Il 12 maggio è passato e il divorzio è rimasto. Quella che avevamo chiamata una scadenza di civiltà, ha visto la riconferma della barbarie. La piaga sociale costituita dal divorzio ha ormai diritto di cittadinanza, per almeno altri sei anni, nel nostro ordinamento giuridico, un ordinamento giuridico che la pone “legittimamente” a fianco del riconoscimento “costituzionale” della propaganda dell’odio di classe.
Qualche mese di lotta propagandistica ha partorito questo infausto evento, che sancisce la distruzione potenziale di quanto rimane del popolo e la sua trasformazione, non certo irreversibile, ma tragica, in massa, in un agglomerato informe di individui disperatamente soli di fronte allo Stato totalitario, alla “democrazia totalitaria”, esposto alla “legale” corruzione dell’aborto, della liberalizzazione della droga, dell’eutanasia; alla pianificazione tecnocratica della vita e della morte, che si sovrappone all’esplosione irrazionale e temibile di ogni egoismo e di ogni istinto.
Ci eravamo augurati una meditazione profonda, che permettesse al paese reale e a tutte le sue forze vitali di esprimersi e di venire a livello di incidenza politica, ma i vampiri dell’utopia partitica hanno affondato tempestivamente i loro canini innaturali nel corpo sociale, suggendo sangue e inoculando tossici, al ritmo dei ragli di redivivi asini di Podrecca.
Nonostante doverosi sforzi di realismo e di aderenza alle cose e alle situazioni, l’amore per la nostra patria e per la sua anima naturalmente e storicamente cristiana ci ha permesso la delusione e ci ha esposti all’inganno del miraggio.
Nonostante una diffusa fama di essere “profeti di sventura”, come “profeti” ci siamo rivelati ottimisti inveterati e di vista corta, e la “sventura” ha mostrato dimensioni assolutamente catastrofiche, prossime alla tragedia.
* * *
Se, dal punto di vista quantitativo, è stata errata l’analisi antecedente all’evento, non è certo più facile quella seguente.
Si potrebbe preliminarmente tentare l’esame dell’opinione di quanti hanno disertato le urne, e non sarebbe inverosimile attribuirla al fronte antidivorzista.
Si potrebbe parlare della difficoltà costituita dal contorto e innaturale meccanismo di espressione della volontà – unico esempio nei paesi ove vige l’istituto del referendum -, rappresentato da un sì per dire no al divorzio, e della conseguente alterazione del risultato elettorale.
Più vale però – ci pare – prendere atto di quanto è accaduto, e del suo significato di rivelazione di una grande crisi del costume, crisi spesso attiva soltanto in foro interno, nell’interno delle singole coscienze, piuttosto che già operante all’esterno – e questo fatto, forse, ha permesso l’errore di previsione dei risultati della consultazione elettorale -; crisi che ha trovato “nel segreto della cabina” il suo luogo di espressione privilegiata, oltre i rispetti umani e le reticenze pubbliche.
Ma se lo scontro elettorale ha rivelato l’esistenza di una ampia fascia di traditori anonimi e che tali rimarranno, ha dato anche lo spettacolo pubblico della persecuzione laicista, dell’aggressione comunista e della corruzione del progressismo sedicente cristiano contro tutto il popolo italiano, che pochi hanno difeso convenientemente e apertamente.
Quanto alla forma, è indubbio che le classi dirigenti dei partiti antidivorzisti si sono espresse coerentemente, così come coerentemente si è espresso l’episcopato nella sua globalità, ma i fatti che sono seguiti alle dichiarazioni hanno dato la misura precisa della dissociazione tra il dire e il fare, che caratterizza l’uomo moderno in generale e in grado eminente i gruppi dirigenti del mondo attuale, quando si tratta di opporsi alla moda e di andare controcorrente.
Le dichiarazioni antidivorziste pubbliche si sono infatti impantanate in grandi, paludosi silenzi, sotto i quali ribolliva la melma delle lotte di fazioni e di più significative allusioni private sulla liceità di altre scelte, contrastanti con quelle ufficiali. Non sono neppure mancati i tradimenti pubblici, più noti evidentemente di quelli privati e anche più gravi per lo scandalo che hanno comportato.
Ne sono derivati la sconfitta, il dolore, la sorpresa. A commento basti il proverbio: “Chi semina vento, raccoglie tempesta“.
* * *
In queste condizioni, che non tollerano di essere smentite o attenuate, ogni considerazione trionfalistica manca di qualsiasi senso, dal momento che la degradazione della nostra legge è ormai un fatto, non irreversibile, ma reale.
Se però è indispensabile prendere atto dell’insuccesso politico, con le sue conseguenze giuridiche, non si può neppure prescindere dalla celebrazione di 13 milioni di piccole vittorie morali.
Nonostante i tradimenti di molti che dovevano guidare alla vittoria, 13 milioni di elettori hanno votato sì.
Nonostante l’insuccesso politico e giuridico nella battaglia contro il divorzio – ma una battaglia, anche se importante, non è la guerra, di cui costituisce solo un episodio -, 13 milioni di italiani hanno vinto il loro scontro personale con la propaganda a senso unico, massiccia e senza precedenti, della quasi totalità delle forze partitiche; hanno avuto la meglio sul cinema, sulla radio e sulla televisione; sono usciti vincitori dei cosiddetti organi di informazione, dei rotocalchi, dei fumetti, della stampa pornografica, dei giornali femminili.
Nonostante l’insuccesso politico e giuridico, 13 milioni di italiani – lo ripetiamo – non hanno risentito di trent’anni di governo della nazione all’insegna del “senso comune della morale”; di dieci anni di postconcilio, caratterizzati dal pluralismo e dal soggettivismo morale; si sono difesi dalla “cultura”, cattolica e no, o da quanto si autodefinisce tale; dai laicisti “nazionali” e da quelli democristiani, dai clerico-marxisti “cristiani per il socialismo”; non hanno interpretato gli scandalosi silenzi di molti membri della Gerarchia ecclesiastica e hanno lasciato cadere le dichiarazioni molteplici ed equivoche.
Contro tutto questo, 13 milioni di italiani hanno vinto; a tutto questo hanno resistito.
* * *
Un ricordo particolare, e una menzione d’onore, meritano quei maestri nella fede che sono stati colpiti da denunce per aver compiuto integralmente e senza falsi pudori o timori umani il loro dovere, e tra tutti le LL. EE. Rev.me mons. Vero Roberti, arcivescovo di Caserta e amministratore apostolico di Alife, e mons. Natale Mosconi, arcivescovo di Ferrara e amministratore apostolico di Comacchio.
* * *
Perché anche gli insuccessi non siano inutili è però indispensabile non dimenticarli, e così non trasformare una sconfitta in una rotta; è assolutamente necessario impedire la istituzionalizzazione del tradimento, denunciando in ogni ambiente chi non ha fatto il proprio dovere, isolandolo, esautorandolo; ma, soprattutto, si deve ricordare – come già facemmo a chiusura del nostro editoriale precedente la consultazione – che: “per ciò che riguarda i diritti essenziali delle famiglie, i veri fedeli della Chiesa si impegneranno a sostenerli dai primo all’ultimo. Potrà darsi che su questo o quel particolare sia necessario cedere davanti alla superiorità delle forze politiche. Ma in questo caso si pazienta, non si capitola. È ancora necessario, in caso simile, che si salvi la dottrina e si mettano in opera tutti i mezzi efficaci per avviare la cosa a poco a poco al fine cui non si rinuncia” (1).
Note:
(1) Pio XII, Allocuzione ai padri di famiglia francesi, del 18-9-1951, in La pace interna delle nazioni, Insegnamenti pontifici a cura dei monaci di Solesmes, trad. it., Edizioni Paoline, 2ª ed., Roma 1962, pp. 613-614.