Intervista con il professor Reynald Secher, Cristianità n. 224 (1993)
Il tema delle insurrezioni contro-rivoluzionarie nella Francia Occidentale — particolarmente quello delle insurrezioni nella Vandea Militare, episodiche sin dal 1789, ma esplose con grande rilevanza a partire dal mese di marzo del 1793 — ha acquistato una certa notorietà per il mondo dei mass media — attenti sempre e solo a ciò che “fa notizia” e suscita clamore —, grazie all’allocuzione pronunciata da S. Em. il card. Paul Poupard, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, il 18 luglio 1993 a Le Pin-en-Mauges, e al discorso tenuto dallo scrittore russo Aleksandr Isaevic Solzenicyn il 25 settembre a Les Lucs-sur-Boulogne (cfr., rispettivamente, Jacques Cathelineau, “il Santo dell’Anjou”, un combattente sotto lo stendardo del Re del Cielo e Onore alla memoria della resistenza e del sacrificio degl’insorti vandeani del 1793 contro la Rivoluzione, in Cristianità, anno XXI, n. 222, ottobre 1993).
Al secondo avvenimento ha fatto eco anche la stampa italiana, sulla quale hanno ritrovato voce alcuni pregiudizi, di per sé mai scomparsi, che ancora una volta mostrano “in controluce” l’importanza e la “scomodità” del ricordo dell’insurrezione vandeana. Per esempio, pur sostenendo che “non si tratta di demonizzare il moto vandeano, né di dimenticare gli eccessi sanguinosi e disumani della sua repressione (come quelli dei ribelli, del resto)“, il professor Giuseppe Galasso ha sottolineato che, alla domanda se si possa o meno sostituire un riferimento politico-culturale contro-rivoluzionario “di tipo vandeano” al “mito” della Rivoluzione di Francia, “se si accettano certe confluenze ideologico-celebrative, le risposte possono essere solo positive: ma non vi consentono né la storia, né gli ideali della più alta tradizione europea. Sarebbe come se in Italia celebrassimo la Santa Fede o il Viva Maria! toscano, il cardinale Ruffo e i Borboni o i Savoia della Restaurazione. Niente male, davvero, per cominciare il secolo XXI” (È come se noi onorassimo il Sanfedismo, in Corriere della Sera, 24-9-1993).
Nel mese di ottobre del 1993, il professor Reynald Secher ha compiuto un breve ciclo di conferenze in Italia, in occasione del secondo centenario del genocidio vandeano. Reynald Secher, dal 1989 a oggi, è stato più volte protagonista di congressi e di conferenze organizzate da Alleanza Cattolica, a partire dal convegno internazionale Contro l’Ottantanove. Miti, interpretazioni e prospettive, svoltosi a Roma il 25 e 26 febbraio 1989 (cfr. “Contro l’Ottantanove. Miti, interpretazioni e prospettive”, in Cristianità, anno XVII, n. 167-168, marzo-aprile 1989), che fu l’occasione della sua prima comparsa pubblica italiana e l’avvio della sua notorietà nel nostro paese. Hanno fatto seguito, poi, numerose altre manifestazioni, incontri e conferenze, organizzati direttamente o indirettamente da Alleanza Cattolica (cfr., per esempio, Reynald Secher: il genocidio vandeano, in Cristianità, anno XX, n. 207-208, luglio-agosto 1992).
Il 27 ottobre 1993 Reynald Secher ha tenuto una conferenza dal titolo Vandea 1793-1993: la memoria di un genocidio, organizzata da Alleanza Cattolica nella Sala delle Colonne Verdi, presso la parrocchia di Santa Francesca Romana in Milano, brevemente introdotto dell’avvocato Benedetto Tusa, dell’associazione promotrice. La conferenza è stata annunciata, il giorno stesso, sul Secolo d’Italia, e un’intervista con lo storico francese — raccolta nell’occasione — è comparsa, a cura di Fabrizio Crivellari, su L’Italia settimanale (anno II, n. 46, 17-11-1993, pp. 48-49), con il titolo Robespierre, padre dei razzisti. Al termine della serata milanese è stata registrata un’intervista — introdotta dal dottor Enzo Peserico, di Alleanza Cattolica — con lo studioso francese, per Radio Onda Verde, di Cremona. Il 28 ottobre Reynald Secher ha parlato, sempre a Milano, alle alunne della scuola Monforte, mentre il 29 ha trattato il medesimo tema per gli alunni della scuola Argonne.
Il 30 ottobre Reynald Secher si è trasferito a Bologna dove è stato ricevuto dall’arcivescovo, S. Em. il card. Giacomo Biffi. Nel corso della mattinata lo studioso ha tenuto una conferenza — organizzata dal Centro Culturale Enrico Manfredini nella sala di rappresentanza della Cassa di Risparmio, con il patrocinio dell’università, e ampiamente annunciata dalla stampa locale — dal titolo Quando uccidono un popolo, introdotto dal card. Giacomo Biffi. Entrambi gli oratori sono stati presentati dal dottor Raffaello Vignali, presidente del sodalizio organizzatore, che, fra l’altro, ha detto: “Nel titolo che abbiamo dato alla giornata odierna, abbiamo tentato di sviluppare questi spunti: un momento del tempo, un accadimento cruento e terribile, un giudizio: quando uccidono un popolo. Sono mutati i tempi, sono diversi i contesti da quello che il proto-comunista Gracchus Babeuf già stigmatizzava, ma il popolo può essere sempre ucciso dall’ideologia del momento, assuma essa l’abito sanguinoso della guerra o quello più apparentemente rispettabile dell’omologazione sociale. Soprattutto quando l’ideologia — fosse anche quella dello Stato — pretende di eliminare la libertà religiosa, o meglio la Libertas Ecclesiae, che è la condizione di ogni libertà civile”.
Nell’introduzione — integralmente pubblicata in Avvenire, del 31 ottobre 1993, nel supplemento regionale Bologna Sette, con il titolo Biffi ricorda Manzoni — il card. Giacomo Biffi ha, fra l’altro, ricordato che “la diffusa tendenza a vedere nella Rivoluzione Francese un evento tutto luminoso e positivo, senz’ombre e senza peccati, “è una prospettiva — dicevo quattro anni fa — che dà risultati storiografici di notevole comicità, sia pure involontaria”. Purtroppo proprio questa visione encomiastica è ancora quotidianamente imposta nelle nostre scuole e nella divulgazione corrente, nonostante le revisioni che ormai in sede scientifica si stanno affermando, specialmente in Francia”.
“Non si può disconoscere — ha proseguito il porporato — che nel 1789 si è messo in moto un processo sociale e politico che ha portato in molte parti della terra al pubblico riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo e alle forme democratiche di vita associata. Anche se bisogna pur ammettere che le genti anglosassoni sono arrivate per altra strada, a minor prezzo e con esiti generalmente più soddisfacenti, agli stessi risultati.
“Ma non si può nemmeno ignorare che col genocidio vandeano, col regicidio e con il Terrore si è affermato esplicitamente ed è stato applicato per la prima volta su larga scala il principio che sia legittimo e perfino doveroso sopprimere chi è personalmente innocente in vista dell’attuazione di un programma, dell’imposizione di persuasioni ritenute indiscutibili, del trionfo di una ideologia”.
“In quanto è avvenuto nel 1793— sono sempre parole dell’arcivescovo di Bologna — trovano le loro premesse le stragi che hanno insanguinato l’intero secolo XX in nome o di un assurdo ideale di giustizia, o di un’aberrante esaltazione di una nazione o di una razza, o di un egoismo mascherato da civile comprensione (come avviene nelle odierne legislazioni contro la vita).
“Da quanto è avvenuto nel 1793 hanno trovato il primo impulso e la propria legittimazione i grandi criminali del nostro tempo, come Lenin, Stalin, Hitler, con tutta la schiera dei loro sciagurati imitatori.
“Ricordiamoci dunque dell’89 e ricordiamoci del 93: prendiamo atto di tutto ciò che è avvenuto, senza esclusioni, e riflettiamoci sopra”.
Le parole del porporato sono state ampiamente riprese e talora commentate, e due di questi commenti appaiono particolarmente degni di nota, in quanto rivelatori di atteggiamenti ideologici precisi.
Il primo commento è di Giordano Bruno Guerri, che scrive “Biffi straparla ed è in malafede”, aggiungendo: “Quello di Biffi è un tentativo di restaurazione della peggior specie. Il cardinale riprende tesi vecchie di due secoli, già usate ed abusate dalla Chiesa per dire che tutti i mali della società moderna nascono dalla Rivoluzione. La verità è che la Chiesa in questo periodo ha ripreso slancio aggressivo sulla base della debolezza intellettuale dei laici. Le ultime uscite dei vescovi sono la logica conseguenza della posizione oscurantista del Sillabo, come quella espressa dal papa nella “Veritatis Splendor”, il cui succo non è altro che questo: non c’è salvezza fuori dalla Chiesa, e l’unica cosa che dovete fare è obbedire al papa, senza possibilità di discussione”. Dunque — conclude il giornalista “storico” — “per me, invece, la rivoluzione è uno degli eventi più positivi di tutta la storia umana” (Ma lo storico ribatte “Il cardinale straparla”, in L’Indipendente, 31-10/1-11-1993).
Il secondo commento è di Carlo Ghisalberti che a sua volta scrive: “Il ricordo di quella forza e di quella violenza sembrano ancora turbare le coscienze e dilacerare gli animi di molti offuscando ai loro occhi l’immagine degli eserciti della rivoluzione che da Valmy a Waterloo hanno cambiato il corso della storia europea ed inducendoli, addirittura, come ha fatto Solzhenicyn, e ora sembra fare il cardinale Biffi, a negare ogni positività di quella storia per le conseguenze che da essa sarebbero scaturite culminando nei più spietati totalitarismi contemporanei, e cioè in quello nazista e in quello sovietico.
“È una tesi che non si può accettare perché l’Europa democratica e liberale ha tratto dai principi dell’89 non soltanto la forza morale per resistere al fascismo ed al nazismo ma anche di opporsi al comunismo che qualche conservatore, ripercorrendo strade già note, vuole polemicamente far derivare dalla rivoluzione francese, contestandone e negandone, in nome della Vandea, il significato più autentico” (Bisogna andarci piano con l’elogio della Vandea, in il Giornale, 1-11-1993).
Reynald Secher — discendente sia da bretoni che da vandeani — nasce a Nantes il 27 ottobre 1955. Di formazione giuridica e storica, si laurea in lettere e il 14 aprile 1983 discute una tesi di dottorato del 3° ciclo in scienze storiche e politiche all’università di Parigi IV-Sorbona dal titolo Anatomie d’un village vendéen: La Chapelle-Basse-Mer, relatore il professor Jean Meyer, di fronte a una commissione di cui fanno parte i professori Pierre Chaunu e André Corvisier. Tale tesi è successivamente pubblicata con il titolo La Chapelle-Basse-Mer, village vendéen. Révolution et contre-révolution, con una Prefazione di Jean Meyer (Perrin, Parigi 1986).
Nel 1985, sempre all’università di Parigi IV-Sorbona Reynald Secher sostiene una tesi per il dottorato di ricerca in lettere e scienze umane, dal titolo Contribution à l’étude du génocide franco-français: la Vendée-Vengé, relatore sempre il professor Jean Meyer e i professori Pierre Chaunu, André Corvisier, Yves Durand, Louis Bernard Mer, Jean Tulard e Jean-Pierre Bardet membri della commissione. Codesta tesi — rubata al suo autore pochi giorni prima di venire discussa (cfr. La thèse de Doctorat sur le génocide vendéen disparait, in Presse Océan, 19-9-1985) — è pubblicata come Le génocide franco-français: la Vendée-Vengé (Presses Universitaires de France, Parigi 1986), con una Prefazione di Jean Meyer e una Presentazione di Pierre Chaunu (trad. it., Il genocidio vandeano, Effedieffe, Milano 1991). “La Vandea, il 21 settembre 1985, è entrata alla Sorbona dalla porta principale”: così Pierre Chaunu ha scritto nella Presentazione di tale opera (p. 17), della quale dice, “[…] il libro è di Reynald Secher, ma il titolo è proprietà mia, dal 1983″ (Le grand déclassement. À propos d’une commemoration, Robert Laffont, Parigi 1989, p. 11). Poi Reynald Secher cura — con Jean-Joël Brégeon — la ripubblicazione del libro di Jean-Nöel “Gracchus” Babeuf, La guerra di Vandea e il Sistema di spopolamento (trad. it, Effedieffe, Milano 1991), a cui fanno seguito la guida storico-turistica La guerre de Vendée. Itinéraire de la Vendée Militaire (Tallandier, Parigi 1989), il romanzo “Les Vire-Couettes” (Presses de la Citè, Parigi 1989) e Juifs et Vendéens. D’un génocide à l’autre. La manipulation de la mémoire (Olivier Orban, Parigi 1991). Conscio della necessità di raggiungere anche il pubblico non specialistico, Reynald Secher cura la preparazione scientifica di alcune video-cassette nonché la sceneggiatura e la redazione dei testi di alcuni albi a fumetti, realizzati in collaborazione con il disegnatore René Le Honzec. Dal 1991, lo studioso francese dirige una propria casa editrice, le Éditions Reynald Secher di Noyal-sur-Vilaine. Già docente in diversi college, licei e scuole superiori, nonché, per un anno, all’università del Diritto di Rennes, attualmente Reynald Secher insegna a Sciences Com, di Nantes, e presso l’ESIG, l’École Supérieure d’Informatique et de Gestion, di Rennes, svolgendo corsi sulla cultura e sull’identità della regione della Loira. Dal 1986 al 1989, lo studioso ha ricoperto la carica di direttore della Comunicazione del Consiglio Regionale del Poitou-Charentes, mentre dal 1990 è consigliere culturale del Patronat Breton.
In occasione delle diverse conferenze italiane, nel corso di lunghe conversazioni — durante le quali lo studioso ha spesso fatto riferimento all’opera di Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, per descrivere l’eredità culturale e ideologica della Rivoluzione del 1789 —, ho raccolto un’intervista.
D. Perché ha deciso di dedicarsi allo studio delle guerre nella Francia Occidentale?
R. Da parte di madre discendo da una famiglia vandeana che fu oggetto di una repressione particolare ad opera dei rivoluzionari. Ma, benché conoscessi alcuni fatti di questa vicenda, non ne ero stato influenzato significativamente per la semplice ragione che non avevo mai risieduto in Vandea abbastanza a lungo, avendo condotto i miei studi soprattutto in Bretagna. La ragione per la quale mi sono poi dedicato a codesti studi è altrettanto semplice: il “caso”. Ossia il caso dell’incontro — in un luogo ben preciso, il corridoio dell’università… — con il grande studioso francese, d’origine alsaziana, Jean Meyer, docente alla Sorbona. La consuetudine, in Francia, vuole che il soggetto della tesi di laurea venga assegnato al laureando dal docente: quando mi recai da Jean Meyer per sollecitare la scelta dell’argomento della mia ricerca, egli non sapeva che cosa propormi. Ne discutemmo nei corridoi dell’università e, al momento della separazione, egli ebbe l’idea di un lavoro sulla Vandea. Il fatto interessante è che, di fronte a questa sua proposta, fui relativamente reticente perché ero convinto che gli avvenimenti occorsi in Vandea fossero ormai ben conosciuti e, soprattutto, perché ritenevo acclarato che tali fatti non avessero alcuna importanza di per se stessi, se non in quanto esempio della reazione di una popolazione che non era più d’accordo con uno Stato desideroso di affermare soltanto il proprio benessere. Fui piuttosto contrario a tale studio finché Jean Meyer non mi fece comprendere che non era mai stata condotta alcuna ricerca scientifica sull’intera vicenda e che rimaneva, dunque, ancora molto da analizzare a livello tanto documentale quanto formale. Questo accadeva nel 1978; le mie ricerche sono durate fino al 1986, lavorando soprattutto a partire da documentazione privata, conservata da sacerdoti, da religiosi e da famiglie contadine, artigiane, borghesi e nobili. Parallelamente a tale documentazione privata vi era pure documentazione pubblica, sia militare, sia civile: quella militare, in particolare, si trova concentrata presso gli archivi della fortezza di Vincennes — vicino a Parigi —, mentre quella civile si trova normalmente presso i municipi, presso i dipartimenti o presso gli archivi nazionali.
D. Quali sono stati i problemi che ha dovuto affrontare per aver sostenuto la sua tesi sul genocidio vandeano alla Sorbona e per aver poi pubblicato i suoi libri sul medesimo tema?
R. All’epoca ero molto giovane e non ero del tutto cosciente del problema che la ricerca sulla Vandea avrebbe posto. Ovviamente, il relatore e io sapevamo che tale ricerca era stata di fatto vietata per duecento anni circa, ma credevamo che ciò fosse dovuto a motivazioni banali. In un secondo tempo ci siamo resi conto che, effettivamente, questa volontà di non ricordare i fatti occorsi in Vandea era maggioritaria, e che causava quindi una serie di problemi per quanto concerneva l’accesso alle fonti documentarie, l’ottenimento di sovvenzioni per la ricerca e altre questioni d’ordine amministrativo. Comunque, è importante che, nonostante grandi difficoltà, sia riuscito a concludere i miei studi. La situazione si è poi evoluta molto più rapidamente una settimana prima di discutere la tesi alla Sorbona, dato che Pierre Chaunu aveva parlato di questi miei studi ai giornali, sostenendo che davvero in Vandea si era praticato un genocidio e che finalmente tutto questo era stato inoppugnabilmente e scientificamente dimostrato. Devo solo constatare che una settimana prima della discussione della tesi il mio appartamento a Rennes è stato svaligiato e che le copie della stessa tesi mi vennero sottratte; che pure, in un secondo tempo, cinque giorni prima della discussione, un funzionario di dipartimento della Pubblica Istruzione mi convocò per domandarmi di non sostenere — in nome della Francia — codesta tesi che stava per infrangere un mito, quello della Rivoluzione. Ben inteso, mi sarebbero stati dati compensi, sia professionali che economici. Non potei naturalmente accettare, dato che — come storico fuori dall’ottica ideologica —, ero e sono animato soltanto dal desiderio di narrare i fatti reali. Se si rilegge tutta la documentazione su questa vicenda, è interessante notare che Pierre Chaunu — si è cercato di comperare anche lui, senza alcun successo… — ha notificato, a conclusione del verbale della discussione della mia tesi, che, a causa della profondità, della serietà e delle conseguenze delle mie ricerche, la mia carriera universitaria sarebbe stata interrotta: gli avvenimenti successivi gli hanno dato ragione. Fui diffamato dai giornali, la mia famiglia fu coinvolta e fui quindi costretto a dimettermi dall’insegnamento pubblico e, dato che l’insegnamento superiore francese è relativamente ideologizzato, non ho più potuto insegnare negli atenei, cosicché oggi svolgo attività d’insegnante presso istituzioni private.
D. I suoi studi sulla Vandea hanno, dunque, costituito un approccio del tutto nuovo al tema, soprattutto per quanto riguarda l’idea e la realtà del “genocidio” perpetrato contro la popolazione della regione insorta. Nessuno prima di lei aveva, infatti, documentato il piano genocida ordito dalla Convenzione…
R. Riguardo alle pubblicazioni precedenti i miei studi, è interessante il fatto che si conosceva piuttosto bene un certo numero di avvenimenti, come le grandi battaglie, le vite dei capi dell’insurrezione, e così via. Per contro, non si aveva conoscenza alcuna della programmazione, della votazione e della realizzazione sul terreno del genocidio. Ossia, nessuno aveva riflettuto su questa tematica e sull’enormità stessa di tale fatto. Quando iniziai le ricerche, non era assolutamente mia intenzione giungere a tale scopo: ho ricostruito questo puzzle, allora sorprendente, sulla base dello svolgimento scientifico del mio studio. Mi sono, dunque, reso conto che lo Stato francese aveva votato un certo numero di provvedimenti, che un certo numero d’ordini era stato trasmesso alle truppe e che queste stesse avevano ligiamente eseguito tali ordini. In breve mi resi conto che i fatti di Vandea non erano assolutamente una semplice somma di massacri — la terminologia è molto importante —, ma che corrispondevano a un piano di sterminio e di annientamento che era stato — ripeto — programmato, votato e realizzato dalla Convenzione.
Nel mese di aprile del 1793, il ministro Bertrand Barère, membro del Comitato di Salute Pubblica, fu il primo a utilizzare il termine “sterminio” nei confronti della Vandea. Poi — questa è l’unicità storica del caso vandeano — la Convenzione votò ben tre leggi al fine di eliminare una parte del popolo francese, ossia una parte del popolo che essa rappresentava: 1. la legge del 1° agosto dello stesso anno, che prevedeva l’annientamento fisico del territorio vandeano e la distruzione di tutte le ricchezze, degli abitati, delle foreste e dell’intera economia, secondo la politica della “terra bruciata”; 2. poi, la legge del 1° ottobre che ordinava lo sterminio fisico di tutti gli abitanti del territorio insorto, principalmente delle donne, in quanto “solchi riproduttori”, e dei bambini, in quanto “futuri briganti”; 3. finalmente, la legge del 7 novembre, che toglieva al dipartimento il nome di Vandea, per sostituirlo con quello di Vengé, ossia “dipartimento vendicato”, seguendo la stessa idea secondo cui la ghigliottina era “vendicatrice del popolo” e il boia “vendicatore”: si disse, infatti, che gli insorti erano “fuori legge”, dunque non più buoni repubblicani, pertanto non più uomini, ma solo animali che non potevano possedere un territorio loro proprio… È la “vendetta nazionale”… Gli orrori si moltiplicarono dopo la fine della guerra civile, nel dicembre del 1793. Il progetto era quello di creare l’”uomo nuovo” repubblicano e così, con ogni mezzo, si dovevano sterminare gli oppositori: fucilazioni, ghigliottina, annegamenti nei fiumi, camere a gas, avvelenamento, ma — soprattutto — le famose Colonne Infernali del generale Louis Marie Turreau de Garambouville, la flotta schierata sulla Loira e il Comitato di Sussistenza, incaricato del saccheggio. Si bruciarono i corpi dei vandeani, si conciò la pelle umana… Su circa 815.000 abitanti, oggi si calcola che almeno 117.000 persone circa scomparvero: ma il problema è quello di stabilire se l’ordine di sterminio da parte della Convenzione — la legge del 1° ottobre —, da attuarsi soprattutto con l’eliminazione delle donne, fu eseguito. Grazie agli archivi parrocchiali si è potuto verificare che fra il 70 e l’80 % delle vittime furono donne. Con riferimento alla legge del 1° agosto, poi, ho cercato di stabilire se anche la volontà di distruggere economicamente il territorio venne rispettata. Si è acclarato che circa un quinto delle case della Vandea furono distrutte, con apici di circa l’80 % in alcuni villaggi. Per esempio a La Chapelle-Basse-Mer furono distrutte circa una casa su tre: ricostruendo il valore immobiliare di tutte le case, è stato possibile rilevare che le abitazioni abbattute rappresentavano circa il 51% della ricchezza. Si distrussero di preferenza i borghi centrali, attorno ai quali orbitavano villaggi minori, in quanto centri commerciali e di ricchezza: con questo sistema è stato addirittura possibile ricostruire in dettaglio gli itinerari seguiti dalle sei Colonne Infernali.
D. Lei sostiene che in Vandea, per la prima e l’ultima volta nella storia, uno Stato — il popolo sovrano — ha votato, ordinato ed eseguito lo sterminio sistematico e voluto di una parte di sé stesso. Una delle critiche a tale descrizione, sostiene sofisticamente che essa “relativizzerebbe” l’olocausto ebraico…
R. Sostengo che il genocidio vandeano è un fatto unico nella storia per quanto riguarda le modalità adottate. Fu il popolo sovrano a concepire, a votare, a programmare e a eseguire lo sterminio. Per quanto riguarda l’olocausto ebraico, i fatti non si svolsero assolutamente così: si trattò di un uomo, insieme a un gruppo di altri uomini, che concepì e fece eseguire lo sterminio di una minoranza — quella ebraica — presente sul territorio nazionale. Costoro agirono senza la partecipazione del resto della popolazione nazionale, la quale non potè direttamente o indirettamente esprimere la propria opinione.
D. Com’è stato possibile che nessuno, prima, abbia scoperto i documenti pubblici da lei utilizzati per le ricerche, evidenziandone i contenuti e i risvolti profondi?
R. La ragione è molto semplice, benché duplice. La spiego nel mio Juifs et Vendéens. D’un génocide à l’autre. La manipulation de la mémoire: quanti hanno concepito il crimine, hanno pure concepito tutta una politica di manipolazione della storia proiettata verso il futuro. Maximilien Robespierre, mentre sterminava i vandeani, offrì alla storia una giustificazione. E il secondo aspetto è costituito dal fatto che tutta questa vicenda è stata vietata alla ricerca universitaria per duecento anni circa. Nessuno studioso ha, dunque, compreso e ricostruito questo sterminio. Chi volete che si ricordi degli avvenimenti? Nessuno. Infatti, da un lato si ha una storiografia ufficiale completamente manipolata e, di conseguenza, una storiografia scientifica che diviene ufficiosa; dall’altro lato, parallelamente, si ha il fatto che nessuno scienziato ha potuto ricostruire il mosaico. Così si è giunti all’ignoranza dei fatti che ho denunciato, il che dimostra come la manipolazione della memoria storica sia perfettamente riuscita.
D. Prima delle sue pubblicazioni si sono contate fino a circa 15.000 opere sulle guerre nella Francia Occidentale: eppure, nessuna di esse è riuscita a descrivere compiutamente l’intero meccanismo del genocidio vandeano. Così la novità dei suoi studi è stata quella di aver offerto il quadro di riferimento — l’esplicito progetto di genocidio —, al quale devono essere ricondotte tutte le altre narrazioni e tutti gli altri particolari dell’accaduto.
R. Certamente sì. Grosso modo, esistono due scuole storiografiche sul tema. Una scuola definibile come “conservatrice” — che denunciò in nome del re e della Chiesa i massacri della popolazione —, molto precisa riguardo ai fatti, senza peraltro aver compreso quanto stava dietro l’accaduto e che ragionava, così, solo in termini di “massacro”. L’altra è la scuola “ufficiale” precedentemente ricordata — prima “repubblicana” e poi marxista —, giustificatrice della necessità di sterminio della popolazione in quanto ribelle contro una repubblica “buona e generosa”. Bene inteso, quest’ultima scuola ha giustificato i massacri secondo l’ottica che considerava i vandeani come traditori dell’ideologia e della patria, dato che essi avevano sollecitato l’aiuto degli stranieri e dei francesi emigrati, fuggiti all’estero. Dunque, nessuno poteva spiegare i fatti obbiettivamente, perché il dibattito storiografico era divenuto un dibattito esclusivamente ideologico. Tutto il mio lavoro è consistito, fuori dall’ideologia e dalla partigianeria politica, nel ricostruire il quadro giuridico di fondo, oltre a tutto quanto è poi concretamente accaduto sul terreno, in relazione appunto alle misure legali adottate. Questo è l’inedito.
D. Come le è stato possibile ritrovare i documenti privati e riscoprire quelli pubblici, e quali metodi scientifici ha adoperato per la sua indagine storica?
R. L’itinerario che Jean Meyer mi ha fatto seguire è stato assolutamente e giustamente scientifico. Il mio relatore e io avevamo chiara coscienza del fatto che esistevano migliaia di libri sul tema, ma abbiamo preso le mosse dalla constatazione che tali libri avevano avuto un’impostazione esclusivamente polemica o ideologica: da qui la necessità di ritornare alle fonti primarie. Ci siamo così posti la domanda fondamentale se tali fonti esistessero ancora. Si è deciso di partire analizzando un determinato Comune, ossia La Chapelle-Basse-Mer, nel tentativo di ricostruire il quadro dell’intera documentazione generale del territorio insorto. Nello stesso tempo abbiamo adoperato questa specie di “quarantena scientifica” per mettere a punto metodi di proiezione e di analisi. La grande scoperta è stata, in realtà, questa: ci siamo resi conto che le fonti primarie esistevano, ma che, siccome nessuno le aveva adoperate, esse erano sparse dappertutto, sia nel senso delle strutture amministrative pubbliche o di quelle private che le conservavano, sia nel senso propriamente geografico, perché le fonti erano distribuite tanto in Bretagna quanto nelle regioni della Vandea Militare o del resto di Francia, e oltre le frontiere nazionali, principalmente in Belgio, in Italia, in Gran Bretagna e anche in Canada, negli Stati Uniti d’America e in Australia. Così abbiamo condotto un’enorme indagine documentaria, ottenendo un certo numero di tessere del mosaico, che abbiamo alla fine ricondotto a unità.
D. Dunque, lo studio per la sua tesi del 3° ciclo, in scienze storiche e politiche, poi reso pubblico come La Chapelle-Basse-Mer, village vendéen. Révolution et contre-révolution, costituisce la prima ricerca specifica sul tema, dilatando la quale lei ha potuto descrivere il quadro generale.
R. Sì, certamente. Lo studio sul villaggio di La Chapelle-Basse-Mer è stato decisivo. Poiché la mia formazione è poliedrica — ossia letteraria, giuridica, storica, geografica e imprenditoriale —, mi sono trovato a utilizzare un metodo scientifico che non è solo quello tradizionalmente storico, ma piuttosto una somma di diversi metodi del tutto originale. Il mio relatore e io abbiamo così lavorato sul “laboratorio” costituito dal villaggio di La Chapelle-Basse-Mer, un villaggio molto importante in quanto Comune crocevia fra la Vandea Militare e la Bretagna, oltre a essere geograficamente primo comune-parrocchia della Bretagna, prima parrocchia della Vandea Militare, parrocchia della valle della Loira e parrocchia dell’Anjou. Dunque, una parrocchia dove tradizioni, usi e costumi differenti si sono confrontati, magari si sono scontrati, comunque segnando profondamente la popolazione, tanto a livello culturale che a livello politico, sociale, economico e religioso. Il nostro lavoro ha cercato di spiegare quanto avvenne in questo villaggio prima, durante e dopo l’insurrezione, con tutte le conseguenze — lungo i secoli XIX e XX — culturali, sociali, economiche e religiose, oltre che a livello strettamente ecclesiale. Così, assunto come dato un Comune, abbiamo circoscritto tutto quanto poteva esservi accaduto, estrapolando da qui, infine, il metodo per l’intera Vandea Militare.
D. Perché avete deciso di ripubblicare il libro La guerra di Vandea e il Sistema di spopolamento del “proto-comunista” Gracchus Babeuf?
R. Anche per tutto quanto concerne il pamphlet di Gracchus Babeuf si può parlare di caso. La pubblicazione in Francia della prima edizione del mio Il genocidio vandeano, nel 1986, diede origine a un grande dibattito. La polemica veniva soprattutto dagli ambienti di sinistra, “freddati” a livello ideologico in quanto essi si consideravano come i figli della Rivoluzione francese e non potevano tollerare che la propria “madre” avesse commesso un genocidio. Inoltre, la sinistra voleva commemorare il bicentenario, nel 1989, con grandi festeggiamenti e si riteneva di non poter far festa attorno a un genocidio. Fra l’altro, si cercò di far credere all’opinione pubblica che il mio approccio nei confronti della Vandea Militare risentiva dell’attualità e della modernità, prendendo significato solo in rapporto ai crimini che il nazionalsocialismo tedesco aveva perpetrato contro gli ebrei, i cattolici e gli zingari durante la seconda guerra mondiale. Dunque, si voleva far credere all’esistenza di un anacronismo di pensiero e di concetto. Avevo già avuto occasione di mostrare il rigore degli studi condotti, nonché per illustrare i documenti originali utilizzati: dovevo soltanto provare che, all’epoca dei fatti, si ebbe coscienza dell’enormità del crimine commesso. Tutto ciò assomigliava molto a un “falso problema”, ma era comunque difficile, di fronte all’opinione pubblica, superare tale questione. Evidentemente l’ideale era dimostrare tutto questo con scritti, elemento che ci mancò finché non fu riscoperto il libro di Gracchus Babeuf. Esso costituisce la reazione di un uomo, noto come il “padre del comunismo”, scandalizzato dai crimini commessi contro l’umanità. Gracchus Babeuf fu non solo contemporaneo degli avvenimenti, ma perfettamente in grado di comprendere quanto era realmente successo. Da qui la sua denuncia fatta in occasione del primo processo contro alcuni responsabili di tali crimini: con il suo pamphlet intese spiegare al giudice del tribunale la realtà dei fatti e, nello stesso tempo, mostrare di avere piena coscienza del fatto che, in ragione della strategia della comunicazione adoperata da Maximilien Robespierre e dalle sue comparse, la storia avrebbe rischiato di non rammentarsi più, nel futuro, di tali crimini. Gracchus Babeuf — lo afferma nella parte introduttiva — scrive per la storia. E aveva ragione: la storia, non solo ha dimenticato tutto questo, ma l’ha innanzitutto negato. Infine, il pamphlet di Gracchus Babeuf è importante, perché ci ha permesso di rispondere alla domanda dalla quale eravamo partiti: ossia, se i mandanti e gli esecutori del genocidio sapevano quanto stavano compiendo. Gracchus Babeuf permette anche di rispondere all’interrogativo sull’identità e sulle motivazioni dei mandanti, una domanda a lungo disattesa. Si trattò di Maximilien Robespierre, un ideologo fanatico e convinto di detenere il monopolio della verità, fuori dalla quale non si può avere “salvezza”. Le sue motivazione furono ugualmente ideologiche: bisognava creare l’”uomo nuovo” e, per questo, si dovevano sterminare tutti coloro la cui mentalità non coincideva con gli schemi dell’ideologia. Dividendo i francesi in “buoni” e in “cattivi”, lo sterminio venne praticato soprattutto a partire dai sacerdoti, dagli anti-rivoluzionari in armi e dai contro-rivoluzionari coscienti: un progetto che si voleva estendere a tutto il territorio nazionale. Perciò la Vandea fu un vero e proprio “laboratorio” per la “rigenerazione”…
Ma esiste anche una seconda interessante motivazione d’ordine economico. Maximilien Robespierre mostrò di avere un approccio “malthusiano ante litteram” rispetto alla realtà economica: ossia, a causa della difficile crisi finanziaria prodotta dalla guerra contro le potenze estere, il prodotto alimentare interno risultava insufficiente per sovvenire alle necessità della popolazione. Di conseguenza, poiché non vi era più nutrimento sufficiente per tutti, si rese necessaria la soppressione di una parte della popolazione, iniziando da tutte le “bocche inutili”, come parroci, “buone suore”, aristocratici e nobili. Ma quando ci si rese conto che l’insieme di tutti costoro non costituiva un numero sufficiente, si decise di sterminare interi gruppi umani, iniziando da chi “si era permesso” di prendere le armi contro la Rivoluzione. Primi fra tutti coloro che si opponevano alla Rivoluzione con ferme motivazioni d’ordine ideale. L’opuscolo di Gracchus Babeuf, scritto nel mese di dicembre del 1794, ha una storia interessante: fu vietato e distrutto, per essere da noi ritrovato quasi per caso circa duecento anni dopo. Non si tratta, per altro, di un pamphlet qualunque, ma del libro di un giornalista cosciente del proprio prodotto, che scrive — lo ripeto — per la storia.
D. Quando, in che modo e come è stato ritrovato tale libro?
R. Il libro fu trovato per caso da Jean-Joël Brégeon, uno studioso di storia locale che stava lavorando sull’affaire Jean-Baptiste Carrier, il responsabile a Nantes degli eccidi perpetrati dai repubblicani. Egli non comprese immediatamente l’importanza dell’opera, citandomela, appunto, fortuitamente. Devo confessare che anch’io, quando mi venne mostrata, non ne compresi subito il valore: solo dopo averla letta, ritenni che valesse la pena di ripubblicarla, onde porre fine a quello che ho definito un “falso problema”, quantunque certamente rilevante.
D. Perché, dopo la caduta di Maximilien Robespierre e di Louis Saint-Just, il 9 termidoro dell’anno II — 27 luglio 1794 —, l’opera di Gracchus Babeuf, di fatto anti-robespierrista e anti-giacobina, venne ritirata e distrutta?
R. Non furono i termidoriani a far scomparire il pamphlet. Costoro, dopo il colpo di Stato che mise fine al Terrore giacobino, vollero mantenere il ricordo dell’accaduto in funzione anti-robespierrista: per questa ragione fu permesso a Gracchus Babeuf di pubblicare l’opuscolo. Ma, successivamente, si ebbe un ritorno al potere, secondo logiche di lotte interne, dei convenzionali “puri e duri”: proprio costoro distrussero l’opera babuviana.
D. Nel Dizionario storico della Rivoluzione francese, pubblicato da Jean Tulard, Jean-François Fayard e Alfred Fierro (trad. it., Ponte alle Grazie, Firenze 1989), alla voce Reazione termidoriana, si legge: “Questa denominazione è del tutto aberrante ed è stata inventata dagli storici favorevoli al terrore. Alla caduta di Robespierre non vi fu nessuna “reazione”. Il potere restò nelle mani di regicidi, repubblicani, ex terroristi che si limitarono a porre fine alle esecuzioni in massa del Gran Terrore. La ghigliottina continuò a funzionare, solo con minore frequenza, le teste dei sostenitori di Robespierre caddero, ma continuarono a cadere anche quelle dei preti refrattari e dei fautori della monarchia. La linea politica dei Termidoriani corrisponde al sogno di Danton: una repubblica rigorosa ma moderatamente repressiva. La presenza della gioventù dorata, chiassosa ma priva di potere politico, non è sufficiente per trasformare i Termidoriani in reazionari che volevano restaurare la monarchia” (p. 841). È d’accordo con questa definizione, che può aggiungere informazioni interessanti proprio sul “dopo Terrore”?
R. Gli autori hanno perfettamente ragione: perché i termidoriani hanno compiuto il loro colpo di Stato contro Maximilien Robespierre? Per ragioni molto semplici: in un suo famoso discorso, egli fu tanto vago in merito all’identità dei suoi oppositori che tutti iniziarono a preoccuparsi. Anche i suoi colleghi convenzionali ebbero paura di ritrovarsi, prima o poi, sotto la lama della ghigliottina, dato che Maximilien Robespierre, desideroso di “rigenerare” il popolo francese, aveva deciso d’iniziare proprio “rigenerando” la Convenzione. Codesta “reazione” ha avuto come unico scopo quello di “salvare la pelle” di alcuni convenzionali, che non si allontanarono affatto dal governo: questo farà ritornare al potere elementi più radicali, e causerà la ripresa di tutte le rigide misure di repressione.
D. Oltre le ragioni politiche oggettive che hanno permesso a Gracchus Babeuf di pubblicare il suo testo accusatorio, quali sono le motivazioni d’ordine soggettivo che lo hanno spinto a scrivere? Gracchus Babeuf non era certo un contro-rivoluzionario, eppure offre strumenti per una critica seria e radicale alla Rivoluzione francese…
R. Egli lo spiega perfettamente: infatti, questo autore populista fu spinto a scrivere da tre ragioni. La prima è che si considerava un democratico, per il quale è inaccettabile il fatto che il popolo sovrano stermini… la popolazione, o una parte di essa. In secondo luogo, per via dei mezzi stessi che furono impiegati per il genocidio: mezzi barbari e terroristici, che egli non potè accettare. Infine, per terzo, Gracchus Babeuf era convinto che il cambiamento della società dovesse avvenire gradualmente e non per mezzo della violenza.
D. Qual è il contenuto del suo Juifs et Vendéens. D’un génocide à l’autre. La manipulation de la mémoire?
R. Il mio Il genocidio vandeano fu un’opera di ricostruzione degli avvenimenti, non di filosofia o di scienza politica. Ossia, in essa ho spiegato i fatti così come si sono svolti. La sua pubblicazione ha generato un certo numero di critiche che mi hanno posto interrogativi nuovi, del tipo: “Come si è giunti a tale manipolazione della memoria storica? Quali sono, poi, le conclusioni che si possono trarre dalla risposta a questa domanda?”. Da qui la necessità — in rapporto a un fatto ben preciso come quello dello sterminio degli ebrei — di spiegare quanto è successo in Vandea. In altre parole, sono partito dalla riflessione sull’accaduto in Vandea per spiegare quanto è accaduto agli ebrei, soprattutto sul tema della revisione e della manipolazione della storia.
In occasione del processo contro Jean-Baptiste Carrier, celebrato nel periodo termidoriano dal 25 vendemmiaio al 26 frimaio dell’anno III — dal 16 ottobre al 16 dicembre 1794 —, molti responsabili vennero riconosciuti colpevoli e quindi giustiziati. Un anno più tardi, Louis Marie Turreau de Garambouville si ritrovò davanti allo stesso tribunale, con le stesse imputazioni. Ma il verdetto mutò: si stabilì che il generale era assolutamente colpevole dei suoi crimini, ma non responsabile in quanto esecutore di ordini. Egli venne graziato, insieme a tutti gli altri uomini politici coinvolti. La memoria storica si conservò, dunque, fino alla caduta di re Carlo X, durante la “rivoluzione di luglio” del 1830. Dopo di lui salì al potere il “re repubblicano” filo-rivoluzionario Luigi Filippo I — che regnò fino al 1848 —, figlio di Luigi Filippo Giuseppe, duca d’Orléans, noto come Philippe Egalité, che aveva votato a favore dell’esecuzione capitale di suo cugino, re Luigi XVI. Il regno di Luigi Filippo I fu l’inizio della negazione e della manipolazione della memoria, anche perché i testimoni oculari erano quasi totalmente scomparsi all’epoca. Alcuni storici vennero appositamente pagati al fine di riscrivere la storia e creare il “mito” della Rivoluzione: fra altri, il “grande revisionista” Jules Michelet, autore, fra il 1847 e il 1852, di una Histoire de la Révolution française. Jules Michelet è il maestro di tutte le scuole storiografiche ideologiche successive.
Verso il 1850 si negò la concia delle pelli umane, ma, dopo ricerche storiche in loco, vennero ritrovati ancora testimoni viventi, benché molto anziani. Anche a livello popolare, quando, verso la fine del secolo scorso, la “storiografia ufficiale” mise in dubbio gli annegamenti collettivi praticati nel 1794, i discendenti dei vandeani reagirono scrivendo numerose lettere di protesta ai giornali. Ho ritrovato tutte queste testimonianze e le ho raccolte nel mio studio… Inoltre, mi sono reso conto che anche un certo numero di storici del secolo XIX ebbe perfettamente coscienza della manipolazione: in particolare il grande Hyppolite-Adolphe Taine che, nell’opera monumentale Les origines de la France contemporaine, scritta dal 1873 al 1893, denunciò in modo molto serio e scientifico la manipolazione della storia, soprattutto relativamente alla Rivoluzione francese.
La “cattedra della Rivoluzione francese”, che venne creata alla Sorbona, è erede di questa “revisione” della storia. Si pensi ai lavori dello storico contemporaneo Michel Vovelle, uomo del Partito Comunista Francese.
D. Lei è anche autore di testi utilizzati per albi a fumetti e per video-cassette sulle guerre dell’Occidente francese e sulla storia della Bretagna, oltreché di un romanzo storico sul genocidio vandeano. È un tentativo per riproporre la verità storica ai giovani e agli studenti, oltre gli stereotipi della cultura e della programmazione scolastica ufficiali, adottando mezzi di uso popolare?
R. Quando uscì Il genocidio vandeano — un’opera per specialisti, che avrebbe rischiato di rimanere stipata nei magazzini della Sorbona… — vi è stata molta sorpresa da parte del pubblico. Ricevetti un certo numero di lettere e incontrai di persona anche gente convinta che tale ricerca sarebbe rimasta confinata ai tecnici. Mi è stato così chiesto di trovare materiali e metodi per volgarizzare e “democratizzare” i miei lavori. Ho riflettuto, dunque, in cerca dei migliori mezzi di comunicazione attuali. È risaputo che il libro — particolarmente quello scientifico — viene letto sempre meno; da qui l’idea di creare fumetti e video-cassette sulle guerre nella Francia Occidentale e sul genocidio vandeano, dato che il fumetto è un genere letto dai giovani e la video-cassetta è, per sua natura, accessibile al grande pubblico. Ho realizzato il romanzo “Les Vire-Couettes” per una sorta di diletto personale, in quanto adoro scrivere e desideravo narrare la storia di un sacerdote vandeano — don Pierre-Marie Robin di La Chapelle-Basse-Mer —, del quale avevo ritrovato tutti gli scritti. Nello stesso tempo questo romanzo poteva anche rispondere al medesimo intento di diffusione della conoscenza.
D. In Italia, paese nel quale non esiste una tradizione seria di pubblicazioni sulla Vandea, è stato tradotta l’opera di Jean-Clément Martin, I Bianchi e i Blu. Realtà e mito della Vandea nella Francia rivoluzionaria (Società Editrice Internazionale, Torino 1989), nella quale si contestano certe cifre relative al genocidio vandeano proposte da Pierre Chaunu e da lei (cfr. pp. 272-276). Jean-Clément Martin cita, inoltre, La guerra di Vandea e il Sistema di spopolamento di Gracchus Babeuf, un “opuscolo dal titolo significativo” (p. 228), del quale, peraltro, non tiene conto in merito alla rilevanza delle gravi accuse in esso contenute…
R. Jean-Clément Martin è un docente universitario che si considera figlio spirituale della scuola di autori come Albert Mathiez, Albert Soboul e Michel Vovelle, ossia di quanti hanno un approccio esclusivamente ideologico rispetto alla Rivoluzione francese: scrivendo in quest’ottica, gli è impossibile riconoscere la realtà dei fatti accaduti in Vandea, perché, se lo facesse, tutti i lavori degli storici citati verrebbero annullati insieme ai suoi. E — non dimentichiamolo —, in quanto membro di quel mondo universitario che ho descritto, Jean-Clément Martin agisce per ragioni di propaganda.
D. Il mondo della cultura ufficiale francese, trascorsi ormai alcuni anni dalla pubblicazione delle sue ricerche, ha ora accettato il fatto che, duecento anni fa, per la Vandea si pensò, si votò, si organizzò e si attuò un vero genocidio?
R. Al momento attuale la quasi totalità del mondo culturale, universitario e politico, ha accettato l’impiego del termine “genocidio”. Effettivamente restano, comunque, alcune resistenze da parte di quanti si sono resi complici nel truccare la storia: costoro non possono e non vogliono riconoscere i fatti, perché ciò significherebbe ammettere di aver mentito. Per gli eredi della “scuola storiografica ufficiale”, ossia la scuola marxista, si tratterebbe di rimettere in discussione tutti i propri scritti…
D. Dopo la fine del “mito” della Rivoluzione bolscevica russa del 1917, si è assistito a una sostanziale ripresa — soprattutto a partire dal bicentenario nel 1989 — del “mito” del 1789 francese, sebbene ci si premuri di separarlo subito dal biennio terroristico 1792-1793. Se quest’ultimo viene assimilato allo stalinismo più “oscurantista”, il 1789 e i suoi immortali “princìpi” vengono descritti come la vera anima “luminosa” della Rivoluzione. Cosa pensa di questo atteggiamento ideologico-culturale?
R. È molto difficile dare una risposta. Infatti, è indiscutibile, e nessuno storico lo può negare, che la società francese immediatamente precedente il 1789 è una “società bloccata”. Se si analizzano gli avvenimenti storici, ci si persuade che un uomo come re Luigi XVI di Borbone, quando salì al trono nel 1774, ebbe perfettamente coscienza della situazione sociale chiusa nella quale si trovava. Così propose un certo numero di riforme che vennero rifiutate da un contro-potere reale, in particolare dalla Nobiltà. Le prime misure adottate, nel 1789, dai rivoluzionari sono del resto le stesse misure correttive proposte da re Luigi XVI. Allora la Rivoluzione francese del 1789 non appare subito “rivoluzionaria” nel senso che le si è voluto dare dopo: ossia, essa non fu immediatamente una rottura ideologica con il passato, ma corrispose a un certo numero di bisogni sociali e di necessità reali già avvertite dal re. La rottura con il mondo precedente giunse quando gli ideologi riuscirono a imprimere le proprie idee nel cuore della Rivoluzione. Esistevano più correnti: nel momento in cui prevalse quella ideologica, la Rivoluzione francese s’incamminò in questa direzione e non più in quella esclusivamente amministrativa e politica.
D. Si può dire che, come sempre, anche nel 1789 francese la Rivoluzione si è servita, per ottenere i suoi scopi, di bisogni reali e di contraddizioni esistenti nella realtà sociale dell’epoca e che, invece di porvi rimedio, essa ha utilizzato e strumentalizzato in modo sovversivo e ideologico tutto questo?
R. Assolutamente sì: in Francia vi erano problemi evidenti a causa delle strutture sociali che risalivano alla fine del Medioevo. Il mondo era cambiato e la politica sociale non corrispondeva più alla realtà dei fatti: si sentiva il bisogno di uno sviluppo, uno sviluppo che è comunque puramente formale. Il problema fu che i “Lumi” proposero un approccio del tutto nuovo nei confronti dell’uomo e della società. Gli ideologi approfittarono dei problemi spirituali e dei problemi sociali concreti per andare molto più lontano della loro semplice soluzione. L’esempio della Vandea è chiarissimo: la gente fu inizialmente favorevole alla ristrutturazione, dato che le riforme erano necessarie. Ma il giorno in cui il dibattito da politico si trasformò in ideologico, avvenne la frattura insanabile. Il simbolo di questa frattura fu l’esecuzione del re di Francia, il 21 gennaio 1793: non si trattò solo dell’esecuzione di Luigi XVI o dell’esecuzione di un re, ma della figura del monarca in quanto tale, di tutta una simbologia, di tutta una concezione della società. Tale esecuzione segnò la rottura filosofica, culturale e sociale che divise per sempre il “mondo di prima” dal “mondo di poi”. I convenzionali avevano coscienza di tutto questo: quando si leggono le deliberazioni del processo istruito contro re Luigi XVI, si trova il tale convenzionale che bene spiega la forte necessità di giustiziare il re, perché con lui si sarebbe giustiziata una concezione della società. Nacque quell’espressione terribile:“Il suo sangue servirà a far fruttificare l’albero nuovo”.
D. Tale visione ricorda da vicino quella del pensatore irlandese Edmund Burke, da lei spesso seguito nell’analisi dei significati della Rivoluzione…
R. Edmund Burke scrisse il suo famoso Reflections on the French Revolution nel 1790, ossia ben prima degli avvenimenti del periodo del Terrore. Egli distinse molto bene la necessità dell’evoluzione della società francese dai pericoli e dagli eccessi che si sarebbero potuti generare, dato il subbuglio e la confusione del momento. Infatti, gli eccessi erano del tutto possibili, considerando la trama delle riflessioni condotte durante il “secolo dei Lumi”. La storia gli ha dato ragione, dal momento che egli aveva perfettamente previsto che la Rivoluzione francese sarebbe sfociata in quello che fu il Terrore, i bagni di sangue, e così via, e tutto ciò per mezzo di un generale — come egli bene illustrò — che avrebbe imposto una tirannide. Ciò significa che tutto era prevedibile per un filosofo o uno specialista…
D. Nelle sue conferenze lei definisce il concetto nuovo di diritto e di legge sorto con la Rivoluzione francese nei termini di una “rivoluzione nel cuore della rivoluzione”…
R. Per spiegare quest’affermazione mi servo di un esempio. Durante l’Ancien Régime, la Francia era suddivisa in province, ognuna delle quali relativamente autonoma, con statuti giuridici diversi, animate da costumi dissimili; anche la lingua non era per tutti il francese, ma ne esistevano di locali. Con la Rivoluzione francese si decise di creare uno Stato unitario e indivisibile, fondato sulla creazione di una nuova Legge pensata, definita e approvata da una minoranza della popolazione, i parlamentari dell’Assemblea Nazionale. Ora, questa Legge — anch’essa unitaria e indivisibile — fu un fatto completamente nuovo: la negazione stessa della democrazia fondamentale. L’esempio specifico della lingua mostra che chi non parlava il francese imposto dal governo — nella Francia Occidentale, al tempo, questa lingua era parlata da un’esigua minoranza —, diveniva immediatamente “fuori-legge”: la negazione della propria lingua impedì presto la trasmissione di un patrimonio culturale quasi fissato “geneticamente” in chi viveva nelle comunità reali, presto emarginate. In Italia, per esempio, si produsse lo stesso fenomeno, a livello giuridico e linguistico, con il Risorgimento. Eppure nessuno storico evidenzia questi fatti, perfettamente chiari.
D. La legge del 4 agosto 1789, che mise fine ai “privilegi” in Francia, viene normalmente salutata come la liberazione dai “vincoli feudali” e dalla “schiavitù” delle disparità. Tale legge rappresentò forse uno dei passi più decisivi e importanti nel corso del processo rivoluzionario, in vista della costruzione di un diritto, di una società e di uno Stato nuovi. Eppure, nel mondo precedente la Rivoluzione, “privilegio” ebbe anche altri significati giuridici ben più rilevanti e positivi…
R. “Privilegio” deriva il suo senso originario dall’espressione privata lege, ossia “secondo il diritto privato”. Vi erano corporazioni, Comuni e province dotati di statuti propri, “privati”. La legge del 4 agosto venne votata durante una “nottata dal significato globale”: si soppresse universalmente tutto il mondo giuridico particolare, una soppressione funzionale e necessaria alla creazione del nuovo concetto di Legge. Allo stesso modo si soppressero, poi, le leggi che animavano le corporazioni e i diversi ordini professionali e sociali. Gli statuti particolari vennero omologati: tutto questo creò grandi problemi nella Francia intera, per esempio in Bretagna, dove si pagavano le imposte in ragione di due volte meno della media nazionale. Tutto questo ordine plurisecolare scomparve in pochi minuti: si può ben immaginare la delusione e la rabbia.
D. In occasione delle celebrazioni per il bicentenario nel 1989, non vi furono commemorazioni dei fatti di Vandea…
R. Nel 1989, in quanto studioso e insegnante, domandai, con una lettera, a Jack Lang, allora ministro della cultura, incaricato dell’organizzazione e della supervisione delle celebrazioni del bicentenario, una ridiscussione del tema della Vandea, anche mediante la promozione di simposi scientifici sul tema. Mi si rispose negativamente. Nulla verrà fatto, anche in occasione delle ricorrenze bicentenarie del 1793 e del 1794, a livello ufficiale: avremo commemorazioni locali private, non segnate ideologicamente, né tantomeno politicamente, prive di sentimenti di rivalsa. Si tratterà solamente di ricordare in modo anche sereno l’accaduto. Concretamente, erigeremo monumenti alla memoria, moltiplicando gli scritti sul tema. Fuori dei confini regionali, tutto ciò avrà grande rilevanza, perché la coscienza di quanto si abbattè sulla Vandea potrà insegnare — anche per quanto riguarda altri episodi storici — a evitare le insidie e i pericoli della revisione artificiale e della manipolazione della memoria — che chiamo “memoricidio” —, sperando che tale riflessione eviti la manomissione di fatti più recenti e sperando pure che essa impedisca all’uomo di commettere i medesimi errori.
D. I vandeani di oggi hanno coscienza dei fatti accaduti duecento anni fa e del loro retaggio storico, culturale e religioso?
R. Anche di ciò tratto in qualche modo nel mio Juifs et Vendéens. D’un génocide à l’autre. La manipulation de la mémoire. Il comportamento della Vandea Militare è un comportamento culturale, educativo, sociale, economico e religioso, oltreché relativo a quanto riguarda propriamente il clero, molto differente dal comportamento del resto della popolazione francese. Si tratta di una regione rimasta legata alla tradizione, dove il senso e la realtà della famiglia sono importanti, dove i sacerdoti hanno una loro funzione specifica e rilevante, dove la fede è relativamente forte e dove si hanno le più importanti concentrazioni di imprese private del territorio nazionale. Dunque, una regione con un suo comportamento specifico. Circa quest’ultimo dato, non si può istituire un rapporto di causa-effetto forzato fra lo sterminio e l’indipendenza economica della regione, ma si può certamente constatare un dato reale: i vandeani hanno dovuto imparare a “sbrigarsela da soli” per quanto riguarda l’economia, dato che erano stati completamente annientati anche sotto questo aspetto. Dunque, essi si sono battuti, dotandosi dei mezzi appropriati per tale combattimento a partire dalla famiglia e dalla religione, per quanto riguarda le motivazioni e le giustificazioni d’ordine filosofico, intellettuale e morale. Per quanto riguarda la coscienza dei fatti di due secoli fa, essa è stata certamente tramandata nelle famiglie di generazione in generazione, senza che peraltro i vandeani avessero la lucida consapevolezza dell’entità e della portata dello sterminio, non essendo noti tutti i documenti e le fonti originali del piano genocida. Ora che tale consapevolezza è stata indotta, certamente i vandeani — da una decina d’anni circa — hanno una coscienza più netta dell’accaduto: spettacoli come la colossale ricostruzione della guerra civile nella Vandea, che si tiene nei mesi estivi al castello di Puy-du-Fou, a Les Espesses, lo testimoniano. Poi, la venuta dello scrittore russo Aleksandr Isaevic Solzenicyn ha segnato un grande passo in avanti per quanto riguarda la presa di coscienza del significato globale del genocidio, tanto in Vandea, quanto nell’intera Francia.
D. Dopo questo bicentenario vandeano, come vede il futuro della memoria storica?
R. Il ricordo che celebriamo oggi permetterà alla memoria di venire trasmessa oltre la presente generazione. A livello concreto mi è stato chiesto di presiedere un’associazione privata — Mémoire du Futur de l’Europe —, che sta raccogliendo fondi per ricostruire una piccola cappella di campagna in stile gotico fiammeggiante, del secolo XV, nel villaggio di La Chapelle-Basse-Mer, intitolata a Saint-Pierre-aux-Liens, oggi in rovina. Essa, una volta restaurata, diverrà un mausoleo a ricordo delle distruzioni rivoluzionarie e delle circa duemila vittime — quelle conosciute — del cantone di Loroux Bottreau, sterminate dai rivoluzionari, simbolo di tutti i caduti della Vandea Militare e della Bretagna. Vorremmo anche riportarne i nomi e procedere, possibilmente nei pressi della cappella, all’allestimento di un museo. All’interno verrà eretta una statua di donna vandeana inginocchiata, un sacro cuore cucito sulla veste, un rosario alla cintura, il fucile e la spada adagiati a terra. Essa ha un bimbo nelle braccia e lo solleva in alto: donne e bambini erano, infatti, le vittime preferite dalla repressione. Tale scena vuole significare la trasmissione della memoria e ricordare Maria Santissima e il Bambino Gesù. La frase che abbiamo posto sul modulo per la richiesta di fondi è: “Senza voi e senza la Provvidenza nulla è possibile!”.
D. Nelle sue pubblicazioni e nei suoi interventi pubblici, lei sostiene che per porre termine al “memoricidio” occorre combattere una battaglia culturale…
R. A partire dall’esperienza della Vandea si scopre un concetto nuovo: oltre la tragicità dei fatti, per ragioni diverse, ma sostanzialmente politiche e ideologiche, si può essere portati a relativizzare, a truccare, a negare, oppure, per lo meno, a non parlare più di un avvenimento di primaria importanza. Tutto mostra una certa fragilità: perciò bisogna dotarsi delle armi adeguate per fare in modo che i fatti vengano trasmessi in tutta la loro originalità e integralità. Non, ovviamente, per un amore ai fatti fine a sé stesso, ma per far tesoro dell’esperienza passata come spunto di riflessione. La cultura, come supporto globale dell’universo umano, dovrà lavorare in tal senso. La battaglia culturale è la battaglia fondamentale, la battaglia di oggi e di domani.
a cura di
Marco Respinti