Intervista a S. E. mons. Mounged El Hachem, Cristianità n. 278 (1998)
S. E. mons. Mounged El Hachem è nato ad Akoura, nella diocesi libanese di Jbeil dei Maroniti, l’8 settembre 1934. Ordinato sacerdote nel 1959, è laureato in teologia dogmatica, in giornalismo e in scienze sociali e internazionali, in lingue antiche e in diritto canonico. Dopo aver seguito l’intero Concilio Ecumenico Vaticano II lavorando nella sezione di lingua araba della Sala Stampa della Santa Sede, è stato per molti anni addetto alla sezione internazionale della Segreteria di Stato. Nel 1995 è stato eletto vescovo di Baalbek-Deir el Ahmar, nella Valle della Bekaa, in Libano, e poco dopo presidente della Commissione per il dialogo islamo-cristiano dell’Assemblea dei patriarchi e vescovi cattolici del Libano. Tiene corsi di diritto islamico alla Pontificia Università Lateranense di Roma. Lo incontro a Torino dove, il 15 maggio 1998, nella Sala Viglione del Consiglio Regionale, ha tenuto una conferenza sul tema La pace in Medio-Oriente. Il dialogo fra le religioni monoteiste come strumento di pace, organizzata dal Centro Federico Peirone per Studi e Relazioni Cristiano-Islamiche, con il patrocinio della Regione Piemonte.
D. Come vede la situazione politica, culturale e religiosa del Medio Oriente?
R. Il Medio Oriente riveste un’importanza fondamentale religiosa, civile e culturale per il mondo intero: è sempre stato un luogo di grandi scontri e anche di grandi incontri. I momenti storici cruciali sono stati diversi. Il primo è stato nel 333 a. C. con la caduta di Tiro dopo sei mesi di assedio a opera di Alessandro Magno, da cui è iniziato un completo dominio dell’area da parte dei Macedoni. Tutto il problema del Medio Oriente — dominato a turno da potenze egemoni straniere — è incominciato qui. Poi, dopo la nascita di Cristo, nel 70 d. C. si verifica la distruzione del tempio di Gerusalemme e l’inizio della diaspora ebraica. Quindi il Medio Oriente è stato il luogo delle grandi divisioni dei cristiani sulle querelle cristologiche. Nel 622 inizia l’era islamica con l’Egira di Maometto dalla Mecca a Medina. Dal 632 incomincia l’espansione dell’islam nel Medio Oriente e prosegue negli anni successivi fino a quando, nel 1453, con la caduta di Costantinopoli, scompare la presenza politica cristiana autonoma. Un’altra svolta cruciale si verifica nel 1891 con il Congresso di Basilea, dove viene presa la decisione di fondare in Palestina lo Stato di Israele, che — dopo la Dichiarazione Balfour, del 1917 — si realizza il 14 maggio 1948. S’ingenera così il fenomeno dei profughi palestinesi nel resto del Medio Oriente; quindi nascono l’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e l’ALP, l’Esercito per la Liberazione della Palestina. Nel 1967 la Guerra dei Sei Giorni segna la trasformazione dei palestinesi da profughi in guerriglieri, che combattono perché vogliono liberare il loro territorio. Molti palestinesi emigrano in Libano. Ricordo qualche altra data essenziale: il 1970, con “settembre nero” in Giordania, a cui fa seguito l’arrivo in Libano di una nuova ondata di palestinesi espulsi dalla Giordania; il 1973, con la quarta guerra arabo-israeliana, seguita dalla visita di Sadat a Gerusalemme; il 1975, in cui inizia la guerra del Libano che non può essere definita una guerra civile ma più esattamente, secondo l’espressione del politologo Ghassan Tuéni, una guerra di altri sul territorio del Libano.
D. Nel problema medio-orientale s’inserisce così il dramma libanese…
R. Sì. Nel 1982 vi è l’invasione israeliana. Del 1978 è la risoluzione 425 dell’ONU, che anche gli Stati Uniti d’America approvano, ma che Israele non applica. Il 1989 è l’anno dell’accordo di Ta’if, del 22 ottobre, chiamato Accordo di Riconciliazione Nazionale, al quale fa seguito il cosiddetto Trattato di Fratellanza, Coordinazione e Cooperazione firmato il 22 maggio del 1991 fra Repubblica Libanese e Repubblica Araba di Siria. L’accordo di Ta’if pone fine alla costituzione laica del Libano e dà inizio a una costituzione di stampo religioso simile a quella di altri Stati arabi: infatti, stabilisce testualmente che il presidente della Repubblica deve essere maronita, quello del Parlamento sciita e il capo del governo sunnita. Il 13 settembre 1993 viene stipulato l’accordo fra Israele e Arafat per lo Stato palestinese, che però non viene realizzato.
D. Dunque il problema libanese altro non è che una conseguenza del conflitto fra Israele e il mondo arabo?
R. Israele è stato concepito come uno Stato etnico per il popolo ebraico, il che ha generato una reazione nelle zone vicine. In Medio Oriente non vi sono più soltanto nazionalismi, ma soprattutto un conflitto fra un fondamentalismo islamico e un radicalismo ebraico. In mezzo si trovano le comunità cristiane minoritarie, considerate dagli arabi come alleati dell’Occidente e quindi di Israele, che è stato voluto dall’Occidente. Mentre da Israele i cristiani sono considerati arabi, anzi la vera anima della resistenza anti-israeliana. I cristiani stanno pagando il conflitto arabo-israeliano, nel quale sembra talora che entrambe le parti siano d’accordo su un punto solo, cioè sull’eliminazione dei cristiani in Medio Oriente.
D. Arabi e israeliani: davvero nessuna prospettiva di pace?
R. Bisogna cominciare ricordando la dimensione profonda del conflitto. In Medio Oriente vi è, per esempio, la città di Hebron con le tombe dei grandi patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe. Per i musulmani Abramo è il primo grande muslim, “sottomesso (a Dio)”, della storia perché è il primo che si è sottomesso incondizionatamente alla volontà di Dio accettando il sacrificio di Isacco. Quindi Hebron è una città sacra quanto la stessa Medina, e la più grande festa del mondo islamico è la festa del sacrificio, che ricorda quello di Isacco. Pertanto per i musulmani è inconcepibile rinunciare veramente alla prospettiva della sovranità su Hebron. Dall’altra parte, nel mondo ebraico, vi è chi ritiene che lo Stato d’Israele non possa essere completo senza la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme secondo le regole del Deuteronomio. Per far questo bisognerebbe distruggere la moschea di al-Aksa, che ha un’importanza fondamentale per i musulmani perché sorge sul luogo da cui Muhammad sarebbe salito al cielo. Lo stesso pezzo di terra è considerato sacrosanto, e quindi conteso, dai musulmani e dagli ebrei.
D. Ma il conflitto è soltanto religioso?
R. No. Con le idee della Rivoluzione francese nasce una vera e propria mania degli Stati nazionali, e in questa chiave nasce il movimento sionista. Da un problema risolto — assicurare uno Stato nazionale agli ebrei — ne è nato uno molto più grosso, quello del “popolo palestinese”, espressione che fra l’altro ha usato per primo Paolo VI. Vittima di tutto questo è stato il Libano. Il 13 settembre 1993 è stata sancita la nascita di uno Stato, quello palestinese, ma forse la morte di un altro, quello libanese.
D. Come giudica la richiesta israeliana di avere frontiere sicure e garantite dalla comunità internazionale?
R. Oggi non si può mettere in discussione il diritto dello Stato di Israele a esistere, e quindi ad avere frontiere sicure. Vi è tuttavia il problema di definire quale Israele deve esistere: dove sono le sue frontiere? Dal 1948 sembra che si siano continuamente allargate. È giusto che Israele abbia frontiere sicure, ma si deve sapere quali devono essere: solo così vi sarà sicurezza anche per gli altri. Cito a questo proposito un’espressione cara al Patriarca di Gerusalemme, Michel Sabbah: “La sicurezza è quella dei cuori e non delle frontiere”.
D. In questa chiave, è favorevole al progettato ritiro di Israele dal Sud del Libano?
R. Siamo sempre favorevoli al ritiro di forze di occupazione dal nostro paese. Il Libano non è mai entrato in guerra contro Israele: quindi non ha nessun motivo per subire un’occupazione post-bellica. Israele deve ritirarsi senza condizioni come stabilito dalla risoluzione 425 delle Nazioni Unite. Oggi tuttavia noi temiamo che il ritiro di Israele dal Sud diventi un ritiro affrettato e si traduca in un oggettivo complotto contro i cristiani del Sud del Libano. Il ritiro affrettato porterà disordini — delitti, crimini, vendette —, che giustificheranno facilmente una nuova occupazione militare, e magari una colpevolizzazione dei cristiani per quanto succederà. Quindi chiediamo un ritiro graduale garantito da un altrettanto graduale dispiegamento nella zona dell’esercito libanese, a mano a mano che le truppe israeliane si ritireranno.
D. Come vede il ruolo della Siria?
R. Nel mondo arabo è diffusa l’idea che il Libano faccia parte della Siria, che nel 1946 i francesi abbiano arbitrariamente assegnato al Libano — quando concessero l’indipendenza nello stesso tempo al Libano e alla Siria, che erano sotto mandato francese dal Trattato di Versailles del 1920 — cinque distretti della Siria. In verità il Libano non ha preso terre a nessuno: i suoi confini sono stati definiti dal Trattato di Versailles. Ma sono più antichi: il Libano sotto i turchi aveva già un’identità, uno statuto speciale che gli consentiva di mantenere la sua identità cristiana. Storicamente vi è sempre stata una volontà di egemonia sul Libano da parte della Siria, un paese più grande, più potente, più inserito nella rete di relazioni dei paesi musulmani circostanti in quanto a maggioranza sunnita. La Siria non ha mai riconosciuto l’indipendenza del Libano, anzi lo ha sempre guardato con occhio avido. Oggi qualche libanese esulta per i trattati firmati con la Siria perché, per la prima volta, la Siria avrebbe riconosciuto il Libano come nazione autonoma. Personalmente non sono d’accordo: occupare metà del territorio di uno Stato è un modo un po’ curioso di riconoscerne l’indipendenza. Vi è chi dice che la Siria ha portato pace in Libano. Sì, la Siria ha fatto tacere i cannoni ma anche la libertà. Il Patriarca maronita ha messo in evidenza che il fronte del Golan gode di una pace forzata ma perfetta mentre il Sud del Libano ha ogni giorno i suoi morti. Purtroppo questi morti servono per mantenere alta la tensione in tutta la zona e anche per giustificare la presenza della Siria al Nord.
D. Lei non è dunque ottimista sulla situazione del Libano?
R. Gli accordi di Ta’if hanno, di fatto, sospeso la Costituzione e reso il Libano ingovernabile. Siamo privi non solo della libertà, ma perfino del diritto di fare una resistenza. La popolazione vive in uno stato miserabile: fra i ricchi e i poveri è sparita la classe media, che era la forza del Libano. La guerra in realtà continua sotto forma di spinta per far emigrare i cristiani, mentre i musulmani non emigrano grazie al sostegno che ricevono dall’Arabia Saudita e dagli altri Stati arabi.
D. Nel 1998 sono previste in Libano le elezioni presidenziali, dopo la proroga del mandato presidenziale che fa seguito alla modifica costituzionale introdotta nel 1995. Si terranno? Che ne pensa?
R. Nel 1995 molti libanesi avrebbero preferito lo svolgimento delle elezioni presidenziali, perché la loro proroga solleva molti dubbi sull’esistenza di un’effettiva democrazia nel paese. Una nuova proroga non è impossibile. Oggi forse è perfino meglio che le elezioni non vi siano perché nel quadro attuale potrebbero comportare un peggioramento della situazione. L’attuale presidente del Libano, Elias Hraoui, grazie all’amicizia personale con il presidente siriano Assad, gode almeno di un certo spazio di autonomia che altri potrebbero non avere.
D. Il dialogo interreligioso, di cui Lei particolarmente si occupa, può contribuire alla soluzione della questione libanese?
R. Certo, la religione ha un ruolo importante nella vita della gente. Auspichiamo che Gerusalemme possa essere un giorno un centro d’incontro fra le religioni come lo è stata Assisi, o anche che incontri interreligiosi possano svolgersi a Tiro o a Sidone. La Terrasanta è un esempio di come lo stesso luogo possa essere terra d’incontro o anche di scontro. Peraltro, il dialogo non dovrebbe essere principalmente teologico, ma un confronto per risolvere i problemi concreti della zona. Dovrebbe mirare a ricostruire un Libano dove si possa vivere insieme nel rispetto delle rispettive tradizioni religiose. A proposito del dialogo islamo-cristiano in generale, mi piacerebbe peraltro che si potesse dire basta a certe ipocrisie. Non è vero, per esempio, che crediamo nello stesso Dio né che veneriamo la stessa Maria. Il dialogo interreligioso può avanzare solo se parte da quanto abbiamo veramente in comune — il valore della preghiera, dell’elemosina, del digiuno — e non da presunte, ma in realtà inesistenti, convergenze di carattere teologico.
D. Che cosa può fare l’Occidente per aiutare il Libano?
R. La libertà del Libano è legata al problema più generale del Medio Oriente. Tutti i problemi del Medio Oriente sono collegati: nessuno si risolverà senza che siano risolti gli altri. Ma vi è un’ignoranza crassa della situazione libanese in Occidente. Semplificando il quadro, si ha l’impressione che Israele pianifichi e decida, gli Stati Uniti d’America seguano sistematicamente Israele e l’Unione Europea assista a braccia incrociate, mentre la popolazione libanese è vittima innocente. Cosa possiamo fare? Pregare — la preghiera ha sempre un valore incondizionato e prioritario —, informare l’opinione pubblica, urlare chiedendo giustizia.
a cura di
Silvia Introvigne Scaranari