Stefano Chiappalone, Cristianità 349-350 (2008)
Monsignor Nicola Bux è sacerdote dell’arcidiocesi di Bari, docente di Liturgia Orientale e di Teologia dei Sacramenti nella Facoltà Teologica Pugliese e consultore delle Congregazioni per la Dottrina della Fede e per le Cause dei Santi. Nel settembre 2008 è stato nominato anche consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice ed è pertanto una guida privilegiata per comprendere la riforma di Papa Benedetto XVI, cioè quel ritorno allo spirito della liturgia che Joseph Ratzinger sta attuando, da pontefice, non solo con le sue riflessioni, ma anche mediante elementi concreti ormai acquisiti nelle Messe papali: la centralità della croce sull’altare, il ricupero di paramenti antichi e solenni accanto a quelli moderni, la distribuzione della comunione in ginocchio, elementi che sarebbe fuorviante interpretare secondo la solita e riduttiva dialettica fra progressisti e reazionari, fra pre- e post-Concilio. Il principale segnale che il Papa sta lanciando attraverso questo stile evangelicamente “antico e nuovo” consiste nel ribadire che il centro della liturgia è Cristo e l’atteggiamento prevalente di clero e fedeli dev’essere l’adorazione. Tutto ciò implica, anche per via liturgica, la sconfessione di un’errata interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) all’insegna della rottura e della novità a tutti i costi invece che come rinnovamento nella continuità. Vessillo di quella cattiva ermeneutica è il ripudio verso quanto abbiamo ricevuto dal passato, la frenesia d’innovazioni, anche dottrinali, e uno sperimentalismo liturgico che secondo tanto personale ecclesiastico sarebbe quasi obbligatorio dopo il Concilio. Peccato che i testi conciliari non abbiano mai previsto lo stravolgimento della dottrina e del culto, che è stato attuato, pertanto, del tutto arbitrariamente.
A tale proposito lo scrittore Vittorio Messori offre una preziosa testimonianza personale nella Prefazione (pp. 7-14). Cresciuto in una famiglia laicista e convertitosi al cattolicesimo poco prima delle riforme, trovò in breve tempo il plurisecolare patrimonio della Chiesa travolto da chitarre, parroci in jeans, altari capovolti e dibattiti sociali, facendo, in nome della fedeltà al Concilio, esattamente “[…] ciò che il Concilio non aveva detto di fare o raccomandava addirittura di non fare” (p. 10). Tuttavia la fresca conversione di Messori è stata addirittura rafforzata da questa esperienza poiché malgrado gli abusi, malgrado l’eccessiva fiducia e tolleranza nella prassi, il Magistero della Chiesa non è cambiato e non vi è stato alcun cedimento sui princìpi. “Il problema non è certo il Concilio ma, semmai, la sua deformazione: l’uscita dalla crisi sta nel ritornare alla lettera, e allo spirito, dei suoi documenti” (p. 11) nonché nell’uso di due virtù ampiamente trascurate nel furore postconciliare: la pazienza e la prudenza, seguendo l’esempio di Papa Benedetto XVI.
Nel primo capitolo monsignor Bux definisce La sacra e divina liturgia (pp. 15-30) come il tempo e il luogo privilegiati in cui cielo e terra si toccano, in cui Dio si fa incontro all’uomo, rivelandosi nel Figlio Gesù Cristo. Nel pensiero del Padre greco Dionigi Areopagita (sec. VI), ripreso da Papa Benedetto XVI, la liturgia è allo stesso tempo cosmica e mistica: da una parte è una grande lode di Dio “[…] che va dai serafini, agli angeli e arcangeli, all’uomo e a tutte le creature” (p. 17), ma dall’altra è anche un incontro personalissimo con Dio, che esige silenzio e intimità. In ogni caso è qualcosa che l’uomo non può farsi da sé, poiché in essa vi è “[…] l’estasi della bellezza che riversa il fuoco di Dio nel cuore degli uomini” (p. 20). La liturgia è un dono ricevuto dall’alto, come la Legge sul Sinai, e non un idolo costruito con le proprie mani, come il vitello d’oro. “Il mettersi in ginocchio diventa così l’espressione più eloquente della creatura dinanzi al mistero presente” (p. 24).
In tempi recenti tuttavia la prassi liturgica ha subito una “svolta antropologica” (p. 25), consistente in una proiezione unilaterale verso il futuro, identificando il reale soltanto con quanto è trasformabile, in continua evoluzione, e manipolando di conseguenza anche la liturgia. Si dimentica però che essa “[…] è la forma con cui si coglie tutta la realtà e il suo senso in modo stabile: una realtà e un senso che non ci diamo perché non sarebbero più tali, realtà e senso, cioè dati e fatti: “Ho ricevuto dal Signore quanto vi ho anche trasmesso” (1 Corinzi 11, 23) ricorda Paolo” (p. 27). La tradizione viva è appunto questa trasmissione, il cui movimento smentisce quanti oppongono dialetticamente tradizione e innovazione. Far memoria di Cristo non significa infatti ripeterne meccanicamente i gesti, bensì incontrarLo e mediante Lui aprire il proprio sguardo — e la propria ragione! — all’essenza del reale. “La liturgia orientale definisce Cristo “luce della ragione”, perché insegna la filosofia vera. Così la liturgia ci fa filosofi” (p. 30).
Il secondo capitolo — A chi ci avviciniamo con il culto divino (pp. 31-44) — è efficacemente introdotto dal sottotitolo: Quello sguardo al Signore trafitto orienta il culto e il cuore (p. 31). San Paolo (Fil. 2, 5-11) afferma che all’umiliazione di Cristo corrisponde la proschýnesis, il piegarsi di tutto l’universo: “La liturgia cosmica, l’omaggio adorante dell’universo, ruota attorno a questo Agnello (Apocalisse 5)” (Joseph Ratzinger, cit. a p. 32) che dalla croce attira tutti a sé, attuando la vera svolta della liturgia, per cui il culto — a differenza dell’Antico Testamento — muove dal cielo verso la terra, è opus Dei, azione di Dio che offre sé stesso in sostituzione dei vari sacrifici offerti dall’uomo. “Così, non si può aggirare la croce pur di entrare in dialogo con gli uomini di altre religioni o non religiosi, pena il retrocedere agli animali e alle cose del culto ebraico. Da essa scaturiscono anche l’apostolato e la missione, non da altro” (p. 37). Grazie alla Pasqua — cioè al passaggio dalla croce alla risurrezione — la vita nuova di Cristo irrompe sulla terra, l’escatologia è sempre imminente. “Nessuno può parlare di liturgia senza partire da Cristo, costituito mediatore tra Dio e l’uomo, e senza intenderla come manifestazione somma e continua di tale mediazione” (p. 42), pertanto risulta assurdo far passare come volontà della Chiesa — e del Concilio — una concezione di liturgia prevalentemente umana e orizzontale.
Da quest’ultimo fraintendimento ha origine La battaglia sulla riforma liturgica (pp. 45-59). La vera lotta per la liturgia consiste nel superamento della contrapposizione ideologica fra antico e nuovo, che ha dominato — e ostacolato — la ricezione e l’applicazione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Già Papa Pio XII (1939-1958) aveva avviato un considerevole processo di riforma, che secondo i Padri è sempre necessaria. “Riforma è togliere ciò che offusca affinché divenga visibile la forma nobile, il volto della Chiesa e insieme con essa anche il volto di Gesù” (p. 49). Nella prassi tuttavia essa è stata intesa come trasformazione e cambiamento, all’insegna del razionalismo e della desacralizzazione, ignorando se non criticando le indicazioni della Santa Sede. “Non vi è alcun amore per ciò che è stato tramandato, anzi disistima; perciò ciascuno si ritiene autorizzato a fare quello che vuole” (p. 52), al punto che gli ammonimenti di Papa Paolo VI (1963-1978) e di Papa Giovanni Paolo II (1978-2005) circa le deformazioni della riforma, continuano tuttora con Papa Benedetto XVI. Nonostante tali autorevoli richiami, anche in ambito liturgico si è verificata la pretesa di alcuni di creare una nuova Chiesa, incompatibile con quella precedente. Come al solito progressisti e anticonciliari convergono nell’errore d’ignorare la continuità della Chiesa. La via d’uscita sta nel riesaminare l’applicazione della riforma liturgica — senza acritiche esaltazioni, né condanne senza appello — alla luce dello spirito della liturgia.
La tregua del Papa (pp. 61-74) consiste nel mostrare che antico e nuovo non sono affatto incompatibili e che, anzi, possono arricchirsi vicendevolmente. Presentando il motu proprio Summorum Pontificum, Papa Benedetto XVI afferma la continuità fra le due forme del rito romano e offre il messale e i rituali precedenti le riforme come un tesoro per tutta la Chiesa: “Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa” (Lettera ai Vescovi, del 7 luglio 2007, cit. a p. 63). Se fa bene a tutti, allora è scorretta l’interpretazione di chi vorrebbe limitarne l’applicazione a una minoranza di tradizionalisti, “[…] perché l’intento del motu proprio è che tutti guardino al rito antico, anzi che i preti possano celebrarlo e i fedeli parteciparvi. Un fedele orientale che va in chiesa può assistere al rito di Crisostomo [345 ca.-407] o di Basilio [330 ca.-379] secondo i tempi liturgici. Analogamente, le diocesi cattoliche non devono limitarsi ad attendere la richiesta, ma devono offrire la possibilità” (p. 69), poiché nessuno richiede una cosa che viene tenuta nascosta. La preoccupazione che la celebrazione more antiquo vada contro il Concilio può sussistere solo in chi lo vede come momento di rottura; inoltre la condivisione senza restrizioni del Concilio Ecumenico Vaticano II è richiesta sia a chi segue il messale di Papa Paolo VI sia a chi segue quello di Papa san Pio V (1566-1572). “E poi, come mai l’antico rito è ricercato in particolare dai giovani — come dice il Papa nel motu proprio —, pur non avendolo mai conosciuto? È riducibile a un gusto personale?” (pp. 69-70). Probabilmente le nuove generazioni vi trovano un nutrimento migliore di tante Messe con canti alla moda e preti che inventano il rito a piacimento, questi sì, stravolgendo la riforma liturgica e le vere intenzioni del Concilio! Infine, a far cadere le preoccupazioni di carattere ecumenico, basti pensare che “gli studi comparativi dimostrano che la liturgia romana era molto più vicina a quella orientale nella forma preconciliare che in quella attuale” (p. 71), dunque non conviene a nessuno opporre messale a messale. “Il motu proprio invece rimette dinanzi a noi il rito plurisecolare della Chiesa cattolica a cui il nuovo rito non deve temere di guardare per recuperare alcune linee essenziali” (ibidem).
Da quanto detto finora consegue l’infondatezza dell’obiezione di una presunta non conformità dell’antico messale con l’ecclesiologia conciliare; ne emerge piuttosto lo stretto legame fra La crisi ecclesiale e il crollo della liturgia (pp. 75-89), già evidenziato dall’allora cardinale Joseph Ratzinger. L’obiezione ecclesiologica, ancora una volta, reggerebbe soltanto se la Chiesa attuale fosse incompatibile con la Chiesa precedente. Come al solito i fautori di questa visione dimenticano che rinnovamento non significa cesura e a tale proposito l’autore cita esplicitamente il discorso tenuto da Papa Benedetto XVI il 22 dicembre 2005 alla Curia Romana, la cui portata è difficilmente sopravvalutabile ai fini della retta interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II nell’ottica della continuità. Piuttosto è la smania d’innovazioni di certi gruppi ad affievolire il sentire cum Ecclesia. “Il lamento continuo di taluni liturgisti sulla mancata attuazione della riforma e gli espedienti per renderla attraente, indicano che si è smarrito lo spirito della liturgia, riducendola ad un’autocelebrazione della comunità particolare. Quanto relativismo dottrinale nasconde la creatività liturgica” (p. 77), che finisce curiosamente per tollerare tutto, tranne l’antico messale. “Come mai i liturgisti innovatori sostengono l’abrogazione, se nello stesso tempo dicono che il Vaticano II non voleva creare un nuovo rito? Ritengono il Vaticano II più restrittivo di Trento?” (p. 85). Altri infine, a causa di un malinteso biblicismo, rimproverano al messale di Papa san Pio V, rispetto a quello riformato, la povertà di letture e il mancato coinvolgimento dell’assemblea nella proclamazione. Queste obiezioni, oltre a peccare di anacronismo, dimenticano anche che “[…] le letture brevi aiutano a memorizzare l’essenziale ed esprimono la sobrietà del rito romano” (p. 88); senza contare che spesso sono proprio costoro a farsi portatori di un’ecclesiologia errata che riduce tutto a parola e assemblea.
Nel sesto capitolo — Come incontrare il mistero (pp. 91-106) — l’autore riprende le riflessioni del regnante Pontefice, secondo il quale lo spirito della liturgia consiste essenzialmente nell’adorazione di Dio. Quando il senso della presenza di Dio si perde la liturgia diviene pura pedagogia. Si è indebolito di conseguenza anche il senso del sacerdozio descritto nel Deuteronomio (18, 5.7) e ripreso nella seconda preghiera eucaristica: stare alla presenza del Signore e compiere il servizio sacerdotale. Il servizio del sacerdote deve inserirsi nel culto che Cristo ha reso al Padre e la sua familiarità con Dio significa vicinanza, ma anche fiducia e quindi ubbidienza. Se la novità del culto cristiano sta nell’azione di Dio stesso, è errato confondere la partecipazione con l’esibizionismo di preti e di fedeli ed è sorprendente constatare la quasi abolizione dell’inginocchiarsi, gesto che solo nell’Apocalisse, modello della liturgia, compare ben 24 volte. Del resto la sistematica celebrazione verso il popolo — non recepita dal Concilio, che non ne parla, e mai imposta come obbligo —, eliminando persino la croce dal centro dell’altare per lasciare spazio a un continuo dialogo fra prete e fedeli, si è risolta in “[…] una liturgia versus presbyterum, non più versus Deum! Il sacerdote è diventato più importante della croce, dell’altare e del tabernacolo!” (p. 101). Anche una brutta — nel senso di non vera — arte sacra moderna privilegia chiese la cui forma rotonda e il cui spiritualismo iconoclasta spingono l’assemblea a chiudersi in sé stessa invece di rivolgersi a Dio.
Infine nell’ultimo capitolo l’autore offre spunti di riflessione per Un nuovo movimento liturgico (pp. 107-125). Esso consiste primariamente — stante anche la diffusa crisi dell’ubbidienza — in un paziente lavoro educativo. “Bisogna spiegare che la liturgia è sacra e divina, discende dall’alto come la Gerusalemme celeste; il sacerdote la compie nella persona di Cristo capo, vivente nella Chiesa, in quanto ne è ministro intermediario” (p. 108). Occorre meditare sulla profonda riverenza espressa dai riti orientali e magari abituarsi a rivolgere anche visibilmente i cuori al Signore mediante l’orientamento comune verso la croce. Nell’Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis sull’Eucarestia fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa, del 22 febbraio 2007, Papa Benedetto XVI enumera alcune priorità, dalla centralità del tabernacolo — spesso sostituito o addirittura coperto dalla sede del celebrante, come se la presenza di Cristo si dovesse nascondere durante la celebrazione — alla necessità della confessione. Successivamente l’autore tocca il tema della traduzione della formula di consacrazione — oggetto di una Circolare della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti sulla traduzione in volgare dell’espressione “pro multis” contenuta nella formula della Consacrazione del Prezioso Sangue, nel Canone della S. Messa, del 17 ottobre 2006 —, poi dedica ampio spazio alla totale abolizione del latino — e del canto gregoriano — verificatasi al posto del sapiente dosaggio di latino e di lingue nazionali previsto dal Concilio Ecumenico Vaticano II (cfr. Costituzione sulla Sacra Liturgia “Sacrosanctum Concilium”, del 4-12-1963, n. 36). Eppure, “malgrado la messa in lingua parlata, il numero dei fedeli nelle chiese è molto diminuito: forse anche perché, dicono alcuni, ciò che hanno compreso non è affatto piaciuto” (p. 118); è dunque fallito il mito razionalista della totale comprensibilità, come se il cristianesimo fosse una comunicazione di concetti prima che un incontro reale con Cristo. Pertanto l’autore conclude saggiamente che, per il nuovo movimento liturgico, “[…] non bastano le istruzioni preparate da esperti, ci vogliono liturgie esemplari che facciano incontrare Dio” (p. 123), poiché “in realtà è Gesù Cristo che fa la sacra liturgia con lo Spirito Santo. A noi tocca seguire, fare spazio alla sua opera” (p. 124).
Stefano Chiappalone