la legge attribuisce alla repressione dell’uso. Le segnalazioni, infatti, di casi di consumo alle Prefetture sono estremamente ridotte, incommensurabilmente inadeguate a esprimere la densità e la diffusione del fenomeno dell’uso degli stupefacenti. Ciò costituisce il segno di una disapplicazione strisciante della legge, che rappresenta forse il primo effetto dell’incomprensione del suo “messaggio”.
Il ruolo delle comunità terapeutiche
D. Sul piano della riabilitazione, la nuova disciplina, fra l’altro, subordina la sospensione delle procedure di irrogazione delle sanzioni alla volontaria sottoposizione dell’interessato a un “programma terapeutico e socio-riabilitativo” e riconosce l’importanza del ruolo delle comunità terapeutiche, prevedendo che gli enti pubblici stipulino con esse apposite convenzioni. In che termini ritiene che queste novità possano contribuire a superare la grave situazione sulla quale intervengono?
R. La previsione della sospensione delle procedure di irrogazione delle sanzioni alla volontaria sottoposizione dell’interessato a un “programma terapeutico e socio-riabilitativo” e l’accresciuto ruolo delle comunità terapeutiche sono aspetti assai positivi della nuova normativa. Anche a questo proposito, però, occorre che i buoni intenti della legge siano accompagnati da una particolare serietà da parte di coloro che sono chiamati ad applicarla, e quindi anche da parte degli operatori delle comunità terapeutiche.
Atteggiamenti lassistici e fatalistici, che sfociano nella quasi connivenza con l’uso degli stupefacenti da parte degli assistiti, dovranno essere radicalmente banditi nell’ambito di qualsivoglia comunità terapeutica. Occorrerà anche molta attenzione da parte degli organi di controllo pubblici perché operatori disonesti non approfittino dei contributi statali e regionali senza realmente svolgere alcun compito utile per la riabilitazione dei tossicodipendenti.
D. Nel suo studio il tema dei rapporti fra droga e criminalità è affrontato in modo articolato, tenendo conto, anche in base all’esperienza giudiziaria, della relazione biunivoca fra le due realtà. La legge n. 162 del 1990 ha introdotto anche a questo proposito novità significative, ampliando in qualche modo i poteri della polizia giudiziaria, accentuando il ruolo degli “agenti provocatori”, e introducendo sconti di pena non irrilevanti per i casi di “ravvedimento operoso” dei responsabili di delitti riguardanti gli stupefacenti o a essi connessi; che incidenza concreta potranno avere queste disposizioni?
R. Gli istituti menzionati sono significativi e senz’altro apprezzabili, anche se forse il rilievo a essi dato non corrisponde a novità così rilevanti, come si è voluto far ritenere. Occorre però osservare che tutto l’orientamento del legislatore in materia di prevenzione del crimine e di repressione della delinquenza è in netto contrasto con le esigenze fondamentali di tutela della collettività. Certamente non valgono a invertire la rotta le disposizioni menzionate, che hanno incidenza pratica in casi marginali per la loro rarità.
D’altra parte, la lotta contro gli stupefacenti richiede un corale impegno da parte di tutta la società e di tutte le istituzioni, impegno che impone una rinnovata serietà in sede legislativa, amministrativa e giudiziaria.
a cura di Alfredo Mantovano