Sostanzialmente utilizzando un opuscolo pubblicato dalla TFP argentina, offriamo ai nostri lettori un dialoghetto – che ai più informati ricorderà gli scritti del conte Monaldo Leopardi – nel quale diversi temi della dottrina sociale naturale e cristiana sono presentati con un linguaggio estremamente semplice e corrente, proprio alle conversazioni quotidiane.
In questo modo sono messi alla portata di tutti, in una forma accessibile e attraente, argomenti che, esposti in modo diverso, sarebbero difficilmente abbordabili per i più.
Interlocutori:
CLARA: un’anziana funzionaria del ministero della Pubblica Istruzione, che ha appena ricevuto una eredità.
RACHELE: Una dirigente di una associazione cattolica, che ha idee alla Proudhon.
ZIO ANTONIO: un giudice in pensione, che ha buon senso e conosce bene il diritto naturale.
Clara incontra la sua amica Rachele, che non vedeva da diversi anni. Clara, di circa cinquant’anni, alta, vestita con una eleganza modesta e sobria, è un’anziana funzionaria del ministero della Pubblica Istruzione. Rachele, pur dimostrando la stessa età, più bassa che alta, di aspetto malaticcio, mostra, tuttavia, nei tratti prematuramente invecchiati, qualcosa che denota, dietro l’apparente debolezza, una volontà energica e decisa. Amiche dai tempi del collegio, si vedono relativamente poco. Incontrandosi, oggi, intavolano il seguente dialogo:
CLARA. Sai, Rachele, sembra che finalmente riposerò un poco! Ho lavorato tutta la vita, ma ho appena ereditato da mia zia Maria una casa d’abitazione, del cui affitto ella viveva e che darà anche a me di che vivere confortevolmente, da ora in avanti, guardando al futuro con sicurezza.
Socialismo: l’unica fonte di reddito è il lavoro
RACHELE. E tu pensi a tutto questo con la coscienza tranquilla? Come puoi immaginare una cosa simile? Ogni reddito che non derivi dal lavoro è un furto. Scusa, ma tua zia – signora per altro molto caritatevole e di ottimi sentimenti – è stata una parassita dei poveri inquilini. Mi spiace che tu adesso ti metta sulla stessa strada.
CLARA. Ma, come! Allora la proprietà non può mai dare un reddito legittimo?
RACHELE. Assolutamente mai! Ciò che non proviene dal lavoro non è un guadagno legittimo, perché l’uomo deruba i suoi simili quando istituisce un diritto esclusivo su qualcosa, e consuma così più di quello che produce.
CLARA. Ma io non ho rubato nulla: io ho ereditato!
RACHELE. Peggio ancora! Tu non hai fatto niente per ottenere questo guadagno, e quindi non hai nessun diritto su di esso. E non solo: in questi tempi di fame, sarebbe giusto che fossi disinteressata e che capissi che ogni privilegio – e la proprietà non è altro che un privilegio – è un attentato al diritto di quelli che lavorano.
CLARA. Mi meraviglia questa durezza di linguaggio in una persona tanto pia!…
RACHELE. Come! Mi sembra proprio di rappresentare la dolcezza e l’amore del prossimo! Infatti Gesù Cristo ha voluto che fossimo tutti uguali, e che dessimo del nostro, senza riserve, ai bisognosi. Tu, in questo caso, rappresenti la durezza. Io rappresento la mano che si apre per dare, e tu la mano che si chiude per trattenere.
Finito il colloquio, Clara rimane profondamente pensosa. Fino a questo momento le è sempre parso che ladro è chi ruba roba d’altri. Dopo la sua conversazione con Rachele, si rende conto che per alcune persone pie e di buona condotta la nozione di furto è rovesciata: è un ladro chi conserva per sé quanto gli appartiene.
Sente, quindi, nascerle in cuore la seguente domanda: “Che cos’è il proprietario: il titolare di un diritto legittimo o il frodatore dei diritti della società?”.
La sera dopo cena, Clara osserva il suo vecchio zio Antonio, giudice in pensione, che guarda la televisione senza molto interesse.
Le sembra il momento opportuno per porgli la domanda che la tormenta. Il vecchio magistrato ha fatto gli studi superiori all’Università Cattolica, e certamente può sciogliere i suoi dubbi. Senza indugio, lo interroga.
CLARA. Mi dica, zio Antonio, è certo di non derubare nessuno per il fatto di vivere in parte con la rendita delle azioni della Montedison e in parte con l’affitto del suo fondo di Borgonovo ?
Clara si rende conto che Rachele farebbe le stesse obiezioni che le ha fatto contro gli affitti urbani, anche contro quanti vivono dei dividendi di azioni o dell’affitto di terreni.
Il buon settuagenario, senza perdere la sua solita espressione affettuosa, guarda meravigliato la nipote.
ZIO ANTONIO. Come, figlia mia! Sarebbe un ladro chi mi rubasse queste rendite! Mi sembra che tu dica il contrario. Da dove ti viene questa idea?
CLARA. Me l’ha detta la mia amica Rachele all’uscita dalla chiesa.
Il dottor Antonio si sistema gli occhiali che gli sono scesi sul naso, guarda Clara un poco sconcertato e poi si apre in un ampio sorriso:
ZIO ANTONIO. Scherzi, attribuendo a una persona così buona come Rachele il pensiero di qualcuno che era assolutamente il contrario di una signora pia?
È stato Proudhon, il grande malfattore intellettuale della Francia del secolo XIX, a esclamare: “La proprietà è un furto!“. Ma era un leader socialista d’avanguardia. Non venirmi a dire che questa dottrina si è infiltrata nella mentalità della tua amica.
CLARA. Eppure, le cose stanno così. Potrebbe darmi qualche argomento per esorcizzarla?
Zio Antonio spegne la televisione, accende un sigaro, si sistema più comodamente sulla poltrona e guarda il soffitto. Poi, con un sorriso malizioso sulle labbra, dice:
ZIO ANTONIO. Fai la parte di questa povera Rachele, e io ti risponderò, ricordando le mie vecchie e amate nozioni di diritto naturale.
Che nostalgia dei miei studi di Milano, quando la gioventù apprendeva con entusiasmo la dottrina tomista sulla proprietà, spiegata da Leone XIII, che poi è stata commentata da Pio XI con profondità e alto senso dell’opportunità!
Legittimità del diritto di proprietà
CLARA. La proprietà, zio Antonio, è nata da un furto o da un fatto lecito? Cade a questo punto la spiegazione di Leone XIII, sull’appropriazione di una cosa abbandonata che esiste per l’uomo?
Il diritto di appropriazione
ZIO ANTONIO. Sì. Siccome l’uomo è un essere intelligente – e non un semplice pezzo della macchina produttiva, come vuole il socialismo – è in grado di conoscere la sua necessità di alimentazione, di abbigliamento, di abitazione, di decoro di vita, ecc. E con la sua volontà è capace di volere e di fare tutto quanto è necessario per fare fronte a questa necessità.
Orbene, tutto questo non gli servirebbe a niente se non potesse appropriarsi delle cose. Che cosa servirebbe al pescatore sapere che il mare è pieno di pesci, e che motivo avrebbe per andare sul mare a pescare, rischiando talora la vita, se non sapesse che il pesce che prenderà sarà soltanto suo, con esclusione di qualsiasi altra persona?
Perciò il diritto di proprietà su questo pesce, e su tutte le cose che non sono di nessuno, e si acquisiscono per appropriazione, si fonda sulla natura intelligente e libera dell’uomo, e quindi in Dio, che è autore della natura.
CLARA. Bene, ma questa è una proprietà che scompare con l’uso. Come si giustifica il fatto che una persona si impadronisca non del frutto dell’albero, ma dell’albero stesso, e perfino della terra su cui è piantato?
La natura intellettuale dell’uomo, fondamento del diritto di proprietà
ZIO ANTONIO. Per la stessa ragione. Siccome è intelligente e libero, l’uomo è in grado di rendersi conto del fatto che le sue necessità si ripropongono, e quindi desidera stabilità, sicurezza, di fronte alle incertezze del futuro. Perciò gli è lecito essere padrone non soltanto dei frutti del suo lavoro per consumarli, ma pure economizzare, accumulare beni e trasformarsi in padrone di cose durevoli, immobili, capaci di durare per tutta la vita, e perfino dopo di essa ed essere fonte di produzione di altri beni.
Proprietà degli strumenti di lavoro
CLARA. Molto bene; è giustificata la proprietà dei beni di produzione. Ma come si giustifica la proprietà degli strumenti di lavoro?
ZIO ANTONIO. Nell’esempio del pescatore, avresti qualche obiezione da fare se egli, invece di servirsi del pesce per mangiarlo, se ne servisse come esca, per pescare altri pesci?
CLARA. No certamente!
ZIO ANTONIO. Avresti per caso qualche obiezione da fare contro chi prendesse una selce, la affilasse e la trasformasse in uno strumento da taglio, che può servire per mille usi?
CLARA. Evidentemente no!
ZIO ANTONIO. Ebbene, sono entrambi strumenti di lavoro, che appartengono ai rispettivi proprietari per appropriazione o perché questi hanno messo del lavoro in una cosa precedentemente senza padrone e senza utilità.
CLARA. Ma se qualcuno ha più di quanto è indispensabile per vivere, e accumula beni per garantire il suo futuro e quello della sua famiglia, come si giustifica la proprietà su quello che si economizza?
ZIO ANTONIO. Se l’uomo è padrone di sé stesso, è anche padrone del prodotto del suo lavoro; e se qualcuno lavora di più di quanto gli è necessario per vivere, e riesce a economizzare qualcosa, non vi è dubbio che queste economie gli appartengono completamente. Il risparmio non è altro che il salario condensato, e chi nega il diritto di economizzare nega, in ultima analisi, la proprietà dell’uomo su sé stesso.
Il risparmio, fondamento del capitale
CLARA. È quindi comprensibile che una persona custodisca del denaro in casa. Ma come capire il capitalista, cioè colui che con il denaro che ha economizzato riceve un affitto, perché con esso ha comprato una casa, o un reddito, perché ha comprato una fabbrica e la fa produrre?
ZIO ANTONIO. Chi ha diritto di fare economie, ha diritto di investirle, non solo in denaro, ma anche in altri beni; e siccome questi beni sono suoi e non di terzi, è giusto che questi terzi gli paghino qualcosa per servirsene. Da questo deriva la liceità dell’affitto, così come dell’acquisto di macchinario, o di azioni di una impresa industriale e commerciale, che rappresentano parte del capitale investito nel macchinario.
CLARA. Ma questo non comporta la riduzione dell’operaio alla miseria?
Il capitale non è nemico del lavoro
ZIO ANTONIO. Anzi, gli dà la possibilità di lavorare e di avere il necessario per vivere, se gli viene pagato un salario minimo, familiare e mobile.
Pio XII ha elogiato i padroni che, volontariamente – e non obbligatoriamente, ha sottolineato con energia e precisione magistrale – concedono agli operai qualche partecipazione agli utili, o perfino alla gestione e alla proprietà dell’impresa.
Il lusso non è sempre condannabile
CLARA. Ma, zio Antonio, se la casa o la fabbrica rendono molto, sarà lecito che il proprietario aumenti il suo benessere e conduca perfino una vita lussuosa?
ZIO ANTONIO. Il Vangelo raccomanda il distacco dai beni della terra. Questo distacco non significa che l’uomo debba evitare di servirsene, ma soltanto che deve usarne con superiorità e forza d’animo, con cristiana temperanza, invece di diventarne schiavo.
Quando l’uomo non si comporta così, e fa un cattivo uso di questi beni, il male non sta nei beni, ma in lui. Per esempio, il male dell’ubriaco sta nell’ubriaco stesso, e non nel vino di qualità che lo ubriaca.
Nell’universo, tutto è stato da Dio mirabilmente disposto, e non esiste niente che non abbia la sua ragione d’essere. Sarebbe inconcepibile che l’oro, le pietre preziose, la materia prima dei tessuti più fini, costituissero una eccezione a questa regola. Esistono per un disegno della divina volontà per il giusto diletto dei sensi, come un bel panorama, l’aria pura, i fiori, ecc. Inoltre, sono mezzi per nobilitare ed elevare la vita quotidiana degli uomini, raffinarli dal punto di vista culturale e far loro conoscere la grandezza, la sapienza e l’amore di Dio.
CLARA. Molto bene, caro zio. Ma che queste cose in sé stesse siano buone, non risponde alla mia domanda sulla liceità che vi sia qualcuno che utilizzi l’eccesso del suo reddito per goderne.
Il retto uso delle ricchezze
ZIO ANTONIO. Aspetta un momento, figlia mia. Stavo solo cominciando a spiegare come si risolve il problema che mi hai proposto. Infatti, se i beni sono buoni in sé stessi, se ne può pensare un uso con uno spirito perfettamente sano, e non egoista.
La Chiesa si è sempre servita di tutti questi beni con questo spirito, per quanto ha di più sacro, cioè per il culto divino. E non lo avrebbe fatto assolutamente se, in questo modo, non rispettasse la volontà del suo Fondatore.
E, in tutti i tempi, essa ha spinto gli individui, le famiglie, le istituzioni e le nazioni a seguire, con la stessa temperanza, il suo esempio, adornando e dignificando così, per la grandezza spirituale e il bene materiale degli uomini, gli ambienti della vita domestica e della vita pubblica.
Per questa stessa ragione le è stato riconosciuto, con ogni giustizia, il titolo di benemerita della cultura, dell’arte e della civiltà.
Uno dei vantaggi derivanti da una armoniosa disuguaglianza di beni sta proprio nel permettere nelle classi più elevate una fioritura di particolare splendore delle arti, della cultura, della cortesia, ecc., che poi scorre da queste classi in tutto il corpo sociale.
CLARA. Quanto mi sta dicendo, zio Antonio, mi sembra perfetto, e prova la grande sapienza della Chiesa. Nonostante questo, mi sembra già di sentire la mia amica Rachele che mi risponde che Giovanni XXIII, Paolo VI e il Concilio hanno riformato gli insegnamenti di Leone XIII, Pio XI e Pio XII e che pensieri come quelli che Lei ha esposto, che si potrebbero fondare soltanto in questi tre Papi, ormai non hanno più valore, perché sono stati derogati. A un certo punto, mentre Rachele parlava calorosamente e molto in fretta, mi è parso dicesse proprio questo.
Il dottor Antonio chiede alla nipote se ha a portata di mano i documenti degli ultimi Papi e del Concilio. Clara glieli porta, ed egli sfoglia e cita.
Continuità inalterata del magistero sociale della Chiesa
ZIO ANTONIO. Guarda cosa dice, per esempio, Giovanni XXIII nella enciclica Mater et Magistra, parlando proprio della Rerum novarum di Leone XIII: “Segno è che i principi accuratamente approfonditi, le direttive storiche, i paterni richiami contenuti nella magistrale Enciclica del Nostro Predecessore conservano tuttora il loro valore ed anche suggeriscono nuovi e vitali criteri […]”; “[…] toccò a Leone XIII bandire il suo Messaggio sociale tratto dalla stessa natura umana ed informato ai principi e allo spirito del Vangelo; […]. [In questa enciclica] venne formulata una sintesi organica dei principi ed una prospettiva storica così ampia che fa della Enciclica Rerum Novarum una somma del Cattolicesimo in campo economico-sociale” (paragrafi 9 e 15).
Guarda anche che cosa dice il Concilio nella costituzione pastorale Gaudium et spes, riferendosi, tra l’altro, all’enciclica Mater et Magistra di Giovanni XXIII: “Siccome documenti recenti del Magistero della Chiesa hanno esposto diffusamente la dottrina cristiana circa l’umana società, il Concilio ricorda solo alcune verità più importanti e ne espone i fondamenti alla luce della Rivelazione” (paragrafo 23).
Guarda anche cosa dice Paolo VI nella lettera pontificia Cum jam del 21 settembre 1966 diretta al cardinale Pizzardo a proposito del Congresso Internazionale di Teologia del Concilio Ecumenico Vaticano II: “[…] circa poi il valore e l’interpretazione da dare agli stessi insegnamenti [del Concilio Vaticano II] bisogna guardarsi dal considerarli come avulsi dal resto del patrimonio dottrinale della Chiesa, quasi possa esistere contrasto ed opposizione tra loro.
“Al contrario tutto ciò che viene insegnato dal Concilio Vaticano II si ricollega in piena armonia col magistero ecclesiastico precedente, di cui non è altro che continuazione, spiegazione, incremento. Infatti anche per questo fine fu convocato il Concilio, come attestò il Nostro Predecessore Giovanni XXIII di f. m. nel discorso inaugurale, al fine cioè che “fosse riaffermato […] il magistero ecclesiastico” (AAS, 1962, p. 786): Nessuno pertanto potrà introdurre criteri propri nella interpretazione della dottrina del Concilio, ricusando la guida del magistero ecclesiastico; coloro che agiscono in tal modo, per usare espressione di S. Leone Magno, “diventano maestri di errore perché si rifiutarono di farsi discepoli della verità” (Tomus ad Flavianum, ed. C. Silva Taronca, Romae 1932, p. 21)” (*).
CLARA. Zio Antonio, Lei è riuscito a esorcizzare non solo la mia amica Rachele, ma anche me. Confesso che un poco di Proudhon minacciava di contaminarmi, dopo la conversazione avuta con lei. Tuttavia, voglio farle ancora una domanda: ho il diritto di accettare l’eredità di zia Maria? Per caso, ereditare non è un poco rubare?
Il diritto naturale di lasciare in eredità e di ereditare
ZIO ANTONIO. Non può mai essere un furto quello che il proprietario ci trasmette volontariamente. Tua zia Maria – che ha valutato molto bene la tua meritoria pazienza nell’aiutarla tanto, durante gli ultimi anni della sua vita – ti ha lasciato volontariamente la sua fortuna, e nessuno l’ha obbligata a farlo. In che cosa può consistere il furto, in questo caso? Forse quella poveretta di Rachele direbbe che stai derubando la società, perché non hai guadagnato questi beni con il tuo lavoro. Ma le si può rispondere che non è vero che l’unico modo lecito di acquisire beni sia il lavoro. Una persona può ricevere gratuitamente qualcosa e possederlo lecitamente.
E per questo Pio XI, l’illustre continuatore di Leone XIII nel magistero sociale della Chiesa, diceva (e a questo punto zio Antonio cita a memoria e scandendo con forza le parole) che “bisogna che rimanga sempre intatto e inviolato il diritto naturale di proprietà privata e di trasmissione ereditaria dei propri beni“. È nella Quadragesimo anno.
Sul finire della sua esposizione zio Antonio dà segni di avere fretta. Sono quasi le dieci, e a quest’ora, senza eccezioni, è solito ritornare a casa, percorrendo con il suo passo tranquillo il tratto di via in cui abitano entrambi. Dalla sua finestra Clara di solito lo segue con lo sguardo.
Il vecchio magistrato saluta, e sua nipote va fino alla finestra per vederlo uscire. Dopo aver fatto alcuni passi si volta, e con sorriso ancora leggermente malizioso dice:
ZIO ANTONIO. Domani mi racconterai com’è andata la conversazione con la tua amica. Non avrei mai immaginato di incontrare Proudhon reincarnato in una dirigente di una associazione cattolica!
* * *
Il giorno seguente, Clara non ha molto da raccontare. Quando ha esposto alla sua amica le riflessioni di suo zio Antonio, Rachele si mostra indignata:
RACHELE. Voi reazionari siete sempre uguali! A cosa serve discutere?! È più facile dialogare perfino con i comunisti! L’unica occasione in cui capisco un poco l’Inquisizione è quando penso a gente che ha la vostra mania di ragionare!
***
(*) Perché i nostri lettori si possano fare una idea di qual è la situazione del mondo cattolico – non è necessario bere il mare per sapere che è salato! – segnaliamo che il testo dell’importante documento del regnante Pontefice, che compare nell’originale latino negli Acta Apostolicae Sedis e di cui diamo la versione dell’Osservatore Romano del 26-27 settembre 1966, è inspiegabilmente e misteriosamente assente dal volume IV della raccolta ufficiosa degli insegnamenti di Paolo VI del 1966, edito dalla Tipografia Poliglotta Vaticana e finito di stampare il 21 giugno 1967 (N.d.R.).