Mauro Ronco, Cristianità n. 278 (1998)
1. La legge sui “collaboratori di giustizia”
Le novità introdotte nell’ordinamento giuridico della Repubblica Italiana dalla legge 15-3-1991 n. 82, nonché dalle successive integrazioni e modificazioni, hanno sconvolto l’impianto costituzionale in ordine al significato e alla funzione della pena e della giustizia penale, alterando altresì profondamente il rapporto fra i poteri dello Stato e, all’interno dell’ordine giudiziario, fra l’organo titolare del potere di esercizio dell’azione penale e gli organi giurisdizionali.
Per dare conto compiutamente di queste affermazioni occorrerebbe, oltre a un’analisi accurata, condotta sine ira et studio, delle disposizioni normative, altresì una conoscenza della giurisprudenza dei Tribunali di Sorveglianza — soprattutto di quello di Roma, divenuto competente, in forza del comma 3° dell’articolo 13 del decreto legge 8-6-1992 n. 306, convertito dalla legge 7-8-1992 n. 356, divenuta ora l’articolo 13 ter della legge n. 82/1991 —, competenti a conoscere le richieste relative all’ammissione al lavoro esterno, ai permessi premio e all’ammissione alle misure alternative alla detenzione nei confronti di tutte le persone che godono dello speciale programma di protezione. Sarebbe, poi, necessario acquisire un’adeguata informazione in ordine al contenuto degli speciali programmi di protezione — tanto delle misure di protezione quanto della misure di assistenza — disposti dalla Commissione Centrale di cui all’articolo 10 della legge n. 82/1991, e in ordine alle prassi negoziali attraverso cui si realizzano i presupposti concreti per l’ammissione dei collaboratori di giustizia allo speciale programma di protezione.
Va detto subito che, allo stato attuale, al di là delle informazioni che trapelano di tanto in tanto sugli organi di stampa in relazione a situazioni critiche in ordine al contegno deviante serbato da alcuni collaboratori di giustizia durante la pendenza del programma di protezione, lo studioso non ha a propria disposizione alcuna informazione organica, a causa della segretezza con cui è gestito l’intero sistema, circa il funzionamento e i risultati pratici recati dalla riforma normativa di cui alla legge n. 82/1991 e successive.
Se si pone attenzione alla circostanza che la ratio sottostante alla legge n. 82/1991 è costituita dalla presunta efficacia delle misure introdotte contro la dilatazione della criminalità organizzata, è facile comprendere che lo studioso, e, a maggior ragione, il cittadino comune, non siano in condizioni di poter verificare, neppure dopo parecchi anni di vigenza del sistema riformato, l’effettivo conseguimento ovvero il fallimento degli obiettivi che la legge si è proposta. In realtà, soltanto il ministro degli Interni e le sue articolazioni gerarchicamente subordinate, nonché i magistrati del Pubblico Ministero appartenenti alla Direzione Nazionale Antimafia e alle Direzioni Distrettuali possono avere un quadro sufficientemente adeguato della situazione: quadro che sfugge quasi completamente al controllo del Parlamento, dello studioso indipendente e dell’opinione pubblica. Poiché l’ammissione al programma di protezione comporta una straordinaria dose di premialità, che si sostanzia anche nella previsione dell’assegnazione di “misure di assistenza”, ai sensi dell’articolo 10 della legge n. 82/1991 — in pratica, oltre a contributi per il vitto, l’alloggio e il lavoro, anche di consistenti premi in denaro —, con la concedibilità di permessi premio e l’ammissibilità a qualsivoglia misura alternativa alla detenzione, anche in deroga alle disposizioni relative ai limiti di pena di cui agli articoli 21, 30 ter, 47, 47 ter e 50 della legge sull’ordinamento penitenziario e, dunque, poiché l’ammissione al programma sovverte i princìpi generali sull’indefettibilità della pena e sul trattamento uguale dei cittadini di fronte alla legge, la prima doglianza che si deve rivolgere al sistema attuale concerne il regime di segretezza delle notizie circa gli esiti concreti delle vicende penali riguardanti i collaboratori di giustizia. Non si postula qui, ovviamente, che sia data informazione circa le modalità della “protezione”, bensì circa le modalità con cui si è realizzata la premiazione del collaboratore di giustizia, normalmente autore di delitti efferati e organizzatore o capo delle associazioni a delinquere più pericolose. Invero, come più sotto si vedrà, l’ipocrisia del legislatore ha occultato definitoriamente la premialità sotto l’apparenza della protezione. Ma poiché il sistema, oltre che protezione, dispensa soprattutto premiazione, occorre che le sue modalità concrete di svolgimento siano conosciute dalla collettività, onde sia possibile, come in qualsiasi ordinamento democratico, che il corpo elettorale e i suoi rappresentanti eletti prestino un consenso informato alla protrazione del sistema.
Il vulnus alla democrazia, che in tanto possiede un significato non demagogico o strumentale in quanto presupponga il pieno diritto all’informazione circa le modalità e i risultati delle funzioni e attività svolte da tutti gli organi dello Stato, ivi compresa la giurisdizione, merita di essere quanto prima rimarginato attraverso la previsione dell’organica conoscibilità dell’esito dei procedimenti penali e dell’effettività delle sanzioni nei confronti di tutte le persone che sono state condannate. Se, infatti, il senso comune di giustizia postula la proporzionalità fra il delitto commesso e la conseguenza sanzionatoria, e se tale rapporto di proporzionalità, sia pur mediato e corretto dalle condizioni soggettive e dai comportamenti personali assunti dall’imputato durante il processo, è essenziale perché sia rispettato il principio dell’uguaglianza di trattamento dei cittadini innanzi alla legge in base all’articolo 3 della Costituzione, non è chi non veda come sia costituzionalmente indispensabile la conoscibilità da parte di tutti i cittadini del contenuto dei provvedimenti giudiziari, e tanto più delle sentenze, nonché dell’attuazione dei loro dispositivi, atteso che, in virtù dell’articolo 101 comma 1° della Costituzione, la giustizia è amministrata in nome del popolo e le sentenze sono emesse, ai sensi dell’articolo 546 del codice di procedura penale, “in nome del popolo italiano”.
L’effettiva conoscenza del destino sanzionatorio dei collaboratori di giustizia è postulato dall’esigenza che sia possibile verificare la realizzazione, ovvero il fallimento, del fine general-prevenzionistico della nuova normativa. A tutti è noto che la giustificazione del sistema sta nella sua pretesa efficacia di difesa sociale. Ora, il cittadino e i suoi rappresentanti in Parlamento devono poter verificare concretamente i risultati di un impianto normativo i cui presupposti di ragionevolezza stanno asseritamente nel bilanciamento fra i costi e i benefici, alla luce delle indicazioni utilitaristiche che sorreggono e giustificano la scelta legislativa. Ma se è ignoto all’opinione pubblica il costo effettivo che l’ordinamento paga per la funzionalità del sistema — in altri termini, se sono ignote le concrete conseguenze sanzionatorie ricollegate all’accertamento dei delitti commessi dai collaboratori di giustizia e la qualità e la quantità dei premi loro assegnati —, ogni giudizio di bilanciamento è concretamente impossibile e la pretesa accettazione di un criterio imperniato sul rapporto proporzionale costi-benefici suona intrinsecamente contraddittoria e sostanzialmente mistificatrice della realtà.
2. Il negoziato e il premio
Alla base delle novità introdotte con la legge n. 82/1991 sta l’idea premial-negoziale, che aveva dato buona prova di sé in materia di reati politici all’epoca del terrorismo e che ha fatto ingresso nel codice di procedura penale del 1989 tramite la previsione di procedimenti speciali, basati sul principio inquisitorio e ispirati a finalità deflattive — cioè volte a ridurre tanto la durata dei processi quanto a diminuire i tempi di permanenza carcerari —, in cui si realizza lo scambio contrattuale: “rinuncia al dibattimento contro riduzioni di pena”. Più che all’esperienza relativa al terrorismo, che ha una sua specificità politica, quasi sempre trascurata dai giuristi, che si affidano a letture riduttive dei fatti politici — invero, il terrorismo fu sconfitto perché la sua strategia politica fu rifiutata come inaccettabile e pericolosa dal Partito Comunista Italiano, il più grande e potente partito della sinistra europea, e non perché siano state introdotte misure premiali per i collaboratori di giustizia —, occorre attirare l’attenzione sugli istituti a finalità deflattiva, nei quali la rinuncia al processo viene scambiata con una riduzione indulgenziale della pena. Effettivamente il principio alla base della premialità nei riti speciali è simile al principio che sorregge la premialità riconosciuta alla collaborazione: a fronte di un beneficio per l’ordinamento, del tutto eterogeneo rispetto alla valutazione del disvalore intrinseco al fatto per cui il soggetto è giudicato, è concesso un premio a chi pone in essere la causa oggettiva del beneficio per lo Stato. Nel caso dei procedimenti sommari, l’imputato costituisce la causa del beneficio perché rinuncia alle forme e alle garanzie con cui dovrebbe accertarsi la sua responsabilità; nel caso del collaboratore di giustizia, l’imputato o il condannato costituisce la causa della possibilità per lo Stato di perseguire altri criminali.
A una siffatta logica premial-negoziale potrebbero e dovrebbero svolgersi argomentate critiche sul piano etico-sociale, che l’economia di questo intervento non mi consente di svolgere. Invero, ogni premio postula una giustificazione intrinseca nella meritevolezza dell’azione compiuta. La totale trascuranza di questo nesso è foriera di squilibri sociali di straordinaria rilevanza, anche se forse non avvertibili immediatamente, atteso che qualsivoglia ordinamento sociale postula come suo fondamento una serie di princìpi etici di riferimento. Ma, non essendo il mio scopo sviluppare qui siffatte considerazioni, resta comunque doveroso domandarsi, in una prospettiva empirica sottoposta al principio di falsificazione, se effettivamente gli istituti di tipo premial-negoziale siano efficaci come strumento di lotta a lungo termine nei confronti della criminalità.
Molteplici ragioni m’inducono a dare una risposta negativa, con riferimento, evidentemente, a una prospettiva di lungo termine, in vista della creazione di stabili e armoniche condizioni per la realizzazione della pace sociale.
A ben guardare, infatti, la logica premial-negoziale costituisce allo stesso tempo la punta di massima intensità e di massima contraddittorietà della concezione general-prevenzionistica del diritto penale: concezione secondo la quale, per un verso, la minaccia della pena avrebbe una funzione intesa a distogliere i consociati dalla commissione dei reati e, per un altro verso, la sua concreta inflizione confermerebbe la serietà e l’effettività della minaccia. Ora, l’impunità come premio concesso a chi consente, tramite le sue dichiarazioni, di applicare la pena ad altre persone, configura un sistema nel quale l’ansia general-prevenzionistica, intesa a sanzionare tutti i possibili colpevoli di reati, cancella la stessa effettività della pena, togliendo alla radice il fondamento primario della pretesa funzionalità della minaccia. Il sistema che ne nasce è intrinsecamente contraddittorio: al fine di rendere efficace la minaccia, l’ordinamento rinuncia infatti al suo fondamento logico insostituibile, cioè all’indefettibilità della pena.
Ma v’è di più. Se deve ammettersi che la minaccia della pena esprime una generale funzione di garanzia e tutela dei beni giuridici, ciò che maggiormente conta perché il cittadino s’induca a non violare il dettame normativo è la credibilità del sistema dissuasivo, cioè la serietà e la non contraddittorietà del suo operare. Condizione necessaria, anche se non sufficiente, per la credibilità del sistema penale è che il cittadino sappia che egli, in caso di violazione, sarà punito non per ragioni di utilità, bensì perché sarà stato convinto di essere colpevole. Invero, affinché la minaccia della pena sia intrinsecamente credibile, sì da innestare una convinzione razionale, in grado di agire stabilmente sulla volontà, è necessario che il legislatore e il giudice postulino la giustizia della pena in relazione al fatto commesso. Il livello di credibilità del sistema — e, dunque, la sua efficacia dissuasiva — è direttamente proporzionale all’intensità della convinzione sussistente nei cittadini circa la sua giustizia. La relativizzazione circa il significato del sistema e, ancor più, circa la giustificazione della sanzione, affievolisce la credibilità della norma e abbassa l’efficacia della prevenzione generale.
Ora, la previsione di un sistema che garantisce l’impunità in cambio dell’accusa mossa ai colpevoli dello stesso reato commesso dal dichiarante, ovvero agli autori di altri reati relativizza in maniera straordinariamente accentuata nel soggetto criminale la convinzione circa l’assoluta indisponibilità del bene giuridico che la legge vuol tutelare e che egli ha offeso, attenuando di molto e quasi azzerando l’effetto di prevenzione generale inerente alla minaccia della pena. È singolare che i sostenitori del sistema premial-negoziale non abbiano sottoposto ad adeguata riflessione le loro convinzioni allorché hanno potuto constatare che non poche persone ammesse al servizio di protezione e fruenti del regime di libertà sono ben presto ricorse all’omicidio per risolvere problemi che avrebbero potuto essere ben altrimenti governati, disponendosi poi, immediatamente, una volta scoperti, a nuove rivelazioni, in vista della concessione, se non della totale impunità, almeno di ulteriori consistenti vantaggi.
Non ci si deve qui limitare alla considerazione, prevalentemente di natura etica, che evidenzia come aberrante il fatto che l’ordinamento fornisca un oggettivo contributo causale alla nuova perpetrazione di crimini da parte del criminale beneficato con l’impunità. Si deve soprattutto denunciare la relativizzazione del dettame precettivo della norma giuridica che vieta di uccidere un uomo, con il conseguente effetto di attenuare l’efficacia della prevenzione generale insita nella minaccia della sanzione: l’impunità garantita all’omicida in virtù della collaborazione prestata è causa della crescita esponenziale di omicidi nell’ambiente sociale a lui circostante, che percepisce a livello psichico profondo l’infrazione del tabù dell’indisponibilità della vita e abbassa la soglia della propria capacità inibitoria. La prevenzione generale, che si vorrebbe rafforzare attraverso il sistema della delazione giudiziaria, esce in realtà indebolita e frustrata dalla percezione che è possibile potestativamente assicurarsi l’impunità per il fatto commesso, foss’anche il più grave immaginabile.
V’è ancora di più, sempre sul terreno afferente all’efficacia della prevenzione generale che inerisce al sistema premial-negoziale. Una delle ragioni psicologicamente più forti a sostegno dell’efficacia preventiva della sanzione sta nella rappresentazione, che i cittadini acquisiscono con l’educazione, circa la supremazia morale dell’ordinamento, con le sue istanze ed esigenze di solidarietà sociale, sull’arbitrio e sulla pulsione egoistica del singolo. La negoziazione volta allo scambio impunità-delazione rischia di collocare l’ordinamento, nella rappresentazione del colpevole, sullo stesso piano dell’utilitarismo egoistico che è alla base dell’esplosione criminale. Nella rappresentazione non soltanto del colpevole, ma anche di coloro che gli sono pari nella carriera criminale e, in definitiva, di tutti i cittadini, la disponibilità al rispetto del dettame normativo si abbassa al livello del mero calcolo costi-benefici. Se l’ordinamento, tanto nella sua superiorità morale quanto nella sua preponderanza in termini di forza, si muove con cadenze ispirate esclusivamente al calcolo costi-benefici, non si vede per quale ragione non debba imprimersi lo stesso calcolo nella rappresentazione del cittadino, con l’evidente scadimento del livello di soglia inibitoria alla commissione dei più gravi delitti.
V’è ancora di più, specificamente con riferimento al comportamento dei gruppi criminali, i cui membri già agiscono sulla base di un calcolo meramente utilitaristico.
La funzionalizzazione della condotta al massimo arricchimento possibile si esalta nella prospettiva di una possibile fuoriuscita dal circuito di sofferenze destinato all’esecuzione della pena: la possibilità di eliminare i concorrenti interni alla propria organizzazione criminale, ovvero esterni alla stessa oltre che concorrenti e avversari nella gestione del potere criminale, attraverso il premio dell’impunità in cambio della delazione, costituisce fomite e incentivo alla più agevole e conveniente permanenza nel delinquere una volta che si è ottenuta, mercé l’ammissione al programma di protezione, la condizione di libertà. La protezione dell’apparato statuale diventa comodo alibi per la protrazione pervicace dell’attività criminosa già in precedenza svolta.
Mancano, a causa della relativa novità del fenomeno, dati statistici significativi. Tuttavia, le notizie che trapelano dalle ferree maglie del segreto consentono di affermare che non sono sporadici i casi in cui i criminali premiati hanno ripreso, dopo la parentesi collaborativa, la piena attività illecita.
In realtà, affinché il fenomeno della collaborazione giudiziaria possa sortire una qualche efficacia preventiva, occorre che la premialità resti straordinaria e non si eriga in sistema. Nel momento stesso in cui ciò avvenga, l’eventualità del premio al delinquere entra necessariamente a far parte della rappresentazione costi-benefici che l’appartenente ai gruppi criminali inevitabilmente compie nel momento in cui esercita le sue opzioni di vita.
Pertanto, se può concedersi una qualche efficacia preventiva a una premialità esercitata dallo Stato in via straordinaria, attraverso la regolamentazione compiuta da leggi a efficacia temporanea, deve assolutamente escludersi che essa possa avere un’efficacia preventiva a lungo termine. Ché, anzi, ove la premialità diventasse sistematica e permanente, essa verrebbe ad acquistare effetti contrari a quelli prevenzionistici e verrebbe a costituire causa non secondaria della crescita esponenziale dell’attività criminosa.
Pervenuti a catturare i vertici delle grandi organizzazioni criminali, grazie al sistema negozial-premiale, più non si giustifica la permanenza sistematica di una premialità negoziata, su cui i nuovi e i vecchi criminali possono fare calcolo nel compimento delle proprie scelte di vita.
3. Interruzione dei percorsi riabilitativi
Il sistema negozial-premiale, nella sua pragmaticità volta esclusivamente al risultato e nella totale disattenzione al dato criminologico, ha interrotto bruscamente la concreta sperimentazione dei percorsi riabilitativi introdotti nell’ordinamento con la legge penitenziaria n. 354 del 1975 e con il loro approfondimento, tentato con la legge n. 683 del 1986, innescando un meccanismo di rilettura in chiave general-prevenzionistica degli istituti che un’elaborazione dottrinale e legislativa di grande impegno culturale aveva pensato in chiave riabilitativa ed emendativa.
Al riguardo emergono due diversi profili critici: il primo, concernente la conformità o difformità del nuovo sistema relativo alla concedibilità dei benefici penitenziari rispetto all’articolo 27 comma 3° della Costituzione; il secondo, concernente la contraddittorietà di una modificazione dell’impianto rieducativo penitenziario compiuta non alla luce di esigenze e problematiche inerenti alle modalità e agli esiti della normativa deputata alla rieducazione, bensì esclusivamente alla luce di scelte pragmatiche e utilitaristiche di politica criminale. Iniziando da questo secondo profilo, non può sottacersi che la sostituzione del binomio collaborazione-benefici al precedente rieducazione-benefici, restando immutato lo schema premiale delle misure alternative alla detenzione, proietta una luce d’ipocrisia sull’intero sistema attuativo del principio costituzionale relativo al necessario carattere rieducativo della pena. Vero che un siffatto finalismo della pena appare problematico e controvertibile: ma esso, oltre che costituzionalmente doveroso, non può essere senza grave contraddittorietà sostituito da una duplice presunzione che la collaborazione realizzi necessariamente l’avvenuta rieducazione e che l’assenza di collaborazione, in relazione a determinati tipi di autore, comporti inevitabilmente l’inemendabilità del soggetto.
Peraltro, l’ottica esclusivamente pragmatistica con cui è stata introdotta la premialità del contegno collaborativo esclude in radice che sia ammissibile l’equazione accomodatizia fra la collaborazione e l’emenda. Sempre sotto questo profilo non può sottacersi che i soggetti minori o marginali delle associazioni criminali si trovano in posizione di oggettiva impossibilità a prestare quel contributo collaborativo che appare indispensabile per far scattare l’operatività degli istituti premiali. Né al proposito sono sufficienti i rimedi escogitati dall’articolo 15 della legge n. 356/1992 in modifica dell’articolo 4 bis, così come introdotto dalla legge n. 82/1991 — secondo cui la collaborazione oggettivamente irrilevante non esclude l’ammissibilità ai benefici, qualora ciò trovi giustificazione o nella marginalità della partecipazione criminosa accertata nella sentenza di condanna con la concessione delle attenuanti di cui agli articoli 114 e 116, comma 2° del codice penale o 62 n. 6 —, ovvero dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 306 del 1993 e n. 357 del 1994. Con la prima è stata equiparata alla collaborazione oggettivamente irrilevante la collaborazione impossibile, in ragione della circostanza per cui “[…] fatti e responsabilità sono già stati completamente acclarati o perché la posizione marginale nell’organizzazione non consente di conoscere fatti e compartecipi pertinenti al livello superiore”. Con la seconda sentenza è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis secondo periodo, nella parte in cui non prevedeva che i benefici di cui al primo periodo del medesimo comma potessero essere concessi anche nel caso in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, come accertata nella sentenza di condanna, rende impossibile un’utile collaborazione con la giustizia.
Invero, oltre alla considerazione che nei confronti dei soggetti che non hanno prestato la collaborazione — anche perché la stessa è impossibile — o nei confronti di soggetti che hanno prestato una collaborazione irrilevante, i benefici sono concedibili alla condizione, che soltanto con acrobazie diaboliche può essere provata, che “[…] siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata” — come recita l’articolo 4 bis comma 1° secondo periodo —, va soprattutto detto che l’assenza di collaborazione non equivale assolutamente a rieducazione fallita, salvo sostituire contradditoriamente al concetto di rieducazione, a carattere specificamente special-preventivo, il concetto di collaborazione, a carattere spiccatamente general-preventivo.
Le considerazioni da ultimo svolte costituiscono anche utile premessa per una critica di ordine costituzionale nei confronti della disciplina vigente.
La Corte Costituzionale nella sentenza n. 306/1993 — presidente Casavola, relatore Spagnoli — ha salvato l’impianto complessivo della riforma recata dalla legge n. 82/1991 svolgendo considerazioni che, in contrasto con la precedente sentenza n. 313/1990 — secondo cui “[…] la necessità costituzionale che la pena debba “tendere” a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e l’accompagnano da quando nasce, nella astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue” — pongono al centro del finalismo sanzionatorio le esigenze di prevenzione generale e di difesa sociale.
A fronte del nuovo sistema normativo che, per un verso, con riferimento ai condannati per i delitti espressivi del fenomeno della cosiddetta criminalità organizzata, statuisce che non sono concedibili i benefici che comportano un sia pur temporaneo distacco, totale o parziale dal carcere, e per un altro verso, con riferimento alla stessa categoria di condannati, sono concedibili tutti i benefici penitenziari in questione, addirittura in deroga ai limiti di pena previsti in generale dalla legge per ogni singolo tipo di beneficio, purché abbiano collaborato nell’accusare gli altri correi o gli autori di altri reati, la Corte Costituzionale, coonestando la scelta del legislatore di “privilegiare finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività”, con la sentenza n. 306/1993 si è limitata a prendere atto che la soluzione adottata ha “[…] comportato una rilevante compressione della finalità rieducativa della pena”. Infatti, sempre secondo la Corte Costituzionale nella citata sentenza, sarebbe pur vero che “[…] la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individuazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario”, mentre apparirebbe “[…] preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di “tipi di autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita”. Inoltre, sempre ad avviso della Corte Costituzionale, non potrebbe non destare “[…] serie perplessità, pur in una strategia di incentivazione della collaborazione, la vanificazione dei programmi e percorsi rieducativi […] che sarebbe conseguita alla drastica impostazione del decreto legge, particolarmente nei confronti di soggetti la cui collaborazione sia incolpevolmente impossibile o priva di risultati utili e, comunque, per i soggetti per i quali la rottura con le organizzazioni criminali sia adeguatamente dimostrata”.
Senonché, pur a fronte di siffatte osservazioni critiche, la normativa sarebbe, ad avviso della Corte Costituzionale, ugualmente da salvare, in quanto sarebbe stata evitata, a riguardo di tutti i soggetti, collaboranti o meno, qualunque sia stato il reato da essi commesso, la presunzione di pericolosità per chi non collabora: la legislazione penitenziaria vigente, infatti, consentirebbe pur sempre a tutti i soggetti di usufruire della liberazione anticipata, sì che il finalismo rieducativo, pur rilevantemente compresso, non sarebbe del tutto cancellato.
Le considerazioni critiche della Corte Costituzionale, che pur hanno dato luogo a una pronuncia contraddittoria di salvataggio della normativa, meriterebbero però di essere rivisitate alla luce non soltanto del principio di cui all’articolo 27 comma 3° della Costituzione, bensì anche alla luce del principio di ragionevolezza, essendo assai discutibile la creazione di una forbice così divaricata fra situazioni che si differenziano fra loro per la collaborazione prestata, senza che sia possibile tener conto del percorso emendativo concretamente svolto dal soggetto, nonché alla luce del principio di cui all’articolo 24 comma 2° della Costituzione, che non penalizza il diritto di difesa con l’imposizione dell’obbligo di collaborazione, ma attribuisce a questo diritto la massima espansione possibile, proclamandone l’inviolabilità in ogni stato e grado del procedimento, nonché del principio di cui all’articolo 25 comma 2° della Costituzione, che delinea un diritto penale del fatto e non un diritto penale imperniato essenzialmente sui tipi d’autore.
4. La premialità assoluta
Nel sistema vigente la premialità assoluta — che si sostanzia in una sorta d’impunità amministrativa — è ottenuta mercé l’ammissione delle persone che collaborano con la giustizia — nonché dei loro prossimi congiunti, del convivente e di coloro che sono esposti ad attuale e grave pericolo a causa delle relazioni che intrattengono con il collaborante — allo “speciale programma di protezione” di cui agli articoli 10 e seguenti della legge n. 82/1991.
Occorre pertanto soffermarsi sulla razionalità della normativa concernente l’ammissione al programma di protezione e sulla sua conformità ai princìpi generali dell’ordinamento.
a. L’ipocrisia legislativa
Una prima considerazione concerne l’ipocrisia con cui il legislatore ha affrontato e risolto il problema. Invero il decreto legge 15-1-1991 n. 8, poi convertito nella legge n. 82/1991, era intitolato Nuove misure in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia. Il capo secondo della legge, nel quale sono inserite tutte le previsioni di carattere premiale, è intitolato Nuove norme per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia.
Le norme in questione, lungi dall’individuare le modalità di protezione del soggetto collaboratore, approntano un vero e proprio sistema premiale, il cui vertice è costituito dall’articolo 13 ter comma 2°, secondo cui il provvedimento concessivo dei permessi premio e l’ammissione alle misure alternative alla detenzione può essere adottato anche in deroga alle vigenti disposizioni, ivi comprese quelle relative ai limiti di pena previste per ogni singolo istituto premiale. Non erano sconosciute all’ordinamento, all’epoca dell’approvazione della legge n. 82/1991, modalità di protezione della persona che collaborasse con l’autorità giudiziaria: la legge n. 486/1988 attribuiva all’Alto Commissario per il Coordinamento della Lotta contro la Delinquenza Mafiosa il potere di adottare direttamente o di far adottare “[…] tutte le misure che valgano ad assicurare […] la incolumità delle persone esposte a grave pericolo per effetto della loro collaborazione nella lotta contro la mafia o di dichiarazioni da esse rese nel corso di indagini di polizia o di provvedimenti penali, riguardanti fatti riferibili ad organizzazioni e attività criminose di stampo mafioso”. Né sarebbe stato impossibile specificare ulteriormente, anche per i familiari e i conviventi dei collaboratori, le modalità di protezione, avvalendosi altresì di un circuito carcerario assolutamente impermeabile alla penetrazione dei detenuti non collaboratori.
In realtà, sotto l’apparenza di una ratio di protezione, si è introdotta nell’ordinamento l’impunità del testimone del Governo, o, più esattamente ancora, del testimone del Pubblico Ministero, attraverso l’ingresso nel programma di protezione, che spetta disciplinare a una Commissione Centrale, composta in modo misto, da cinque dirigenti di Polizia e ufficiali dei Carabinieri e da due magistrati esperti in materia di criminalità organizzata, ed è presieduta da un Sottosegretario.
Con l’ingresso nel programma il collaboratore ottiene l’indispensabile lasciapassare per fruire di un regime particolarmente privilegiato, che si articola tanto in protezione e assistenza quanto nella possibilità di sottrarsi definitivamente a qualsiasi trattamento sanzionatorio all’interno del carcere.
b. La sottrazione alla comune giurisdizione
Una seconda considerazione critica concerne i profili di degiurisdizionalizzazione del procedimento di ammissione ai benefici nei confronti dei collaboratori. Infatti, in virtù dei poteri conferiti alla Commissione Centrale di protezione e alle norme procedurali di cui ai commi 2° e 3° dell’articolo 13 ter, la magistratura di sorveglianza svolge un ruolo assolutamente marginale e quasi di ratifica di decisioni che nella realtà sono assunte in sede amministrativa. Al riguardo va osservato che la magistratura di sorveglianza non può normalmente verificare la sussistenza dei presupposti giuridici posti dalla legge penitenziaria a fondamento delle singole misure alternative alla detenzione, poiché la legge n. 82/1991 non prevede specificamente i requisiti cui è ricollegata la concessione delle predette misure, anche in deroga ai limiti di pena previsti dalla legge. È evidente, pertanto, che la collaborazione prestata è il presupposto necessario e sufficiente alla concessione delle misure, in un quadro in cui la regola è l’assoluta mancanza di regole prefissate legislativamente. L’articolo 13 ter prevede infatti che l’ammissione alle misure alternative, nei confronti delle persone ammesse al programma, sia disposta “sentita l’autorità che ha deliberato il programma”, la quale “[…] provvede ad acquisire informazioni dal P.M. presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione”. A rimarcare la discrezionalità libera del provvedimento ammissivo, il comma 2° ultima parte dell’articolo 13 ter prevede che il provvedimento sia “[…] specificamente motivato soltanto nei casi in cui la Commissione centrale abbia espresso avviso sfavorevole”. Ai sensi poi del comma 3° dell’articolo 13 ter è prevista la concentrazione delle competenze presso il Tribunale e il magistrato di Sorveglianza del luogo in cui la persona ammessa al programma ha eletto domicilio. Poiché il comma 3° dell’articolo 12 prevede che, all’atto della sottoscrizione del programma, l’interessato elegga il proprio domicilio nel luogo in cui ha sede la Commissione Centrale di protezione, è ovvio che la competenza risulta accentrata presso il Tribunale di Sorveglianza di Roma, con discutibile aggiramento del principio costituzionale della previsione del giudice naturale.
La scelta compiuta, con la degiurisdizionalizzazione del procedimento e con la totale trascuranza del principio che ricollega la progressiva attenuazione del rigore nel trattamento sanzionatorio ai progressi compiuti durante l’esecuzione della pena, si muove a ritroso rispetto alla concezione e alla ratio ispiratrice della legislazione penitenziaria approvata nel 1975 e approfondita nel 1986.
Non si vuole qui contestare che l’ordinamento possa razionalmente concedere un premio, anche consistente, a chi abbia contribuito all’accertamento della responsabilità penale di altre persone. Suscita perplessità, invece, tanto l’eccessività del premio, quanto la sottrazione del regime della premialità alla disciplina ordinaria, che vuole la puntuale verifica giurisdizionale in ordine alla sussistenza dei presupposti di meritevolezza. Né può compiutamente apparire soddisfacente che il giudizio in ordine alla sussistenza dei presupposti sia demandato allo stesso organo deputato istituzionalmente alla protezione del soggetto.
c. La commistione fra la protezione e il premio
Le considerazioni appena svolte costituiscono utile premessa per riflettere su un terzo profilo critico, il più rilevante e grave, che affiora dalla legislazione vigente. La connessione fra ammissione al programma di protezione e sistema della premialità illimitata, prevista dall’articolo 13 ter della legge n. 82/1991 così come modificato dall’articolo 13 del decreto legge 8-7-1992 n. 306, realizzando una pericolosa commistione fra il momento della sicurezza e il momento del premio, introduce nell’ordinamento germi di dissoluzione delle garanzie dei cittadini, nonché di disarticolazione del corretto equilibrio fra gli organi dello Stato e fra l’iniziativa e i poteri del Pubblico Ministero, da un lato, e, dall’altro, le più essenziali prerogative della giurisdizione.
La procedura d’ammissione al programma di protezione e, più ancora, l’assoluta indeterminatezza circa le ragioni e i tempi del mantenimento del soggetto nel programma medesimo, nonché la mancata individuazione tassativa delle fattispecie di revoca del programma, delineano un sistema nel quale l’organo del Pubblico Ministero viene a esercitare una sorta di discrezionalità illimitata che rischia oggettivamente di condizionare in modo inaccettabile l’intera carriera di dichiarante del collaboratore di giustizia.
L’ammissione al programma è deliberata dalla Commissione Centrale — a norma dell’articolo 10 comma 2° —, la quale vaglia, nella procedura ordinaria, le istanze motivate provenienti o dal procuratore della Repubblica o dagli organi e uffici delegati dal ministro dell’Interno, o dal prefetto in base a un triplice ordine di presupposti: l’“importanza” delle dichiarazioni; la “gravità” e “attualità” del pericolo da esse derivante per il collaboratore; l’“inadeguatezza” delle misure adottate o adottabili ai sensi della normativa del 1988.
Orbene, il procuratore della Repubblica, ai sensi dell’articolo 11 comma 1° è il vero dominus del procedimento d’ammissione, atteso che, oltre al potere di iniziativa nella richiesta, esprime anche un parere vincolante nel caso di richiesta inoltrata dalle autorità amministrative. Egli, attestando nel suo parere “[…] l’importanza del contributo offerto o che può essere offerto dall’interessato o dal suo prossimo congiunto per lo sviluppo delle indagini o per il giudizio penale”, si pone come indispensabile filtro fra la domanda proveniente da organi amministrativi e la valutazione fatta dalla Commissione Centrale.
Va in primo luogo rilevata l’incongruità derivante dalla mancata distinzione fra i poteri rispettivi dell’autorità amministrativa e del Pubblico Ministero: è infatti incongruo che spetti anche al procuratore della Repubblica, quando egli è autore della proposta di protezione, la valutazione in fase istruttoria del grado del pericolo e dell’inadeguatezza delle protezioni ordinarie, valutazione che dovrebbe sempre spettare agli organi amministrativi.
Ma v’è di più. Il collegamento fra protezione e premiazione attribuisce al Pubblico Ministero poteri eccessivi e inaccettabili, che lo rendono di fatto dominus del processo lungo tutta la fase giurisdizionale nonché dominus dell’esecuzione della pena nei confronti del collaboratore.
Se è infatti razionalmente condivisibile che il Pubblico Ministero esprima un parere, fondato sull’importanza delle dichiarazioni, in ordine all’ammissione a un programma di protezione, è incongruo che, in base alla semplice permanenza in questo programma, il collaboratore possa ottenere i benefici premiali di cui all’articolo 13 ter della legge. La mancata previsione di cause tassative di revoca del programma di protezione, soprattutto con riferimento alla verifica giurisdizionale delle dichiarazioni del collaboratore, attribuisce al Pubblico Ministero un potere permanente di condizionamento nei confronti del collaboratore, il quale, una volta ammesso al programma di protezione, ha un bisogno assoluto di mantenere il sostegno del procuratore della Repubblica, senza il cui parere favorevole la Commissione Centrale di protezione deve escluderlo dal programma. Si crea così un duplice legame, con un grave rischio d’inquinamento dell’autenticità e della verità delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia nel processo: da un canto costui, dipendendo dal Pubblico Ministero per il suo mantenimento nel programma di protezione, e, conseguentemente, necessitando del parere favorevole di quest’ultimo per poter godere, dopo la condanna definitiva, dei benefici senza limiti di cui all’articolo 13 ter, è indotto ad assumere comportamenti sempre intesi a compiacere quelle che a lui appaiono le esigenze investigative o a sottolineare e approfondire le linee guida dell’inchiesta o delle inchieste in cui egli assume la veste di protagonista. Da un altro canto, il Pubblico Ministero, quale soggetto garante del premio promesso al collaboratore in vista o a causa delle sue dichiarazioni, è indotto ad assumere una posizione sempre più spiccata di parte, con il permanente rischio di trascurare il suo dovere di raccogliere le prove anche a favore degli indagati chiamati in reità, nonché di acquisire poteri eccessivi nei confronti dello stesso collaboratore, che possono provocare fuorviamenti nell’accertamento della verità. Quanto ai problemi che sorgono per la dipendenza del collaboratore dal Pubblico Ministero, merita sottolineare il rischio che, onde accedere al programma e goderne i benefici in sede esecutiva, il dichiarante — una volta superata la soglia della naturale ritrosia a confessarsi colpevole per reati gravissimi — dilati via via la sua posizione protagonistica, lungo una spirale ascensiva difficilmente controllabile anche dall’inquisitore già accorto. Quanto ai problemi inversi, trapelati da alcune vicende giudiziarie, che sembrano delineare una paradossale dipendenza del Pubblico Ministero dal collaboratore, non può certo sottovalutarsi l’astuzia e la capacità di soperchieria degli indagati, che possono distribuire progressivamente le loro rivelazioni in modo da garantirsi spazi sempre più vasti d’impunità.
5. Qualche conclusione
Credo di immaginare le possibili obiezioni che i sostenitori del sistema vigente muoverebbero contro i miei precedenti asserti. Contro un’ulteriore osservazione non credo però opponibile alcuna obiezione. Invero, attraverso il collegamento indissolubile fra protezione e premiazione e attraverso la decisività del parere del Pubblico Ministero all’ingresso e al mantenimento del programma — che costituisce il lasciapassare per la premiazione illimitata —, il sistema è pervenuto a statuire l’assurdo, che, cioè, sia una parte del processo — il Pubblico Ministero, appunto — a esprimere un parere fondamentale in ordine alla meritevolezza della premiazione per la collaborazione prestata. Ove non è chi non veda quale distorsione sia arrecata ai princìpi essenziali dell’equo processo fra parti in posizione di tendenziale parità, rispetto a cui sta il giudice terzo e indipendente. I soggetti centrali dell’attuale processo — i cosiddetti collaboratori di giustizia — acquisiscono titolo a una premiazione senza limiti non sulla base dell’esito — giudizialmente accertato — dell’autenticità e dell’affidabilità dell’informazione da loro fornita all’Autorità giudiziaria, bensì sulla base della decisione di una Commissione Centrale che opera in base al parere in merito fornito da una parte del processo interessata, come parte, a che sia riconosciuta la credibilità e l’affidabilità delle dichiarazioni che a essa parte sin dall’origine sono state rese. Né sono previste fattispecie di revoca del programma di protezione su base oggettiva, all’esito e in conseguenza dell’eventuale menzogna accertata e riscontrata. Di qui il rischio che il collaboratore, una volta sorpreso a compiere delitti durante la fruizione del programma, ovvero sorpreso in flagrante menzogna su alcuni punti delle sue dichiarazioni, ritorni dal Pubblico Ministero e rilanci nuovamente o calibri diversamente le accuse precedentemente mosse, nell’evidente interesse di acquistarsi presso il Pubblico Ministero nuove benemerenze che cancellino il peso negativo dei precedenti infortuni. Una siffatta condizione non giova alla serenità dei processi e all’accertamento della verità, e introduce distorsioni profonde nell’amministrazione della giustizia.
Il tema porterebbe lontano e non può qui essere svolto. Stupisce soltanto che ogni prudenza nell’acquisizione e nell’utilizzo processuale della delazione sia stata abbandonata.
Nel diritto antico — quel diritto processuale inquisitorio che tanto è stato vituperato — la chiamata di correo era valutata con estremo sospetto, la delazione o chiamata in reità de relato restava confinata nei rapporti di polizia sotto la voce “fonte anonima degna di fede ha riferito”, e non entrava come fonte probatoria a formare la prova di colpevolezza a carico dell’accusato. Il Codice Criminale degli Stati Estensi, promulgato nel 1855, stabiliva che la chiamata in correità pertineva al settore della prova per indizi ed era riconosciuta idonea a integrare la prova allorché: a. l’incolpazione provenisse da tre correi; b. i correi non avessero ottenuto l’impunità; c. avessero confessato limpidamente contro se stessi, in modo che la loro incolpazione non tendesse a togliere o diminuire il proprio delitto rifondendolo in tutto o in parte sopra colui che incolpano; d. il loro detto fosse verosimile per la qualità dell’incolpato; e. che l’incolpazione fosse chiara e dettagliata nelle sue circostanze di cosa, luogo, tempo, modo e persone; f. che nessuna delle circostanze sostanziali restasse esclusa dal processo, e tutte poi rimanessero per quanto sia possibile verificate; g. che i deponenti correi non emergessero nemici dell’imputato, né fossero altronde inabili a deporre in giudizio; h. che fossero costanti nel loro detto.
I tempi sono cambiati. La delinquenza si è fatta proterva oltre ogni limite e le persone che rappresentano le istituzioni sono spesso state conniventi con i criminali. Ma ciò, forse, non basta perché la prudenza sia abbandonata, gli autori dei delitti più gravi siano premiati e la parola degli uomini che hanno rappresentato le istituzioni, spesso con coraggio e grande senso di responsabilità, sia sistematicamente soccombente rispetto all’affabulazione interessata di coloro che ammantano con il pentimento l’intento di sfuggire al castigo delle proprie colpe.
Mauro Ronco
* Relazione del professor avvocato Mauro Ronco, ordinario di Diritto Penale nell’università di Modena, al Convegno nazionale di studi sulla criminalità organizzata, tenuto a Torino nell’aula consiliare del Consiglio Regionale, a Palazzo Lascaris, e promosso dalla Camera Penale del Piemonte e Valle d’Aosta e dall’Unione delle Camere Penali Italiane, con il patrocinio della Presidenza del Consiglio Regionale e del Comune, e con la collaborazione dell’Ordine degli Avvocati del capoluogo piemontese, nei giorni 21 e 22 novembre 1997. La relazione è stata svolta il 21 novembre con il titolo Criminalità organizzata e misure premiali.