Mauro Ronco, Cristianità n. 363 (2012)
Intervento, riveduto e annotato, al convegno su 1861-2011. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identità?, organizzato il 12-2-2011 a Roma, nella Sala della Protomoteca in Campidoglio, da Alleanza Cattolica; cfr. Andrea Bartelloni, 1861-2011. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identità? Roma, 12 febbraio 2011, in Cristianità, anno XXXIX, n. 354, gennaio-marzo 2011, pp. 45-48.
1. La concordia politica
Domingo de Soto (1494-1560), giurista domenicano ispanico del Siglo de Oro, scrive icasticamente in De Iustitia et iure: “In due modi si può essere tiranno, o nel modo di pervenire al potere, o nell’esercizio del potere, anche quando lo si sia guadagnato giustamente” (1).
La legittimità d’esercizio è superiore alla legittimità d’origine. Se la legittimità d’esercizio viene meno nel governante in modo pertinace e costante, si distrugge perfino la legittimità d’origine. Ma il potere illegittimo nell’origine può diventare legittimo grazie al suo giusto esercizio (2). La discriminante dei regimi legittimi da quelli che ne costituiscono la corruzione sta nell’ordinazione dell’esercizio del potere al bene comune (3).
La legittimità d’esercizio del potere, dunque, è condizione indispensabile per il conseguimento e la fruizione della pace interna dello Stato, secondo una formalità che può compendiarsi nel concetto di concordia politica. Dice Aristotele (384/383-322 a.C.) che l’unione politica fra gli uomini, grazie a cui si genera lo Stato, è, in definitiva, frutto della concordia. Il termine usato da Aristotele è homόnoia (4). San Tommaso (1225 ca.-1274) usa la parola “concordia”, che ha come radice la parola cuore, cor-cordis, a cui si aggiunge come prefisso la preposizione “con”. L’allusione al cuore indica che la concordia si riferisce a un’attitudine interiore affettiva, che implica la consapevolezza di una certa congruità dei fini particolari di ciascuno con il bene comune. “In effetti — dice san Tommaso —, l’amicizia politica ha per oggetto ciò che è utile e che interessa l’umana esistenza, cose tutte che costituiscono l’oggetto della concordia” (5). È una forma simile, ma inferiore, all’amicizia, fondata sull’interesse e sulla convenienza reciproca a perseguire insieme uno scopo comune (6). La concordia include almeno tre cose: l’esistenza di un governo che garantisca una ragionevole vita economica e assicuri una certa sicurezza; l’esistenza di un tessuto di relazioni sociali fondate sulla giustizia, riconosciuto come vincolante dalla grandissima parte dei cittadini e abitualmente rispettato (7); infine, ma prima come importanza, una comunanza di tutti nel ricercare il bene, che permetta d’intendersi e di comunicare, di cui la lingua costituisce lo strumento basilare (8). Essenziale per la concordia è l’esistenza di un minimo di valutazioni e di giudizi sul senso della vita, sul valore delle tradizioni, sui fini dei singoli e dell’intera comunità politica (9).
La concordia, dunque, è quella condizione in forza della quale i cittadini concordano con i fini dello Stato in quanto congrui allo scopo di difendere e promuovere i diritti della famiglia e dei corpi intermedi nello svolgimento dei loro compiti fondamentali. La concordia non costituisce ancora il bene comune; ma è l’interesse comune, intessuto di convinzioni condivise, che permette di dirigere le condotte dei cittadini e la vita della comunità politica verso il bene comune. Questo si realizza dinamicamente, in modo più o meno compiuto, lungo il corso della storia, a partire da un minimo. Questo minimo è la concordia (10).
2. La discordia politica e le sue cause determinanti
Il vizio di fondo dello Stato italiano consiste nell’essersi costituito contro la concordia politica, contro questa forma minore di amicizia, che postula il rispetto di tutti verso le tradizioni e le convinzioni fondamentali di un popolo.
L’Italia nasce il 17 marzo 1861, in forza di un giudizio di “delegittimazione”, radicale e senza appello, della tradizione religiosa cattolica e delle tradizioni culturali e sociali che avevano unito la grandissima parte delle popolazioni italiane, pur vissute nell’ambito d’istituzioni politiche e sociali diverse. Questa radicale “delegittimazione” del passato e dello stesso presente storico, che trasforma in “nemica” la grande maggioranza del popolo, se non vale, per un verso, a fornire una vera legittimazione alla classe politica risorgimentale, è causa, per altro verso, di quella endemica tendenza al conflitto, fra “Stato” e “antistato”, fra “paese legale” e “paese reale”, che non ha consentito mai si stabilisse in Italia quella concordia indispensabile per il perseguimento organico del bene comune (11).
La mancanza di concordia politica nel nuovo Stato ha una causa ulteriore. Proprio Giuseppe Garibaldi (1807-1882) e Giuseppe Mazzini (1805-1872), le due icone del Risorgimento italiano, diventano, non appena l’Italia viene proclamata, nemici feroci del nuovo Stato, la cui classe dirigente — che avrebbe costituito la cosiddetta Destra Storica, al governo fino al 1876 — essi considerano, fin da subito, traditrice delle idealità risorgimentali e le cui istituzioni e la cui legalità essi prendono a disprezzare e a infrangere.
Nel decennio 1860-1870 la salute di Mazzini declina inesorabilmente. Ma, come nota Enrico Verdecchia: “Non era la cattiva salute a ucciderlo. Proprio quando, con l’unificazione d’Italia, aveva visto all’improvviso avverarsi il sogno cui aveva dedicato tutta la vita e poteva aspettarsi un momento, se non di gloria almeno di soddisfazione, gli erano piombate addosso le peggiori delusioni della sua vita” (12). Riprende perciò a cospirare contro l’Italia (13). Nel 1870, approfittando della confusione provocata dalla guerra franco-prussiana, tenta la carta disperata della sollevazione in Sicilia per dare il via a una rivoluzione repubblicana in Italia. Ma, arrivato a Palermo il 13 agosto, venne arrestato dal suo ex seguace Giacomo Medici, marchese del Vascello (1817-1882), divenuto governatore militare della Sicilia. Rinchiuso nel forte di Gaeta, viene liberato con l’amnistia del 9 ottobre 1870 (14).
Per quanto riguarda Garibaldi, la sua patologica megalomania e la sua irrefrenabile indisciplina lo conducono a infrangere più volte la legalità costituzionale e a offendere crudelmente i rappresentanti delle istituzioni. Sintomatici della sua permanente attitudine illegale sono i tentativi di conquistare Roma con la violenza, sfociati dapprima nella ignominiosa disfatta sull’altipiano dell’Aspromonte il 29 agosto 1862, per opera delle truppe governative, comandate dal generale Enrico Cialdini (1811-1892), e poi a Mentana, ove il piccolo esercito del Papa, con il supporto dei francesi, mette valorosamente in rotta le truppe garibaldine il 3 novembre 1867. Quanto alle ingiurie, che egli scaglierà contro i responsabili delle istituzioni fino alla morte, basti ricordare, fra tutte, l’accusa a Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), nella seduta parlamentare del 18 aprile 1861, di aver tramato contro l’”armata meridionale”, da lui comandata, con il rischio di provocare una “guerra fratricida” (15).
L’accusa di tradire il Risorgimento, peraltro, è stata sempre brandita dall’ala rivoluzionaria come minaccia contro i rappresentanti più moderati del nuovo Stato, impedendo, per molti decenni, con una sorta di ricatto morale, la formazione di un partito conservatore disponibile alla pacificazione nazionale. Tutti sono, in qualche modo, costretti a rimanere “rivoluzionari”, nonostante la constatazione dei danni provocati dalla rivoluzione, per non lasciarsi schiacciare dall’onda della “delegittimazione” derivante dal sospetto di simpatizzare con il mondo cattolico. Questo era il nemico che tutti avevano il dovere di combattere. Il “partito clericale” era il nemico, contro cui — scrive su Il Diritto del 3 novembre 1861 Antonio Mordini (1819-1902), garibaldino ed ex prodittatore della Sicilia nel 1860 — “[…] se armati, noi dobbiamo combattere con le armi; colle leggi di pubblica sicurezza se disarmati. E attentamente dobbiamo inoltre vegliare perché sian tutti allontanati dai pubblici uffizi, e niuno introdotto di nuovo” (16).
La discordia, dunque, è il veleno che guasta in modo indelebile il profilo costituzionale dell’Italia unita, poiché la discordia porta in rovina gli Stati, come insegna la Scrittura: “Ogni regno discorde cade in rovina, e nessuna città o famiglia discorde può reggersi” (Mt. 12, 25). La discordia con il popolo e le sue tradizioni; la discordia velenosa nel campo dei vincitori caratterizzano irrimediabilmente la divisione del regno.
3. L’unità italiana: l’illegittimità di origine
I rilievi sopra svolti servono a inquadrare il tema concernente le istituzioni di governo dello Stato unitario scaturito dal processo storico detto Risorgimento (17). La prima questione concerne la legittimità di origine del nuovo Stato e la continuità o la discontinuità di esso con i regimi precedenti. L’aspirazione all’unità di governo in una struttura federativa delle varie comunità politiche italiane era presente in larga parte degli strati intellettuali della Penisola che riflettevano sull’avvenire della patria (18). L’unità federativa in un governo comune costituiva altresì un’esigenza politica, giuridica ed economica allo scopo di competere, in condizioni di relativa equità, con le altre grandi comunità politiche europee, che si avvalevano di governi insistenti su basi territoriali, sociali ed economiche vaste e relativamente omogenee. Inoltre, una certa unità federativa delle comunità politiche dell’Italia era ampiamente giustificata dalla comunione delle popolazioni nella fede cattolica e nella ricca cultura civile dalla fede scaturita, soprattutto evidente nella saldezza dei vincoli familiari e nella fecondità della vita municipale. Peraltro, la multisecolare esperienza di progresso generato dalla collaborazione stretta fra le istituzioni politiche e l’operosità caritativa della Chiesa e delle congregazioni religiose era valsa a costituire in luoghi innumerevoli d’Italia una rete saldissima di solidarietà sociale, che suppliva, in modo omogeneo su tutto il territorio, alle carenze dei governi nel campo dell’assistenza.
Il Regno di Sardegna possedeva anche titoli giuridici, politici e militari per farsi promotore di una unificazione federativa dell’Italia (19).
L’ipotesi federativa, tuttavia, non viene perseguita. Non è possibile entrare nel merito delle complesse ragioni politiche che indirizzano il governo sardo-piemontese a seguire un percorso di tipo quasi esclusivamente diplomatico-militare, concretizzatosi, per un verso, nell’alleanza con la Francia di Napoleone III (1808-1873) contro l’Impero Austriaco, e, per un altro verso, nel complotto e nell’aggressione militare contro il Regno delle Due Sicilie. Sta di fatto che la conquista militare dell’antico e glorioso regno meridionale costituisce un’ingiustizia gravissima: è, infatti, ottenuta grazie a una guerra doppiamente ingiusta, perché non dichiarata e perché di aggressione, condotta irregolarmente dalle bande di Garibaldi, sostenute in modo determinante dal governo sabaudo (20). È, inoltre, frutto di un complotto internazionale, anticattolico sul piano religioso e antiborbonico su quello politico, guidato dalla Gran Bretagna (21). Nel triste decennio successivo, poi, la debellazione militare dello Stato Pontificio infligge un’altra grave ferita all’unità dell’Italia, rimasta a lungo aperta, causando una frattura verticale fra la grande parte del popolo, legata all’insegnamento della Chiesa, e la sottile élite che aveva assunto l’egemonia del processo rivoluzionario.
Tali ferite segnano l’inequivocabile illegittimità di origine del governo unitario italiano, che risulta palese dalla contraddizione tra forma costituzionale e realtà politica nel nuovo Stato. Per quanto, infatti, esso sia sorto da un processo rivoluzionario, l’assetto costituzionale viene presentato nei termini di un mero allargamento dello Stato sabaudo. Lo riconosce Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), giurista della scuola liberale di diritto pubblico, nei Principii di diritto costituzionale (22). Pur con il consueto travisamento storico dei fatti del 1859-1860, Orlando mette in evidenza la contraddizione fra origine rivoluzionaria del nuovo Stato, dunque la sua “costituzione materiale”, e la sua “costituzione formale”: “L’odierno Stato italiano, quantunque nel fatto sorto da un procedimento rivoluzionario, tuttavia, formalmente, si venne costituendo per mezzo dell’allargamento successivo di un piccolo Stato, il quale aveva davvero una vita secolare. Sia per mezzo di volontarie annessioni di popoli, che avevano cacciato i loro antichi sovrani, sia per mezzo di annessioni conseguite con la forza delle armi o con trattati internazionali nel 1859, 1860, 1866, 1870, l’antico Regno di Sardegna venne a poco a poco estendendosi sull’Italia tutta, proclamandosi Regno italiano nel 1861. E fu allora che con grande senno politico questa continuità dello Stato, sia pure formale, dappoichè altrimenti non poteva conseguirsi, venne gelosamente curata, non mutandosi nel nome del Re il numero relativo alla serie dei suoi predecessori e collegando la serie delle legislature parlamentari con quella del Parlamento subalpino” (23).
4. L’impoverimento istituzionale dell’Italia
Lo Stato, inteso come società politica, merita il primato sullo Stato inteso come governo, poiché quest’ultimo svolge una funzione di servizio rispetto alla società. Articolata organicamente e ascensionalmente nei vari corpi intermedi, dalla famiglia al municipio alla provincia, dal sindacato alle camere di commercio e dell’industria agli ordini professionali, dagli istituti d’istruzione e di educazione inferiore e superiore all’università, la comunità politica — lo Stato come società perfetta — esercita compiti e attività di rilievo pubblico, e non soltanto privato, perseguendo il bene comune. Il governo ha compiti d’integrazione, di coordinamento e di controllo, nonché di difesa e di protezione della comunità, rappresentandola anche storicamente, sia sul piano simbolico, esprimendo il segno di riconoscimento della concordia generale (24), sia nel concerto internazionale, ove il governo difende e promuove l’unità politica e gl’interessi finanziari ed economici della società, se necessario e a ben precise condizioni, anche con la forza militare.
Nel caso dell’Unità d’Italia è occorso il contrario di quanto dovrebbe accadere, poiché il governo si è sovrapposto alla comunità, schiacciandola e indebolendola nella sua forza vitale. Ciò è accaduto con particolare virulenza nel sud del Paese, provocando così la nascita della Questione Meridionale, tanto che già nel 1861 il giurista Pasquale Stanislao Mancini (1817-1887), storico delle nazionalità, lamentava che le modalità di annessione dell’ex Regno delle Due Sicilie avevano provocato “una lesione troppo estesa e profonda” (25) a causa della “sistematica e non graduata demolizione di un’immensità di istituzioni, di interessi, di amministrazioni” (26).
Una parte cospicua della nuova Italia, invero, viene improvvisamente privata del riferimento politico-istituzionale costituente il segno della propria unità e il fondamento della concordia politica. Questo fenomeno è particolarmente esiziale per le classi inferiori e popolari che restano, in qualche modo, politicamente orfane. Mentre, infatti, la borghesia delle professioni riesce a inserirsi nel circuito istituzionale dello Stato unitario e la borghesia degli affari trae enormi profitti dalla vendita dell’asse ecclesiastico, si produce una frattura profonda fra lo Stato e larghissima parte della popolazione minuta, soprattutto quella rurale.
Sta probabilmente in questa frattura l’origine dei problemi che hanno il loro epicentro nel fenomeno della criminalità organizzata, soprattutto in regioni come la Calabria e la Sicilia, ove l’annientamento, ai vari livelli istituzionali, delle magistrature politiche preesistenti, spesso di antica tradizione feudale, convoglia l’istanza di protezione politica, che proviene naturalmente da qualsivoglia corpo sociale, verso consorterie pseudo-iniziatiche completamente estranee all’ambito della legittimità istituzionale, nonché sorde al richiamo della legge.
In secondo luogo, l’accentramento politico nella sola classe dirigente piemontese e l’unicità del riferimento istituzionale in Casa Savoia determinano la provincializzazione delle gloriose capitali politiche che costellavano l’Italia. Si pensi a ciò che avevano rappresentato nel mondo la Repubblica di San Marco e il Regno di Napoli, la prima nelle feconde relazioni con l’Oriente, la seconda in tutto il Mediterraneo, soprattutto nei rapporti con la Spagna e con le sue proiezioni nelle Americhe. Nell’ambito del regno meridionale, molteplici erano, oltre a Napoli, i centri d’irradiazione religiosi, culturali e commerciali. Nella Puglia possedevano tradizioni immemorabili e risorse grandissime tanto la città di Bari, con la tradizione di San Nicola, quanto la città di Lecce e le terre del Salento, con la tradizione dei Martiri di Otranto. In Sicilia, le città di Palermo e di Messina, con una mirabile tradizione politica e culturale, mantenevano relazioni politiche di rilievo con la Spagna e con le terre africane del Mediterraneo centrale e occidentale.
L’unità risorgimentale fa venir meno dei poli istituzionali di grande rilievo nel contesto internazionale, onde l’Italia viene privata di proiezioni e di riconoscimenti densi di significato storico e forieri di promettenti sviluppi economici soprattutto nell’Oriente europeo, nonché nelle terre bagnate dal Mediterraneo, ove Venezia, Napoli, Messina e Palermo avevano esercitato per secoli ruoli gloriosi. Se si tiene conto, poi, che vengono ridotte a province, fra le altre, anche Milano, Genova, Parma, Modena, Bologna, Pisa e Firenze, città che nei secoli avevano tutte svolto un ruolo di capitale politica o di centro universale di cultura, è evidente l’impoverimento politico-istituzionale del nuovo regno unitario. All’ingrandimento territoriale fa da contraltare un regresso sul piano rappresentativo costituzionale, con proiezioni meno propizie allo svolgimento di un ruolo internazionale veramente efficace nel concerto europeo e mediterraneo.
5. La lotta contro la Chiesa: gl’inizi della persecuzione
La permanente ostilità contro la Chiesa cattolica costituisce il tratto comune della politica ecclesiastica dello Stato unitario italiano.
Questa ostilità presenta un versante specificamente giuridico, con rilevanti ricadute sul piano sociale ed economico. Va ricordato che i rapporti fra le istituzioni di governo e le istituzioni religiose sono riconducibili nei tempi moderni alle tre categorie del giurisdizionalismo, del separatismo e della coordinazione nell’ambito di concordati. Il regime giuridico che caratterizza lo sviluppo dei rapporti fra lo Stato unitario e la Chiesa è ispirato al separatismo, anche se le leggi eversive antiecclesiastiche del 1848, 1850 e 1855 nel Regno di Sardegna, del 1866 e 1867 nel Regno d’Italia, rientrano, per l’intromissione governativa nell’organizzazione ecclesiastica, nel solco della tradizione giurisdizionalista, alla cui stregua il governo si arroga la competenza di giudicare quali enti ecclesiastici siano utili alla società e quali no, ovvero si ritiene dominus, in ultima istanza, dei beni di tali enti.
Il corso politico vigorosamente antiecclesiastico ha origine nello Stato sardo-piemontese con la legge 25 agosto 1848, n. 777, che sopprime la Compagnia di Gesù e la congregazione delle Dame del Sacro Cuore di Gesù. Con tale legge viene negata non soltanto la personalità giuridica all’ordine dei Gesuiti, ma sono negati agli appartenenti all’ordine anche il diritto di associazione e di riunione. Il momento drammatico di rottura fra la Chiesa e il Regno di Sardegna è riconducibile al 1850, allorché il ministero, guidato da Massimo Taparelli d’Azeglio (1798-1866), ed essendo ministro per gli Affari Ecclesiastici e di Grazia e Giustizia Giuseppe Siccardi (1802-1857), fa approvare dalla Camera provvedimenti normativi di laicizzazione dello Stato, cancellando le posizioni di privilegio riconosciute fino ad allora, in virtù dei concordati, alla Chiesa cattolica. Vengono così aboliti il Foro ecclesiastico e l’immunità ecclesiastica; le Opere pie sono avocate allo Stato; sono ridotte le feste religiose e vengono poste le premesse legislative per la futura introduzione del matrimonio civile; gli enti ecclesiastici sono privati della capacità di acquistare senza autorizzazione governativa (27).
L’arcivescovo di Torino, mons. Luigi Fransoni (1789-1862), opponendosi all’unilateralità con cui tali misure erano state prese, invia ai parroci una circolare, datata 18 aprile 1850, invitandoli a non rinunciare volontariamente alle prerogative ecclesiastiche, in attesa che la Santa Sede desse opportune istruzioni in ordine al rispetto degli obblighi discendenti dalle leggi ecclesiastiche e dai concordati con lo Stato (28). Il governo e la magistratura piemontese perseguono allora penalmente l’arcivescovo, incarcerandolo nella Cittadella di Torino e condannandolo alla pena del carcere per un mese (29). In seguito alla vicenda della “ritrattazione”, in punto di morte, di Pietro De Rossi di Santa Rosa (1805-1850) circa il suo operato come ministro in relazione alle leggi Siccardi, l’arcivescovo di Torino viene dapprima perquisito, arrestato e imprigionato nel forte di Fenestrelle e, successivamente, con decreto del 25 settembre 1850, bandito perpetuamente dal regno. I beni della mensa vescovile vengono sottoposti ad amministrazione regia (30).
I rapporti fra lo Stato e la Chiesa, a seguito di tali vicende, sono gravemente pregiudicati. Nel decennio seguente, detto della “preparazione”, la persecuzione legislativa e amministrativa contro la Chiesa è costante, alimentata in modo via via crescente sia dall’ammassarsi in Torino di cospiratori, prevalentemente di scuola mazziniana e provenienti dalle varie parti d’Italia, sia dalle campagne diffamatorie contro la Chiesa condotte da un’aggressiva stampa anticlericale.
6. La lotta contro la Chiesa: l’eversione del patrimonio ecclesiastico
Vanno ricordate le leggi eversive degli enti e delle proprietà ecclesiastiche, che si susseguono in un continuum incessante dal 1855 alla fine del secolo (31). La legge 29 maggio 1855, n. 878, distinguendo fra enti ecclesiastici utili e inutili, sopprime le congregazioni religiose di vita contemplativa, i capitoli collegiati senza cura di anime e i benefici semplici. Il decreto luogotenenziale 7 luglio 1866, n. 3036, sopprime tutte le associazioni religiose, incamerandone il patrimonio, e converte in rendita pubblica al cinque per cento i beni di tutti gli altri enti ecclesiastici, eccettuati i benefici parrocchiali; il motivo contingente addotto è la necessità del finanziamento della Terza Guerra d’Indipendenza. La successiva legge 15 agosto 1867, n. 3848, sulla stessa linea, sopprime varie categorie di enti ecclesiastici secolari, devolvendone allo Stato i beni, e provvede alla liquidazione dei beni acquisiti con tale legge e con le precedenti.
Con la debellatio dello Stato Pontificio e la presa di Roma, le prerogative del Sommo Pontefice e i rapporti fra lo Stato e la Chiesa vengono regolati unilateralmente dalla legge 13 maggio 1871, n. 214, detta delle Guarentigie, che mescolava princìpi separatisti con princìpi giurisdizionalisti, ritenendosi lo Stato comunque competente a dettare in modo unilaterale le norme attinenti alle “garanzie” offerte alla Santa Sede e al Papa. Non cessa, poi, l’emanazione di ulteriori leggi eversive dei patrimoni ecclesiastici o dei patrimoni d’istituti laici d’ispirazione religiosa costituiti a scopi di educazione e di beneficenza. Con la legge 19 giugno 1873, n. 1402, vengono estese alla provincia di Roma le leggi eversive del 1866 e del 1867. Con il regio decreto 7 novembre 1877, n. 4182, sono riorganizzati gli economati generali dei benefici vacanti, per l’incameramento delle rendite dei benefici ecclesiastici rimasti senza titolare. Con la legge 17 luglio 1890, n. 6972, sulle istituzioni pubbliche di beneficenza, avviene la completa laicizzazione delle Opere pie. Su di esse e sui loro patrimoni erano già intervenute precedenti leggi eversive, in particolare quella del 3 agosto 1862, n. 753, che aveva imposto pesantemente la mano pubblica sugli enti, estendendo l’area del controllo e dell’intervento pubblico, fino a prevedere la possibilità di riforma dell’Opera pia, “[…] quando “venisse a mancare il fine” (art. 23)” (32), pretesto, spesso, per l’incameramento pubblico del patrimonio.
Senonché le riforme compiute avevano provocato un vero disastro, come era emerso dall’inchiesta condotta da una commissione reale nominata con decreto del 3 giugno 1880. Francesco Crispi (1818-1901) presenta alla Camera il 18 febbraio 1889 un progetto di riforma, divenuto poi legge nell’anno successivo, volto a concentrare in un ente civile — la Congregazione di Carità, poi trasformato in ente comunale di assistenza — tutte le istituzioni elemosiniere. Vengono trasformate in civili le più svariate categorie di enti e d’istituti ecclesiastici d’istruzione, di beneficenza e di assistenza. La legge, approvata nella fase storica denominata dell’“euforia crispina” (33), costituisce un modello, forse insuperato e insuperabile, d’ideologismo anticattolico e d’inettitudine politico-sociale. Crispi attribuisce alla riforma della beneficenza un rilievo ideologico che sorpassava di gran lunga il bisogno di razionalizzare un settore di grande rilievo per il benessere degli strati poveri della popolazione. Egli la considera una decisiva battaglia contro lo strascico dei pregiudizi lasciati dal cattolicesimo. Sfidando la Chiesa cattolica sul terreno dell’educazione e dell’assistenza, egli vuol trasferire allo Stato tutti i poteri in tali materie, sottraendoli alla Chiesa.
La legge crispina, contro il parere della commissione d’inchiesta, che riteneva il passo difficile e pericoloso, prevede la trasformazione delle Opere pie “[…] quando fosse mancato il fine propostosi dal fondatore, quando esso non corrispondesse più a un bisogno sociale, quando fosse destinato a persone non incapaci ad aiutarsi da sé e quando fosse resa inutile o superflua” (34); quando, quindi, lo Stato ritenesse discrezionalmente di sopprimere l’Opera in relazione alla non più gradita sua finalità originaria. Subiscono il taglio della scure di Crispi, fra le altre, le Opere pie dotali, le fondazioni di soccorso per i detenuti e i condannati, gli ospizi dei pellegrini, e, soprattutto, le confraternite. Riguardo a queste ultime Crispi proclama: “non si può riconoscere un carattere di utilità pubblica in enti che, salve poche eccezioni, hanno per fine lo spettacolo di funzioni religiose, cause ed effetto, di fanatismo e di ignoranza […]. Sono continui e gravi gli inconvenienti d’ordine morale, politico e sociale a cui esse dànno luogo nell’esercizio della propria azione. Sono in una parola più dannose che utili alla società. Si calcola che le confraternite abbiano un patrimonio di 100 milioni, con una rendita annuale di circa 5 milioni e mezzo, di cui solo un quinto verrebbe erogato in beneficenza ed il resto negli scopi su enunziati. Sarà una grande risorsa per le classi povere la destinazione della totalità di questa rendita cospicua a scopi sociali” (35). Egli ritiene che, spostando l’ingente capitale delle Opere pie dal controllo della Chiesa e delle confraternite alle mani statali, con un energico intervento dall’alto, possa risolversi il cruciale problema sociale. Nonostante le gravi perplessità che nei due rami del Parlamento vengono avanzate contro la riforma, Crispi proclama che essa è necessaria “nell’interesse della giustizia che esige una razionale, onesta, severa gestione del patrimonio delle classi diseredate; [necessaria] nell’interesse politico e sociale, che ne impone recisamente di curare la sorte dei proletari con un indirizzo più pratico e serio di quello seguito sinora” (36).
Le ricadute sociali delle leggi eversive del patrimonio ecclesiastico e degli enti di origine e pertinenza di istituzioni facenti riferimento alla Chiesa sono immensamente pregiudizievoli per gli strati diseredati della popolazione, che vengono privati del sostegno costante, ordinato e capillare della solidarietà sociale ed economica ispirata alla carità cristiana. L’assetto dell’assistenza, invero, venuto meno l’apporto tradizionale della Chiesa e delle istituzioni di fondazione ecclesiastica, pur dotato di risorse non irrilevanti, rimane per lungo tempo inefficace, perché il sistema svolgeva le funzioni conferite largamente al di sotto delle sue potenzialità. Continue lamentele, cui seguivano periodiche inchieste, regolarmente disattese sul versante dei rimedi, attestano che le Opere pie pubblicizzate sperperavano “i denari del povero” nell’ingrossare le burocrazie referenziali al sistema dei partiti e nel dilatare spese elettoralmente e clientelarmente redditizie, con l’ingerenza dei partiti nella loro amministrazione. Il controllo statale è blando e scarsamente efficace. Secondo Francesco Saverio Nitti (1869-1953), a Napoli, il partito che era a “capo delle opere pie” (37) vinceva le elezioni.
7. Il modello “statocentrico” di Stato
Il modello specificamente giuridico impiantato dalla classe politica post-risorgimentale, sia di “destra” che di “sinistra”, è stato definito di tipo “statocentrico” (38). In tale modello si assiste al rovesciamento del rapporto corretto, definito dalla sussidiarietà, in senso aristotelico e cristiano, fra lo Stato e le articolazioni variegate e complesse della società civile, che alimentano la vita dello Stato e che non debbono essere soffocate. L’esperienza giuridica, nel modello liberale dello Stato unitario, parte invece dall’alto. Ciò che sta in basso, al di sotto dello Stato apparato, non possederebbe la nota della giuridicità. Il complesso dei rapporti, intrinsecamente giuridici, delle società intermedie viene trattato dallo Stato come materia bruta da forgiarsi con lo strumento della legge e da organizzarsi con la decretazione amministrativa.
Lo Stato apparato è al centro del nuovo modello giuridico, sia come motore della costruzione della nuova comunità politica, sia come obiettivo principale dell’opera legislativa. Si prendano in esame le riflessioni di Vittorio Emanuele Orlando, in cui i connotati logici del rapporto “statocentrico” fra Stato come governo e Stato come comunità civile hanno trovato, nel momento del passaggio fra l’età crispina e l’età di Giovanni Giolitti (1842-1928), completo sviluppo nell’ambito della scuola giuspubblicistica dominante. Per Orlando alle origini di tutto il diritto v’è lo Stato sovrano. Rifacendosi al pensiero del giuspubblicista tedesco Karl Friedrich Gerber (1823-1891), che assorbe il popolo nello Stato come unità etica totale, come persona giuridica, sviluppando fino alle estreme conseguenze giuridiche il liberalismo autoritario di Georg Wilhem Friedrich Hegel (1770-1831), Orlando considera che “[…] la sovranità corrisponde, in rapporto all’organismo dello Stato, al cartesiano cogito, ergo sum“ (39). Il cogito, trasportato dall’individuo allo Stato, diventa iubeo. Lo Stato esiste in quanto comanda e in quanto ha la forza di far rispettare il suo comando. Allo stesso modo in cui il cogito è all’origine di tutta la conoscenza, lo iubeo dello Stato è la condizione di esistenza dell’intera sfera della giuridicità.
La similitudine fra il cogito e lo iubeo esprime in modo evidente il fondamento del nuovo Stato nel principio d’immanenza. Tale principio si presenta, in primo luogo, in sede gnoseologica nell’opera di René Descartes (1596-1650), con la negazione dell’intenzionalità del conoscere rispetto all’oggetto reale e la sua riduzione all’immanenza di un atto di coscienza, che non ha come termine od oggetto referenziale qualcosa che trascenda l’immanenza vitale dell’atto di coscienza. Lo iubeo, inteso come cominciamento dello Stato, definisce la sovranità in quanto potere di autonomia assoluta, che non riconosce al di sopra e prima di sé né la legge divina eterna né i princìpi di diritto naturale, né la complessità delle realtà sociali, dalla famiglia al municipio, che si costituiscono giuridicamente in relazione alla essenziale giuridicità di ogni relazione fondata sulla giustizia.
Il diritto scaturisce dallo Stato, in una concezione rigidamente positivistica, che ha provocato ricadute negative di lungo periodo fra lo Stato e i cittadini, onde il diritto è stato visto spesso, invece che una risorsa per la certezza delle relazioni fra le persone, un ostacolo alla realizzazione degli scopi lecitamente perseguiti dai cittadini e dai corpi di autonomia territoriale e sociale. La società, nel pensiero del diritto pubblico liberale che orienta lo Stato unitario, non ha esistenza giuridica fino a quando le relazioni molteplici che ne costituiscono l’esistenza non siano regolate da norme obbligatorie emanate e garantite dalla forza superiore dello Stato. Il suo scopo è la costruzione e il mantenimento di sé stesso, con la progressiva giuridicizzazione, secondo un processo burocratico che va dall’alto verso il basso, della rete immensa dei rapporti che si sviluppano incessantemente ai vari livelli della società. In questa chiave positivistica si comprende come le società intermedie, private della originaria autonomia normativa, siano progressivamente destinate a perdere la loro vitalità (40). La società, vista come la sfera del privato, di ciò che sarebbe giuridicamente inesistente, diventa destinataria del “progetto” di coscientizzazione liberale, sul piano morale e spirituale, culturale ed economico, che è sintetizzabile nell’opera di costruzione di una nuova società. Viene qui in considerazione il compito di “fare gli italiani” che la classe dirigente unitaria assegna al nuovo Stato, soprattutto attraverso l’insegnamento e la religione civile laicistica, moralistica e patriottarda (41).
In questo quadro ha estremo rilievo il processo di pubblicizzazione che riguarda il sistema scolastico e di cultura universitaria. La legge Casati — dal nome del suo autore, marchese Gabrio Casati (1798-1873) — approvata il 13 novembre 1859, poi estesa gradualmente al Regno d’Italia, è ispirata a idee rigidamente stataliste (42). In particolare, la statizzazione delle università, da allora in avanti funzionanti come istituti governati e diretti dallo Stato, viene realizzata per estromettere dall’istruzione superiore la Chiesa e le congregazioni religiose, le uniche che avevano le strutture, i professori e i metodi d’insegnamento adeguati per impartire un insegnamento a livello universitario. L’intero sistema scolastico, sia superiore che inferiore, con eccezioni limitate ai settori della scuola materna e delle scuole professionali, viene strutturato in chiave rigidamente statale. La ragione di questa scelta è di tipo ideologico, conseguente all’orientamento laicistico della cultura dominante nei liberali, sia di “destra” che di “sinistra”, anche se in questi ultimi è più enfatica e invasiva l’opera compiuta affinché, attraverso la scuola, fosse sottratta ai genitori, ai parroci e alle congregazioni religiose l’influenza educativa sui giovani. In ogni caso, la pubblicizzazione della scuola corrisponde all’intento di sostituire all’educazione basata sui valori riconducibili alla tradizione classica e cristiana una nuova forma di educazione, che trasmettesse i “nuovi” valori del progresso incarnato dal Risorgimento.
8. Il modello “statocentrico” nel suo sviluppo
La stabilizzazione del modello “statocentrico” avviene attraverso un’opera che scontenta non soltanto le fasce di opinione pubblica che non si riconoscevano nelle forze di governo, ma altresì larga parte dei gruppi del potere dominante. Le insoddisfazioni per l’unità raggiunta e per la pratica organizzazione dello Stato determinano il passaggio del potere dalla Destra alla Sinistra, che governa ininterrottamente, sotto la guida, dapprima di Agostino Depretis (1813-1887), dal 1876 al 1887, e poi, con vari presidenti, ma soprattutto con Crispi, fino alla disfatta militare di Adua del 1896. Autorevoli studiosi hanno osservato che, con il governo della Sinistra, l’insopportabile carica statalista viene diluita attraverso il sistema politico del trasformismo (43). È la corruzione, dunque, ad aprire varchi più ampi fra lo Stato e la società, offrendo a quest’ultima, soprattutto nelle regioni meridionali del Paese, la possibilità di dare sfogo ad alcune esigenze, particolarmente sentite nel corpo sociale, attraverso una rappresentanza in Parlamento guadagnata in modo opaco. In questa prospettiva lo storico Raffaele Romanelli ha osservato che la pratica del trasformismo fu quasi una “forma originale di allargamento delle basi del regime attraverso una mediazione diffusa delle varie istanze e dei vari contrasti” (44). Il governo della Sinistra, che vede, fra l’altro, l’accentuazione della persecuzione culturale e amministrativa dei cattolici, è contrassegnato, secondo Romanelli, dalla mancanza d’identità culturale, presentandosi “agli occhi dei contemporanei come degenerazione dei meccanismi della rappresentanza politica, come “pseudo-parlamentarismo”” (45).
L’insoddisfazione per il “trasformismo” di Depretis provoca un irrigidimento del modello “statocentrico”, la cui attuazione viene consegnata, come per un estremo rimedio, all’ala giacobina della rivoluzione, rappresentata da Crispi, la cui impronta di governo è ben compendiata dall’espressione “Giacobinismo ordinatore” (46). L’idea di Stato di Crispi, che riassume l’ideologia liberale autoritaria, si compendia opportunamente nel testo di un suo appunto, trovato da Romanelli, ov’è scritto che “[…] “la divisione dei poteri è un avanzo della feudalità”, perché “è la scissione di quanto vi ha di più indivisibile, la volontà sovrana”” (47).
Le riforme del periodo crispino rafforzarono la centralizzazione dello Stato a scapito delle residue autonomie degli enti locali. Operano in questa direzione le leggi che accrescono il ruolo politico dei prefetti, determinando la subordinazione completa dei corpi di autonomia territoriali al governo, e che introducono misure repressive nel campo della sicurezza e dell’ordine pubblico, limitando pesantemente le stesse libertà “liberali”. Si tratta di aspetti assai rilevanti nella progressiva creazione dello Stato centralizzato. I poteri delle prefetture vengono sensibilmente accresciuti con la legislazione crispina del 1888-1889. Alle tradizionali funzioni di controllo dell’attività e della contabilità degli enti locali, di raccolta e di archivio dei dati e di selezione delle informazioni per il governo vengono aggiunte funzioni nuove, in particolare per l’applicazione delle complesse normative introdotte in materia di sanità pubblica e di assistenza, nonché di gestione dell’ordine pubblico con la tenuta e l’aggiornamento dei dati sugli oppositori politici (48). Per quanto riguarda l’organizzazione amministrativa, è ancora la legislazione di Crispi, alla fine degli anni 1880, ad accentuare il ruolo e la centralità del ministero dell’Interno come motore della legislazione, con funzioni incisive in campi cruciali quali la pubblica sicurezza, la sanità, l’amministrazione civile e i controlli sulla beneficenza e sull’assistenza, sulle elezioni e sugli enti locali (49).
Per quanto riguarda l’aspetto repressivo, se gli studiosi del diritto penale si sono frequentemente soffermati sull’impianto liberale che pervade il Codice del 1889, che porta il nome del suo ispiratore, il deputato bresciano della sinistra liberale Giuseppe Zanardelli (1826-1903), hanno tuttavia dimenticato il carattere immensamente antiliberale e quasi liberticida della legislazione eccezionale e speciale, dapprima introdotta per l’annientamento del cosiddetto “brigantaggio”, poi generalizzata per colpire varie forme minori d’illegalità. Il 15 agosto 1863 viene approvata la legge n. 1409 contro il “brigantaggio”, che attribuiva ai Tribunali militari la competenza a giudicare del reato di banda armata. La pena prevista all’art. 2 per il delitto di brigantaggio era la fucilazione, nel caso di resistenza armata alla forza pubblica; dei lavori forzati a vita per coloro che non opponessero resistenza, e per “ricettatori e somministratori di viveri, notizie ed ajuti di ogni maniera” (50). La stessa legge introduce la misura di polizia del domicilio coatto come strumento eccezionale e temporaneo. Tre anni dopo, la legge 17 maggio 1866, n. 2907, promulgata durante lo stato di emergenza conseguente alla Terza Guerra d’Indipendenza contro l’Impero d’Austria, estende il domicilio coatto, nel frattempo inserito nella legge di pubblica sicurezza del 1865, alle persone sospettate di adoperarsi “[…] per restituire l’antico stato di cose, o per nuocere in qualunque modo all’unità di Italia e alle sue libere istituzioni” (51). Infine, l’art. 3 della legge “Crispi” 19 luglio 1894, n. 316, nell’ambito della disciplina eccezionale e temporanea contro le rivolte dei Fasci siciliani e della Lunigiana e contro gli attentati anarchici, prevede l’invio al domicilio coatto di “[…] coloro che abbiano manifestato il deliberato proposito di commettere vie di fatto contro gli ordinamenti sociali” (52). Il controllo di polizia sui “sospetti”, con il domicilio coatto come strumento preventivo/repressivo assai incisivo, diviene così, da strumento eccezionale e temporaneo, uno strumento permanente di prevenzione/repressione al di fuori di un giusto processo (53).
Alla pressione insostenibile di un siffatto prevalente procedere del governo, la società politica, smembrata e privata delle sue articolazioni pulsanti, reagisce con modalità diverse, a seconda delle condizioni sociali di aggregazione e delle risorse a disposizione. Per un verso, una larga quota di uomini e di donne appartenenti ai ceti meno privilegiati è costretta all’emigrazione (54); per un altro verso, si affida alle utopie e alle false promesse del socialismo, determinando situazioni sempre più acute d’instabilità politica e sociale, nonché reazioni violente da parte dello Stato, culminate nella strage del 1898 a Milano, grazie a cui il generale Fiorenzo Bava Beccaris (1831-1924) stronca la rivolta popolare, e nella repressione delle associazioni cattoliche e socialiste. Il ministro dell’Interno Antonio Starabba marchese di Rudinì (1839-1908) scioglie oltre seimila associazioni cattoliche sotto l’accusa di sovversivismo, e i giornali cattolici che le difendevano sono colpiti e i direttori processati. Il sacerdote don Davide Albertario (1846-1902), direttore del quotidiano milanese L’Osservatore Cattolico, viene arrestato nella sua casa e condannato dalla Corte marziale a tre anni di reclusione e mille lire di multa (55).
Il modello “statocentrico”, in definitiva, fallace sul piano teorico, in aperto contrasto con i princìpi della filosofia e della dottrina politica e sociale della Chiesa, ha ricadute estremamente pregiudizievoli sulla concordia dei cittadini e sulla realizzazione del bene comune, di cui costituiscono segno evidente i pesanti squilibri sociali provocati dal nuovo assetto proprietaristico, ricollegato alla sdemanializzazione dei demani comunali e alla privatizzazione individualistica, a vantaggio degli strati borghesi, delle innumerevoli forme di proprietà collettiva, che avevano assicurato per secoli la decorosa sopravvivenza di larghi strati della popolazione rurale (56). Anche a questo riguardo vale il medesimo presupposto “statocentrico”, che aveva generato l’odio contro le autonomie dei corpi intermedi, determinando la soppressione delle basi economiche della loro esistenza. La “questione agraria” e la “questione meridionale” diventano a questa stregua motivi di assillo permanente della vita politica nazionale. Ma, lungi dal porre mano alle giuste riforme, correggendo gli errori teorici e rinunciando ai pregiudizi ideologici, la classe politica erede del Risorgimento persevera nella esaltazione enfatica dell’unità politica, realizzata contro la profonda unità spirituale e culturale dei popoli già appartenenti alle diverse ma simili patrie italiane (57).
Il mondo cattolico, raccolto intorno alla bandiera dell’intransigentismo, conformandosi all’insegnamento della dottrina politica e sociale della Chiesa, espressa nel ricchissimo corpus dottrinale di Papa Leone XIII (1878-1903), si dedica, nelle fasce sociali intellettualmente più consapevoli ed economicamente meno impoverite, a iniziative resistenziali che approfittano dello spazio lasciato aperto dal liberalismo politico e creano mirabilmente associazioni e organismi, spesso a base laicale, dirette a realizzare il progresso economico, soprattutto agrario, e a consentire un più equo accesso al credito, con l’istituzione di casse di risparmio e di cooperazione mutua e assicurativa, nonché rivolte all’istruzione e alla formazione professionale dei giovani. In quest’ultimo settore spicca per incisività ed estensione l’opera della congregazione dei salesiani, fondata da san Giovanni Bosco (1815-1888) e diffusasi con impressionante vitalità, nell’arco di pochi anni, in tutta Italia e nel mondo intero.
9. La partecipazione politica consentita dal sistema elettorale
In questo quadro merita un cenno il profilo concernente la partecipazione dei cittadini alla formazione delle Camere rappresentative. Occorre rilevare anzitutto che il problema della “democraticità” si pone in termini diversi in un modello di Stato “statocentrico”, in cui tutto il potere è concentrato in un unico corpo centrale, e in un modello di Stato a larghe maglie, in cui sono rispettate e riconosciute le autonomie dei corpi intermedi e, quindi, il potere è più diffuso, sia in senso verticale che orizzontale. Nell’ambito di questo secondo modello la partecipazione è assicurata a molti cittadini ai livelli istituzionali intermedi cui essi appartengono per ragioni di pertinenza territoriale o di attività lavorativa. Allorché, invece, le autonomie intermedie sono disarticolate e, comunque, private dei poteri di autonoma gestione, l’unico sbocco partecipativo diventa l’elezione dei rappresentanti nella Camera parlamentare. Tralascio di sottoporre a critica questa forma di democrazia, particolarmente difettosa quando, come nel sistema dello Stato unitario, tracimato fino nella carta costituzionale vigente, il rappresentante, una volta eletto, agisce senza vincoli di mandato (58).
In questa sede occorre rilevare il carattere oligarchico della rappresentanza politica dello Stato unitario, caratterizzato dal suffragio elettorale ristretto per ragioni di sesso, di età e di censo (59). I requisiti delle prime leggi unitarie della fine del 1859 e della fine del 1860, che recepiscono in gran parte il sistema subalpino e che rimangono in vigore fino al 1882, sono tali che soltanto il 2 per cento circa della popolazione — dall’1,9 al 2 per cento nel primo ventennio dello Stato unitario — può partecipare per via elettorale alla vita politica. Soltanto con la riforma del 1882 il diritto di voto viene riconosciuto a ogni cittadino maschio che avesse più di ventuno anni, provasse di saper leggere e scrivere e fosse dotato di un censo di lire 19,80, costituente il minimo della ricchezza mobile. In questo modo la percentuale dell’elettorato perviene a circa il 7 per cento della popolazione, e, successivamente, nel 1892, al 9,4 per cento. Soltanto con la legge 30 giugno 1912, n. 665, viene introdotto il suffragio universale maschile, sia pure con una limitazione, poiché fino ai 30 anni di età era richiesta anche la capacità di leggere e di scrivere (60).
Oltre alla ristrettezza del corpo elettorale, particolarmente gravi sono, inoltre, gli squilibri fra città e campagna e fra Nord e Sud, dipendenti dal diverso livello di alfabetizzazione. Onde, mentre gli operai e gli artigiani possono effettivamente accedere al corpo elettorale, ne rimangono nella quasi totalità escluse le popolazioni rurali, soprattutto dell’Italia Meridionale. Non v’è da stupirsi, pertanto, se gli appartenenti a queste classi, esclusi dalla partecipazione politica legale, prendono ad affidarsi con sempre maggiore fiducia agli esponenti dei gruppi iniziatici di tipo illegale.
10. La politica estera della nuova Italia: il virus del nazionalismo
All’impoverimento della proiezione culturale ed economica dell’Italia in sede internazionale, di cui si è in precedenza parlato, fanno da contraltare una politica estera contraddittoria e una politica coloniale tanto aggressiva nelle intenzioni quanto disastrosa negli effetti.
Si coglie su questo piano qualche indizio concreto del significato metastorico del Risorgimento, che, contrariamente agli “ideali” proclamati dai rappresentanti della sua ala rivoluzionaria, d’impronta tanto mazziniana quanto garibaldina, fanno perdere via via al popolo italiano la vocazione universalistica a profitto di una gretta visione nazionalistica.
A dettare la politica internazionale sono atteggiamenti psicologici ispirati al risentimento piuttosto che coerenti scelte volte a conferire all’Italia un ruolo positivo e propositivo nel concerto delle nazioni. La stipulazione, il 20 maggio 1882, da parte del governo della Sinistra guidato da Depretis, del trattato della Triplice Alleanza con gli imperi germanico e austro-ungarico, ha origine remota in un sentimento d’insofferenza verso la Repubblica Francese, alimentato tanto dall’intento di sottrarsi ai vincoli di gratitudine per il decisivo contributo da essa fornito nelle guerre d’indipendenza, quanto dall’ostilità per il sostegno prestato da Napoleone III (1808-1873) allo Stato Pontificio fino alla sconfitta del 1870 nella guerra con il Regno di Prussia. L’insofferenza contro la Francia si trasforma in ostilità aperta dopo lo smacco subìto dall’Italia nel Congresso di Berlino del 1878, dove al riconoscimento delle pretese coloniali della Francia, soprattutto sulla Tunisia, non fa da contrappunto il riconoscimento di alcuna aspirazione espansiva dell’Italia nel Mediterraneo. Ciò induce il governo italiano a rivolgersi agli Imperi Centrali, in un’alleanza difensiva che vincolava i contraenti a un mutuo patto d’intervento in caso di aggressione francese e alla “neutralità benevola”, qualora uno dei tre Paesi fosse stato indotto a dichiarare guerra per prevenire una minaccia alla propria integrità (61). La contraddittorietà del trattato con le perduranti aspirazioni irredentistiche degli epigoni risorgimentali sarebbe esplosa in tutta la sua gravità nel 1914, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale (1914-1918), quando l’Italia, sospinta dal facinoroso e variegato fronte interventista, cambia le alleanze ed entra in guerra contro l’Impero asburgico.
Va detto ancora, a completamento del quadro, che se, fino all’avvento di Crispi, “eroe” garibaldino, massone e anticattolico virulento, la Triplice Alleanza aveva prevalentemente un carattere difensivo, a partire dal 1887 i rapporti fra l’Italia e il Reich germanico vengono consolidati con la stipula di una convenzione militare, che grava in modo inaudito sul piano finanziario: nel 1889 più di un terzo del bilancio statale viene investito in armamenti. La convenzione viene propiziata tanto dall’ostilità contro la Francia, quanto dal comune intento anticattolico che animava sia Crispi sia il cancelliere germanico Otto Eduard Leopold von Bismarck (1815-1898), protagonista del Kulturkampf contro la Chiesa cattolica (62).
Disastrosa è la politica coloniale, sostenuta, con immenso sperpero di risorse finanziarie, da Crispi fin dal 1887. Non è possibile qui seguire gli sviluppi di tale avventuroso distendersi dell’Italia nella “conquista” di un “posto” in Africa. Basti dire che le sconfitte coloniali mettono fine anche alla carriera politica di Crispi. Nel 1896, ricercando a tutti i costi una vittoria militare che gli garantisse la sopravvivenza politica in Italia, l’”eroe” risorgimentale spinge il comandante dell’esercito coloniale, generale Oreste Baratieri (1841-1901), verso una dissennata prova di forza (63), che si risolve nella “carneficina” di Adua, del 1° marzo 1896, dove quattro brigate di circa 16.000 uomini, di cui quasi seimila ascari indigeni, vengono accerchiate e sconfitte dagli abissini. Negli scontri perdono la vita circa 290 ufficiali e 4600 soldati italiani e mille ascari. I prigionieri italiani sono 1400 e 800 gli ascari.
11. Il fallimento del modello “statocentrico”
L’enorme ampiezza e la gravità dei problemi istituzionali dell’Italia liberale non consentono in questa sede una descrizione più ampia del processo d’irrigidimento “statocentrico” praticato dai vari governi liberali, sfociato nella partecipazione assurda all’“inutile strage” (64), che sarà, secondo le parole profetiche di Papa Benedetto XV (1914-1922), la Prima Guerra Mondiale.
Interessa qui ricondurre le riflessioni svolte al tema se il governo rivoluzionario, nato dalla debellatio militare conseguente a guerre ingiuste, si sia guadagnato, grazie a qualche occorrenza politica straordinaria o a un’ipotetica legittimità di esercizio del potere, quella legittimità giuridica che ancora oggi viene sbandierata come ragione di celebrazione e di festeggiamento nel 150° anniversario dell’Unità italiana (65).
La risposta al quesito è, a mio avviso, negativa. Per quanto, a partire dalla caduta di Crispi e dal formarsi dei ministeri a guida giolittiana, sia da registrarsi una qualche resipiscenza, almeno in alcuni ambienti del liberalismo conservatore, circa le modalità del processo rivoluzionario, mai venne messo in discussione il duplice vizio di origine di tale processo, l’ostilità contro la Chiesa e l’ingiustizia delle conquiste militari. Ancora oggi, purtroppo, le celebrazioni ufficiali del 150° anniversario non offrono riscontri di un serio ripensamento in ordine all’origine dell’Unità. Vero che, dall’inizio del secolo XX, una parte della classe politica liberale cerca d’instaurare un rapporto meno conflittuale con il “paese reale” e con le sue tradizioni cattoliche. Costituiscono segno di ciò la partecipazione, seppur parziale, dei cattolici alla vita politica, e soprattutto amministrativa, a partire dal pontificato di san Pio X (1903-1914). In epoca assai posteriore, l’11 febbraio 1929, è intervenuta anche la pacificazione dello Stato con la Santa Sede, attraverso la stipula del Trattato, che mette fine alla Questione Romana, e del Concordato, che instaura un modus vivendi di collaborazione fra lo Stato e la Chiesa. Pare doversi escludere, tuttavia, che l’illegittimità d’origine dello Stato italiano sia stata sanata da una qualche sorta di legittimità di esercizio. La partecipazione alla Prima Guerra Mondiale, con il rovesciamento sleale delle alleanze, in una prospettiva nazionalistica miope, fomentata dalla massoneria e da forze interventistiche irrazionaliste, è certamente frutto di una scelta gravemente imprudente e, in ultima analisi, ingiusta. La nascita del fascismo rappresenta un tentativo estremo di ricostituire l’unità di un popolo che era stato dis-unito da un processo politico condotto contro il suo ethos millenario, contro le sue tradizioni e contro le istituzioni plurisecolari che ne avevano garantito l’unità religiosa e culturale (66).
A causa dell’ingiustizia irreparabile delle esecrabili leggi razziali del 1938 — introdotte con regio decreto-legge del 17 novembre 1938, Provvedimenti per la difesa della razza italiana —, dell’alleanza con la Germania nazionalsocialista e della sciagurata partecipazione alla Seconda Guerra Mondiale (1939-1945), lo Stato nato dal Risorgimento sprofonda definitivamente, violando più volte e gravemente i doveri di giustizia verso i cittadini e la comunità internazionale, senza aver recuperato la carente legittimità di origine (67). Scompare anche, con il referendum del 2 giugno 1946, in cui può forse scorgersi una peculiare nemesi storica, la Casa dinastica dei Savoia, che del Risorgimento era stata un protagonista decisivo.
Che l’anniversario del marzo 2011 non sia per l’ennesima volta motivo di un acritico applauso, bensì costituisca finalmente l’occasione per riconoscere, nell’ambito di un equilibrato federalismo, i diritti fondamentali del popolo a una politica realistica di perseguimento del bene comune nella promozione dei valori che Papa Benedetto XVI ha mirabilmente definito “non negoziabili” (68).
Note:
(1) Domingo de Soto, De iustitia et iure. Libri decem, libro V, q. I, art. III, 139, edizione facsimile di quella del 1556 e traduzione spagnola, con introduzione storica e teologico-giuridica di Venancio Diego Carro O.P. (1894-1972), Instituto de Estudios politicos. Sección de Teólogos juristas, Madrid 1968, vol. III, p. 389: “Bifariam quempiam contingit esse tyrannum, videlicet aut potentatus aquisitione, aut sola eiusdem administratione quem iuste adeptus fuit”.
(2) Sulla legittimità dell’ordine giuridico temporale e sulla distinzione fra legittimità di esercizio e legittimità di origine, cfr. Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della “fabbrica” del testo e documenti integrativi, con presentazione e cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009, pp. 73-76; sul tema cfr. il mio Il diritto e le istituzioni in “Rivoluzione e Contro-Rivoluzione”, in Cristianità, aprile-giugno 2010, n. 356, pp. 37-47.
(3) Cfr. Félix Adolfo Lamas, La concordia política (Vinculo unitivo del Estado y parte de la Justicia concreta), con prologo di Francisco Elías de Tejada [y Spínola (1917-1978)], Abeledo-Perrot, Buenos Aires 1975, pp. 9-14. Tale ordinazione implica il rispetto della legge naturale, che è la partecipazione della legge eterna nella natura razionale dell’uomo; il riconoscimento di Dio come fondamento della comunità politica nella giusta autonomia della società temporale rispetto alla città divina (“Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” [Mc. 12, 17]); la conservazione e l’arricchimento delle vere tradizioni della patria e l’ordinazione dell’attività politica ai bisogni e alle esigenze profonde dell’intera comunità.
(4) Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it., in Idem, Opere, Laterza, Roma-Bari 1988, vol. 7, pp. 193-245, che tratta il tema della concordia nell’ambito dell’amicizia.
(5) San Tommaso d’Aquino, In decem libros ethicorum Aristotelis ad Nicomachum, libro IX, cap. 6, 1167a 22-1167b 15 [testo e trad. it., in Idem, Commento all’Etica nicomachea di Aristotele, vol. 2, Libri 6-10, introduzione, traduzione e glossario a cura di Lorenzo Perotto O.P. (1923-2009), ESD. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1998, p. 377].
(6) “[…] la società politica sembra sia essere sorta da principio come una comunanza in vista dell’utilità sia durare in quanto tale” (Aristotele, op. cit., 1160a 11-13, p. 209).
(7) “In ciascuna delle forme di governo sembra esservi amicizia nella misura in cui v’è anche giustizia” (ibid., 1161a 10-11, p. 211).
(8) “La concordia sembra dunque un’amicizia politica, come anche si suol dire; essa infatti riguarda gli interessi e ciò che conviene per la vita. Una tale concordia si trova tra le persone per bene: esse infatti sono in concordia con se stesse e tra di loro, giacché, per così dire, sono rivolte alle stesse cose. Esse permangono nei loro voleri e non mutano direzione come una corrente che rifluisca, bensì vogliono il giusto e l’utile, e mirano a ciò concordemente. I cattivi invece non possono essere in concordia come pure in amicizia se non per poco, mirando ad avvantaggiarsi nelle cose utili e a restare indietro nelle fatiche e nelle prestazioni pubbliche; e se ciascuno vuole queste cose per sé, inquisisce il vicino e lo ostacola: e quando così non si bada alla comunità, questa va in rovina. E ad essi accade dunque di essere in discordia, importunandosi l’un l’altro e non volendo essi stessi compiere cose giuste” (ibid., 1167b 1-15, pp. 231-232).
(9) Cfr. F. A. Lamas, La concordia política. Causa eficiente del Estado, testo registrato e riveduto della conferenza tenuta il 20-11-1996 nell’Istituto di Filosofia Práctica de Buenos Aires, presso la cattedra di Filosofia dello Stato, Università Cattolica Argentina, Buenos Aires 2009, p. 13, disponibile sul sito <http://www.viadialectica.com/fil_estado.html>.
(10) Cfr. ibid., pp. 14-15.
(11) Cfr. Luciano Cafagna (1926-2012), Legittimazione e delegittimazione nella storia politica italiana, in Loreto Di Nucci ed Ernesto Galli della Loggia (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 2003, in particolare pp. 20-24; e Fulvio Cammarano, “Forca e dinamite”. La delegittimazione politica nell’Italia liberale, in Idem e Stefano Cavazza (a cura di), Il nemico in politica. La delegittimazione dell’avversario nell’Europa contemporanea, il Mulino, Bologna 2010, pp. 13-58.
(12) Enrico Verdecchia, Londra dei cospiratori. L’esilio londinese dei padri del Risorgimento, Marco Tropea, Milano 2010, p. 565. In particolare, nel 1865 il governo, con l’approvazione della Camera dei deputati, aveva opposto il veto alla sua elezione a deputato; ugualmente accadrà per la sua seconda elezione, annullata dal Parlamento; eletto una terza volta, è lui stesso a rifiutarsi di occupare il seggio.
(13) L’attività cospiratoria condotta da Mazzini lungo tutto l’arco della vita, a partire dall’ingresso nella Carboneria, “vendita” genovese La Speranza, ad appena ventidue anni fino al termine della vita, si accompagna a un’instancabile opera diffamatoria dell’Italia concreta, che egli non conosceva in alcun modo, per predicare la sua Italia immaginaria. La diffamazione incessante di Mazzini contro l’Italia ha il suo centro nella capitale inglese, Londra, ove egli trova rifugio, espulso dalla Svizzera, insieme a Giovanni (1807-1881) e Agostino (1810-1855) Ruffini, il 13 gennaio 1837. L’immagine falsa dell’Italia — come di terra abitata da plebi sonnolente e corrotte e da preti dissoluti e profittatori —, che tanto danno le ha provocato, viene diffusa instancabilmente da Mazzini a Londra, con tanto maggiore successo quanto più compiaceva l’ostilità preconcetta del mondo inglese nei confronti del cattolicesimo. Sul rilievo e sull’influenza di Mazzini in Inghilterra, cfr. E. Verdecchia, op. cit., soprattutto pp. 352- 372, ove è riferita l’accoglienza entusiasta di Mazzini nella società londinese dopo la sua seconda permanenza a Londra, nel febbraio 1851. Dopo la vicenda della Repubblica Romana “Mazzini […] s’era trasformato da isolato sognatore utopista in uno statista noto in tutta Europa. Anzi, in Inghilterra addirittura in un mito” (ibid., p. 357), riscuotendo la simpatia e talora fruendo della stretta amicizia di uomini come il ministro degli Esteri Henry John Temple, terzo visconte Palmerston (1784-1865); il primo ministro William Ewart Gladstone (1809-1898), il celebre direttore del giornale londinese The Economist Walter Bagehot (1826-1877), il famosissimo romanziere Charles Dickens (1812-1870) e lo storico delle civiltà Thomas Carlyle (1795-1881). Egli, invero, costituisce a Londra un minuscolo ma potentissimo centro anti-italiano, che cospira e diffama incessantemente la patria con il sostegno dello straniero.
(14) Cfr. Denis Mack Smith, Mazzini, trad. it., Rizzoli, Milano 2000, p. 298.
(15) “Dovendo parlare dell’armata meridionale, io dovrei anzi tutto narrare dei fatti ben gloriosi; i prodigi da essa operati furono offuscati solamente quando la fredda e nemica mano di questo Ministero faceva sentire i suoi effetti malefici. (Rumori e agitazioni) Quando per l’amore della concordia l’orrore di una guerra fratricida, provocata da questo stesso Ministero…. (Vivissimi richiami dal banco dei ministri – Violenta interruzione nella Camera)“ (Giuseppe Garibaldi, intervento del 18-4-1861, in Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione del 1861. 1° periodo, dal 18 febbraio al 23 luglio 1861, Eredi Botta, Torino 1861, p. 577).
(16) Cit. in F. Cammarano, “Forca e dinamite”. La delegittimazione politica nell’Italia liberale, cit., p. 20.
(17) Nella storiografia accademica di lingua inglese sta comparendo una linea moderatamente revisionistica di cui può essere esempio Christopher Duggan, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi (Storia e società), trad. it., Laterza, Roma-Bari 2008.
(18) Si veda l’interessante documento di Gian Francesco Napione (1748-1830), Idea di una confederazione delle potenze d’Italia, indirizzato nell’ottobre del 1791 a Giuseppe Francesco Gerolamo Perret, conte d’Hauteville (1731-1810), reggente la Segreteria di Stato per gli Affari Esteri del re di Sardegna, in Nicomede Bianchi (1818-1886), Storia della monarchia piemontese dal 1773 al 1861, vol. III, Predominio francese. Governo provvisorio. 1799-1802, Fratelli Bocca, Torino 1879, pp. 527-548, ora in Cristianità, luglio-settembre 2010, n. 357, pp. 41-54, su cui cfr. Francesco Verna, Nota su Gian Francesco Galeani Napione e il federalismo italico nel secolo XIX, ibid., pp. 33-37.
(19) Cfr. G. F. Napione, op. cit., soprattutto pp. 50-54.
(20) Cfr. Francesco Pappalardo, Il mito di Garibaldi. Una religione civile per una nuova Italia, con Presentazione di Alfredo Mantovano, Sugarco, Milano 2010, in particolare pp. 131-172.
(21) Lo dichiara più volte lo stesso Garibaldi. Nel 1864 compie un viaggio trionfale in Inghilterra. Approdato a Southampton la sera del 3 aprile, il giorno seguente si rivolge alla folla accorsa a salutarlo prima che egli potesse scendere a terra dal vapore, dicendo: “Il popolo inglese ci ha procurato uomini, armi e denaro senza i quali sarebbe stato impossibile portare a termine le imprese che abbiamo compiuto nell’Italia meridionale” (cit. in E. Verdecchia, op. cit., pp. 507-508, che a sua volta cita Howard Blackett, The Life of Giuseppe Garibaldi, Walter Leigh, Preston 1884, p. 291). La stessa cosa Garibaldi ripete quando, recatosi direttamente da Southampton nell’isola di Wight, fa visita al celebre poeta Alfred Tennyson (1809-1892), che abitava poco lontano (cit. in E. Verdecchia, op. cit., p. 508, che cita Christopher Hibbert, Garibaldi and His Enemies. The Clash of Arms and Personalities in the Making of Italy, Penguin, London 1987, p. 341). Sul sostegno militare allo sbarco di Marsala da parte di navi da guerra britanniche, cfr. pure l’ammissione di Garibaldi: “La presenza dei due legni da guerra Inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro: […] ed io, beniamino di cotesti Signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro protetto” (Le Memorie di Garibaldi nella redazione definitiva del 1872, Cappelli, Bologna 1932, p. 423).
(22) Cfr. Vittorio Emanuele Orlando, Principii di diritto costituzionale, Barbera, Firenze 1928.
(23) Ibid., pp. 53-54; per la storia costituzionale del Regno d’Italia è fondamentale l’opera di Gaetano Arangio-Ruiz (1857-1936), Storia costituzionale del Regno d’Italia, 1898, Jovene, Napoli 1985.
(24) Sul significato “simbolico” dell’autorità politica, cfr. Manuel García Pelayo (1909-1991), Miti e simboli politici, trad. it., Borla, Torino 1970.
(25) Pasquale Stanislao Mancini, intervento dell’8-12-1861, in Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione del 1861-1862. 2° periodo, dal 20 novembre 1861 al 12 aprile 1862, Eredi Botta, Torino 1862, p. 218.
(26) Ibid., p. 220.
(27) Cfr. una ricostruzione dettagliata della politica e della legislazione anticattolica nel Regno di Sardegna fra il 1848 e il 1856, in Angela Pellicciari, Risorgimento da riscrivere. Liberali & massoni contro la Chiesa, con Prefazione di Rocco Buttiglione e Postfazione di Franco Cardini, Ares, Milano 1998.
(28) Le vicissitudini concernenti l’operato nel 1850 di mons. Fransoni, il suo arresto, la sua condanna e il suo esilio sono riferiti analiticamente da don Emanuele Colomiatti (1846-1928), Mons. Luigi Dei Marchesi Fransoni, Arcivescovo di Torino 1832-1862, e lo Stato Sardo nei rapporti colla Chiesa durante tale periodo di tempo, Tipografia Ditta D. Derossi, Torino 1902. Quanto alle ragioni della Chiesa, fatte valere da mons. Fransoni, va precisato che il punto di diritto in gioco non erano tanto, in sé e per sé, le immunità ecclesiastiche, quanto il fatto che con le leggi in oggetto lo Stato violava le disposizioni dei concordati stipulati con la Santa Sede, nonostante che quest’ultima avesse dichiarato la disponibilità alla revisione degli stessi. Sul tema si vedano, nell’opera di don Colomiatti, il resoconto delle Missioni dello Stato Sardo presso la Santa Sede per un nuovo Concordato, dopo l’elargizione dello Statuto, pp. 300-303; i Reclami della Santa Sede fatti direttamente al Regno Sardo; nei quali emerge la natura e la forza dei Concordati, pp. 308-339; i Reclami della Santa Sede fatti al Regno Sardo rivoltasi ai Vescovi dello Stato Sardo e in Concistoro, pp. 342-348.
(29) Cfr. il resoconto del processo e la sentenza di condanna in extensum, ibid., pp. 149-169.
(30) Per questa vicenda e per la seconda condanna di mons. Fransoni, cfr. ibid., pp. 176-275.
(31) Sulle leggi di eversione dell’asse ecclesiastico, cfr. Francesco Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, seconda edizione, aggiornamento a cura di Andrea Bettetini e Gaetano Lo Castro, Zanichelli, Bologna 2007, pp. 27-31.
(32) Carlo Cardia, Opere pie, in Enciclopedia del diritto, vol XXX. Omissi-Ord, Giuffré, Milano 1980, pp. 319-331 (p. 320).
(33) L’espressione è di F. Cammarano, Storia dell’Italia liberale, Laterza, Roma-Bari 2011, che intitola il VI capitolo appunto Euforia crispina (1887-1891) (pp. 104-129).
(34) Francesco Crispi, Politica interna. Diario e documenti raccolti ed ordinati da T. Palamenghi-Crispi, Fratelli Treves, Milano 1924, p. 226.
(35) Ibid., p. 227.
(36) Ibidem.
(37) Francesco Saverio Nitti, L’assistenza pubblica in Italia (L’azione della Chiesa e l’azione dello Stato), in Rassegna pugliese di scienze, lettere ed arti, vol. 9, n. 9-10, Trani 14-5-1892, p. 134; lo stesso articolo era stato pubblicato, con il titolo Poor Relief in Ita-ly, in The Economic Review, vol. 2, n. 1, Londra gennaio 1892, pp. 1-24.
(38) Cfr. Umberto Allegretti, Profilo di storia costituzionale italiana. Individualismo e assolutismo nello stato liberale, il Mulino, Bologna 1989, che intitola il IX capitolo Un modello statocentrico indebolito (pp. 231-299).
(39) V. E. Orlando, op. cit., p. 58.
(40) Ha descritto magistralmente questo processo, con particolare riferimento al diritto privato, Paolo Grossi nella serie di saggi raccolti nell’opera Assolutismo giuridico e diritto privato, Giuffré, Milano 1998.
(41) La frase “Dunque bisogna pensare a fare gli italiani, se si vuole avere una Italia” viene confidata da Massimo d’Azeglio all’amico Diomede Pantaleoni (1810-1885): cfr. Giovanni Fardella (1846-1928) (a cura di), Massimo d’Azeglio e Diomede Pantaleoni. Carteggio inedito, Roux, Torino 1888, pp. 191-192. Il concetto venne ripreso quindici anni dopo in modo aggressivo da Francesco De Sanctis (1817-1883), secondo cui “l’Italia c’è, ma non c’è ancora l’Italiano. […] se è stato difficile fare l’Italia, è opera assai più difficile e più lunga fare l’italiano” (Il Mezzogiorno e lo Stato unitario, a cura di Franco Ferri (1922-1993), Einaudi, Torino 1960, p. 293).
(42) Cfr. U. Allegretti, op. cit., pp. 547-561.
(43) Cfr. Raffaele Romanelli, L’Italia liberale (1861-1900), il Mulino, Bologna 1979, p. 339. Con riferimento specifico al tema del trasformismo, cfr. Giovanni Sabbatucci, Il trasformismo come sistema. Saggio sulla storia politica dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 2003.
(44) R. Romanelli, op. cit., p. 339.
(45) Ibidem.
(46) F. Cammarano, Storia dell’Italia liberale, cit., p. 104. L’avvento al potere di Crispi nel 1887 viene salutato dall’organo della borghesia degli affari milanese, il Corriere della Sera, come quello del rinnovatore della politica italiana: “Apprezziamo in lui il patriottismo, il coraggio, l’ardimento. Apprezziamo la sua maschia risolutezza e ben anche quell’affermazione imperiosa dell’io che è la sua principale caratteristica. Dopo il governo senile di Depretis, dopo quel governo senza nocciolo, molle e lubrico come un mollusco che […] aveva condotto il paese assonnato a Dogali, provammo tutti un vero ristoro ai primi atti vigorosi del Crispi” (Il pericolo, in Corriere della Sera, Milano 14-2-1888).
(47) Cit. in U. Allegretti, op. cit., p. 246.
(48) Cfr. Giovanna Tosatti, Ministero dell’interno e Prefetture in età liberale, in Marco De Nicolò (a cura di), Tra Stato e società civile. Ministero dell’interno, Prefetture, autonomie locali, il Mulino, Bologna 2006, pp. 97-110.
(49) Cfr. Guido Melis, Il Ministero dell’interno da Cavour a Mussolini, ibid., pp. 25-43, secondo cui “[…] la nuova macchina dello Stato di fine secolo […] [era] in larga misura affidata alle cure del prefetto in periferia e al coordinamento delle quattro Direzioni generali del Ministero al centro” (p. 32).
(50) Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, vol. 7, Stamperia reale, Torino 1863, pp. 1364-1367 (p. 1365).
(51) Ibid., vol. 16, Stamperia reale, Torino 1866, pp. 544-546 (p. 545).
(52) Ibid., 1894, tomo 3, Stamperia reale, Torino 1894, pp. 1764-1766 (p. 1765).
(53) Cfr. Daniela Fozzi, Tra prevenzione e repressione. Il domicilio coatto nell’Italia liberale, Carocci, Roma 2011.
(54) Negli anni 1880 la media annua di espatriati è di 188.000 unità, mentre nel decennio successivo raggiunge le 283.000 (cfr. F. Cammarano, Storia dell’Italia liberale, cit., p. 100).
(55) Per le notizie essenziali, cfr. Enciclopedia Cattolica, Ente per l’Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1948, vol. I, col. 674, sub voce.
(56) Cfr. P. Grossi, Assolutismo giuridico e proprietà collettive, in Idem, Il dominio e le cose. Percezioni medievali e moderne dei diritti reali, Giuffré, Milano 1992, pp. 695-748.
(57) Sulle cause delle due questioni, “meridionale” e “agraria”, strettamente interrelate fra loro, ha portato l’attenzione l’inchiesta parlamentare avviata nel 1877 dal senatore lombardo Stefano Jacini (1826-1891), uno dei pochi esponenti del liberalismo conservatore che, realmente preoccupato per l’avvenire d’Italia, non aveva approvato l’occupazione di Roma. Ordinatore e relatore della grande inchiesta agraria pubblicata nel 1884, egli accentua via via il suo dissenso dalla politica governativa. Sulla sua posizione politica, cfr. Stefano Jacini, Pensieri sulla politica italiana, Civelli, Firenze 1889.
(58) Cfr. l’art. 67 della Costituzione: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.
(59) Cfr. R. Romanelli, Impostare la democrazia. Sulla costituzione liberale italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2009, in particolare il capitolo Lo stato dei liberali e la questione elettorale, pp. 149-160.
(60) Cfr. U. Allegretti, op. cit., pp. 438-441. Nonostante la ristrettezza del corpo elettorale e le intimidazioni contro i sostenitori dell’antico ordine, le prime prove elettorali in Roma e nel Lazio dopo il 20 settembre 1870 sono disastrose per i liberali. Nelle elezioni del Consiglio provinciale di Roma tenutesi il 13 novembre 1870 vengono eletti molti candidati non graditi al governo, come a Terracina il conte Gregorio Antonelli, fratello del cardinale Giacomo Antonelli (1806-1876), segretario di Stato del Papa beato Pio IX (1846-1878), tanto che, in sede di trasformazione delle vecchie molteplici amministrazioni provinciali in una sola, ci si lamenta di ciò, con le parole: “”Di questo gregge abbandonato e vilipeso” si doveva fare “un popolo che sollevi la fronte, degno della libertà e della patria nostra”” (Atti del consiglio provinciale di Roma, 1870-1872, Roma 1872, p. 17, cit. in Claudio Pavone, Gli inizi di Roma capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 185). Nel collegio di Albano, che aveva una percentuale di elettori discretamente alta (6,14 per cento), quando, nel tardo pomeriggio del 13 novembre, sembrava che le elezioni volgessero a favore dei “clericali”, alcune persone del “basso popolo” — 15 o 16 in tutto, secondo i rapporti di polizia —, invadono la sala ove si trovavano le urne, facendo sospendere le operazioni e annullare le elezioni. Alla ripetizione, con il numero dei votanti sceso da 233 a 143, vincono ancora i “clericali”. In tutto il circondario di Frosinone le elezioni segnano la sconfitta di quanti si erano messi in mostra nella vita pubblica dopo l’arrivo delle truppe italiane, e i “liberali”, dimostratisi impotenti sotto ogni rapporto nella lotta elettorale, “[…] attendevano ormai la loro rivincita da assurdi interventi del governo e si sfogavano con un gran numero di ricorsi” (ibid., p. 175; cfr. numerose altre notizie del medesimo ordine ibid., pp. 169-224).
(61) Cfr. F. Cammarano, Storia dell’Italia liberale, cit., p. 88.
(62) Per una dura critica alla Triplice Alleanza, vista come strumento di potere dei grandi gruppi bancari e industriali egemoni in Germania, cfr. l’editoriale Le ragioni della Triplice Alleanza, in La Civiltà Cattolica, anno XLII, vol. XI, fasc. 987, Roma 20-7-1891, pp. 257-270.
(63) “Codesta è una tisi militare, non una guerra: piccole scaramucce, nelle quali ci troviamo sempre inferiori di numero dinanzi al nemico; sciupio di eroismo senza successo. Non ho consigli a dare perché non sono sul luogo, ma constato che la campagna è senza un preconcetto e vorrei fosse stabilito. Siamo pronti a qualunque sacrificio per salvare l’onore dell’esercito ed il prestigio della monarchia”; così Crispi, nel telegramma a Baratieri, del 25-2-1896, cit. in Nicola Labanca, In marcia verso Adua, Einaudi, Torino 1993, p. 352.
(64) Benedetto XV, Nota ai capi delle potenze belligeranti, del 1°-8-1917, in Acta Apostolicae Sedis. Commentarium officiale, anno e vol. IX, parte I, Tipografia Poligotta Vaticana, Roma 1917, pp. 421-423 (p. 423).
(65) La riflessione sulla legittimità del regime sorto dal Risorgimento impegna molti autori d’ispirazione cattolica: cfr. Giorgio Rumi (1938-2006), I poteri del re. La Corona, lo Statuto e la contestazione cattolica. 1878-1903, in L. Di Nucci e E. Galli della Loggia (a cura di), op. cit., pp. 93-106.
(66) Per l’analisi storica del fascismo rimane fondamentale G. Cantoni L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Saggio introduttivo, a P. Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta di “Rivoluzione e Contro-Rivoluzione” vent’anni dopo in prima edizione mondiale, con lettere di encomio di S. E. mons. Romolo Carboni (1911-1999), nunzio apostolico in Perù – oggi nunzio apostolico in Italia, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 7-50 (pp. 19-29).
(67) Il crollo del fascismo, la sconfitta militare e, successivamente, l’entrata in vigore della Costituzione nonché, soprattutto, le elezioni politiche del 18 aprile 1948 apportano una novatio radicale dello Stato. I problemi della legittimità di origine e di esercizio della Repubblica Italiana sono estranei, pertanto, al tema della presente relazione.
(68) Benedetto XVI, Discorso “Vita, famiglia, educazione: tre valori “non negoziabili”” ai partecipanti al convegno promosso dal Partito Popolare Europeo, del 30-3-2006, testo originale inglese in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. II, 1, 2007. (Gennaio-Giugno), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, pp. 382-384, trad. it. in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 31-3-2006.