Filosofo della storia, storico delle civiltà e studioso della cultura nel senso più ampio: sono solamente tre delle definizioni con cui le odierne enciclopedie cercano di classificare l’eclettica opera di studio e di ricerca di uno degli intellettuali più raffinati del secolo XX, l’inglese Christopher Dawson (1889-1970). Cresciuto in un ambiente familiare anglicano ma convertitosi al cattolicesimo nel 1914, Dawson è stato uno degli osservatori più attenti della drammatica crisi contemporanea dell’Europa e, per estensione, dell’Occidente nella sua interezza, che non nasce ovviamente nel secolo XX ma affonda le radici nel lento processo di secolarizzazione cui usualmente ci si riferisce con un termine piuttosto equivoco, controverso e difficilmente sintetizzabile, la cosiddetta Modernità. Che cosa sia la Modernità, quali condizioni l’abbiano generata concretamente e come essa vada interpretata è l’oggetto del saggio La divisione della Cristianità Occidentale, pubblicato dall’editore D’Ettoris, che dello storico britannico ha già dato alle stampe La religione e lo Stato moderno (a cura di Paolo Mazzeranghi, Crotone 2007).
Dawson indaga sul declino dell’unità e sulla dissoluzione della Cristianità medioevale, particolarmente tra la fine del secolo XIII e la metà del XVI, ripercorrendone il faticoso itinerario con un obiettivo esplicito: cooperare alla restaurazione dell’unità culturale del Continente sempre più minacciata dall’emergente secolarizzazione che predica una decisa separazione fra l’uomo di scienza e l’uomo di fede, la cultura e la morale, la legge trascendente e quella dei parlamenti. In diciassette capitoli densi di rievocazioni storiche Dawson ricostruisce l’influsso creativo del cristianesimo nella civiltà europea, sottolineando opportunamente come esso non sia accidentale ma costituisca invece una caratteristica costante nel cammino dello spirito europeo. Il modus operandi di cui lo storico si serve è quello tipico dell’indagine anglosassone: descrittivo fin nei particolari e rigoroso nelle soluzioni proposte con gli elementi di commento e di giudizio che appaiono di tanto in tanto sullo sfondo appena accennati e puntuali, senza essere mai perentori né cedere alla foga della passione partigiana. Pubblicata originariamente nel 1965 e tradotta in italiano per la prima volta, l’opera esce, sempre curata da Mazzeranghi, come terzo titolo della collana Magna Europa. Panorami e voci, diretta da Giovanni Cantoni, che propone strumenti di approfondimento storico e geo-culturale indispensabili a una corretta comprensione dell’eredità disseminata nel mondo dalla cultura cristiana nata in Europa. Lo studio doveva far parte di una trilogia ideata per raccontare l’allontanamento del Vecchio Continente da Dio, con le sue lotte fratricide e le sue divisioni, fino all’auspicato ricongiungimento dell’Europa con le proprie radici e con quell’”altra” parte di Europa nata dalle missioni di evangelizzazione che è la Magna Europa. Di questa trilogia La divisione della Cristianità rappresenta il secondo volume; il primo è The formation of Christendom (Sheed and Ward, New York 1967), mentre il terzo, The return to unity, è rimasto purtroppo incompleto.
In apertura Marco Respinti presenta Cristopher Dawson, un apologeta dopo la divisione della Cristianità Occidentale (pp. 7-20), inquadrando l’autore, il suo pensiero, la tematica affrontata nel libro e il clima culturale in cui egli visse e operò. Storico della cultura e specialista del Medioevo, in particolare della formazione della Cristianità occidentale, autore di un certo numero di scritti di carattere politico, metapolitico e polemico, Dawson ha il pregio d’indicare un modo specifico di fare apologetica, adatto alla temperie culturale moderna, che richiede la demistificazione d’idee errate più che l’elaborazione di nuove tesi: “[…] la presentazione, cioè, quasi “nuda e cruda” dei dati di fatto acquisiti dalla ricerca specialistica e la “fredda” esposizione della realtà in opere di “alta divulgazione” quasi senz’altro aggiungere” (p. 11). L’opera appartiene all’ultima fase della produzione dello storico britannico, che vi descrive la progressiva disunione del mondo cristiano europeo e quindi la frantumazione vera e propria, esportata nell’intero ecumene occidentale. L’opera, tuttavia, offre anche gli elementi per ricostruire i ponti fra quanti, sopravvissuti fra le macerie di una civiltà, anelano a iniziare l’opera di costruzione “[…] con unità ideale d’intenti allo scopo di edificare la meta comune, anzi unica. Per queste ragioni The Dividing of Christendom annuncia oggi l’incipit di una grande missione, compito primario del secolo che viviamo” (p. 17).
Seguono una Nota del curatore (pp. 19-20), chiosata da una spiegazione editoriale relativa ai criteri adoperati nel testo per integrare, dove necessario, i riferimenti e le note, e una Bibliografia dawsoniana (pp. 21-25), suddivisa in Letteratura primaria — Principali opere in lingua originale, Antologie e Traduzioni italiane — e in Letteratura secondaria: La biografia e Il pensiero. Il testo del 1965 è preceduto da una Prefazione (pp. 29-30) di Douglas Horton (1891-1968), statunitense, ministro congregazionalista, decano dell’Harvard Divinity School dell’Università Harvard di Cambridge, in Massachusetts, e da un’Introduzione di David Knowles (pp. 31-33), inglese, Regius Professor of Modern History nell’Università di Cambridge. In una Nota dell’autore (p. 35) si precisa che l’opera è la trascrizione di parte delle lezioni sul tema La Cristianità, quelle sulla divisione della Cristianità, tenute come primo titolare della Cattedra Chauncey Stillman di Studi Cattolici Romani all’Università di Harvard, dal 1958 al 1962.
Come spiega Knowles nell’Introduzione, l’idea dominante dell’opera è quella di dimostrare che “[…] la religione è la forza dinamica, il costituente fondamentale e l’ispirazione di ogni attività umana superiore, e, di conseguenza, la cultura di un’epoca dipende dalla religione e non viceversa” (p. 31). Il periodo preso in esame copre dunque il passaggio dalla Riforma protestante alla Rivoluzione Francese, focalizzando l’attenzione sullo sviluppo della cultura cattolica e riformata che in quel periodo vivono una cesura fondamentale con l’affermazione della rivoluzione antropocentrica. Per dirla con le parole dell’autore nel primo capitolo — Le conseguenze culturali della separazione fra i cristiani (pp. 37-47) — “[…] l’epoca creativa della cultura medioevale fu il risultato dell’alleanza fra il Papato e i riformatori del Nord, rappresentati dai cluniacensi e dai cistercensi, e quando questa alleanza si ruppe, la vitalità della cultura medioevale declinò. La Riforma protestante del secolo XVI rappresenta una rottura finale fra il Papato e i riformatori del Nord, fra il principio di autorità e il principio di riforma, entrambi ugualmente essenziali alle tradizioni della Cristianità occidentale” (p. 42). La ferita inferta alla Cristianità dalla rivolta del teologo tedesco Martin Lutero (1483-1546), che poi doveva dare origine a un folto sottobosco di scismi e di eresie pressoché infinito, è qualcosa di oltremodo drammatico che va ben oltre i risvolti teologici o dottrinali e inquina profondamente i modi di pensare, di agire e di relazionarsi dell’uomo del tempo, tanto con Dio quanto con il prossimo. Quello che subisce un irrimediabile sconvolgimento è la cultura nel senso più vasto del termine, avendo cura d’indicare con il termine non un complesso di biblioteche o archivi ma l’insieme degli atteggiamenti, dei pensieri ultimi e delle convinzioni profonde che animano la vita di ogni uomo, come ebbe a ricordare Papa Giovanni Paolo II (1978-2005). Dawson ne è talmente persuaso da affermare che “come storico sono convinto che le fonti principali della divisione e il principale ostacolo all’unità dei cristiani siano stati e siano piuttosto culturali che teologici. Di conseguenza, credo che solo combinando lo studio della storia della cultura cristiana con lo studio della teologia possiamo comprendere la natura e l’estensione del problema da affrontare” (p. 48).
Non va certo dimenticato che il declino della Cristianità — oggetto del secondo capitolo, Il declino dell’unità della Cristianità medioevale (pp. 49-66) — è stato generato in primo luogo ed essenzialmente da due aspetti storici convergenti: la perdita dell’unità internazionale e dell’autorità del Papato, e la crescita degli Stati moderni e la ricerca dell’unità politica nazionale. Ma lo studioso vuole evidenziare che la separazione provocata dalla Riforma nelle coscienze dei popoli d’Europa è stata senza più dubbio ben più radicale degli sconvolgimenti squisitamente politici in quanto essa andava a minare assetti fondamentali dell’umano, ontologici, comunque pre-politici, oggi diremmo di natura antropologica. Precisamente nella disamina di questi aspetti si sofferma il terzo capitolo, Il Rinascimento (pp. 67-92). Nel periodo culturale passato alla storia come Rinascimento, infatti, non si ha solamente una rinascita superficiale degli studi classici ma, propriamente, “l’avvento di una nuova cultura, di un nuovo modo di vita” (p. 68): la vita sarà allora concepita non più alla maniera medioevale, edificata dal lievito del Vangelo, come un combattimento e un pellegrinaggio, ma come un’arte raffinata in cui nessuna opportunità di conoscenza e di divertimento dovrà essere trascurata. La differenza non potrebbe essere più evidente.
Nonostante ciò il secolo XVI, i cui significativi mutamenti tanto di ordine sociale quanto di tendenze e di costume sono presi in esame nel quarto e nel quinto capitolo — Martin Lutero e la chiamata alla rivolta (pp. 93-108) e La rivoluzione dei prìncipi (pp. 109-124) —, passerà alla storia anche come un periodo di persecuzione anticattolica. Lo dimostra in modo paradigmatico la breve ma incisiva panoramica sull’Inghilterra della regina Elisabetta I Tudor (1533-1603) — nel sesto capitolo, La Riforma in Inghilterra (pp. 125-138) — in cui i cattolici che rifiutano di compiere l’atto di conformità esterna al rito anglicano sono soggetti a una “dura e severa persecuzione, costata la vita a più di 180 di loro prima della fine del regno” (p. 136). Per non essere da meno i “cugini” scozzesi, guidati da John Knox (1505-1572), il discepolo di Calvino (Jean Cauvin, 1509-1564), e sotto il principio proclamato da Knox secondo cui “[…] ogni uomo era “vescovo e re” in casa propria” (p. 145), procedono a un’uguale rivoluzione nazionale: viene subito abolita la giurisdizione del Papa ed è tassativamente proibito dire o ascoltare la Messa, tanto pubblicamente quanto segretamente, e infine sono applicate apposite misure intimidatorie per accertarsi che tutto ciò fosse attentamente osservato, anche sotto pena di morte. Non certo migliore, peraltro, è la situazione in Francia, come spiega il settimo capitolo, La Riforma in Francia (pp. 139-152). La “figlia primogenita della Chiesa” viveva in quel periodo una forte protestantizzazione segnata dalle distruzioni delle chiese e dagl’incendi dei monasteri, per non menzionare l’iconoclastismo diffuso, caratteristica marcata del calvinismo più intollerante che provoca le reazioni della maggioranza cattolica. La Riforma, insomma, nello spazio di una sola generazione “riuscì a cambiare interamente la situazione religiosa ed ecclesiastica dell’Occidente” (p. 154): correttamente parlando non fu quindi una semplice “riforma” — termine di cui lo studioso anglosassone sottolinea opportunamente l’equivocità semantica — ma qualcosa di molto peggio; a ben vedere si trattò a tutti gli effetti di una “rivoluzione religiosa” (p. 155).
Di fronte a un simile sconvolgimento la risposta cattolica — illustrata nell’ottavo capitolo, Il Concilio di Trento e l’ascesa dei gesuiti (pp. 153-170) — si condensa simbolicamente in un uomo e in un libro piccolissimo, difficilmente catalogabile. L’uomo in questione è sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), l’opera ha per titolo Esercizi spirituali e rappresenterà “per tantissimi versi il testo fondamentale del risveglio cattolico” (p. 159). Si rivela infatti un testo destinato non solo ai membri della nuova congregazione fondata da sant’Ignazio — la Compagnia di Gesù — ma ben di più: un insegnamento pedagogico e umano esemplare, destinato a rimanere incancellabile, che fornisce il modello psicologico e la motivazione personale su cui doveva basarsi l’opera ecclesiastica e sociale di riscatto. L’azione missionaria dei gesuiti che ne segue è entusiasmante. Centinaia, quindi migliaia di uomini “scelti” che partono per ogni angolo del mondo con un solo obiettivo: la consacrazione di tutte le potenze e le risorse dell’uomo al servizio del supremo proposito, edificare una comunità umana Ad maiorem dei gloriam. Il loro straordinario lascito non si ferma peraltro al solo campo dell’educazione o dell’istruzione, pur fondamentale, ma va ben oltre, lambendo pressoché ogni angolo dello scibile umano. Così, per esempio, i racconti dei missionari gesuiti contribuiscono a trasformare il sapere e la comprensione occidentali del mondo non europeo più dei resoconti specialistici dei viaggiatori e degli esploratori: “gli autori delle innumerevoli Relazioni gesuite furono i precursori tanto dei moderni etnologi e orientalisti che dei moderni missionari” (p. 164). E, ancora, si rivelano in grado di generare teologi, filosofi, uomini di lettere, poeti, storici e scienziati. In breve, fanno più di chiunque altro per innalzare il livello degli studi cattolici e per portare la Chiesa a contatto con tutte le forze culturali vive del tempo; soprattutto “[…] fissarono un modello di umanesimo e di cultura letteraria cristiani che ebbe un ambito d’influenza straordinariamente ampio, anche nei paesi protestanti” (ibidem). A un livello spirituale ugualmente profondo, se non maggiore, si colloca la rinascita mistica spagnola che emerge allo stesso tempo in modo dirompente nella vita e negli scritti di santa Teresa d’Avila (1515-1582) e di san Giovanni della Croce (1542-1591), genera in modo diretto la riforma carmelitana e farà “[…] sentire la sua influenza in tutto il mondo cattolico e oltre” (p. 168). Ad altri maestri di spiritualità — e diremmo anche di autentica civiltà, come san Carlo Borromeo (1538-1584) e san Filippo Neri (1515-1595) — lo storico inglese dedica diverse pagine, presentando il loro dinamismo morale e la loro contagiosa testimonianza per dimostrare che, ancora una volta, essa eccede di gran lunga i ristretti limiti di un oratorio o di una sacrestia per andare a ri-vivificare in concreto le radici della Cristianità e a plasmare una società intera. Alla luce di tali e tante testimonianze, come suggeriscono il nono e il decimo capitolo — I puritani e la formazione della “via” del New England (pp. 171-178) e Le separazioni nazionali della Cristianità divisa (pp. 179-192) —, va quindi sfatato il luogo comune che vuole il secolo della Riforma cattolica come un’età buia e oscura, in sé poco originale, di scarso interesse per gli studiosi. Al contrario esso rappresenta piuttosto una “desecolarizzazione del Rinascimento” (p. 196). Alla fine del lungo viaggio nella prima grande crisi dell’Europa moderna, riflettendo nell’undicesimo capitolo — Il risveglio cattolico e la cultura barocca (pp. 193-202) — sulle differenze fra le due anime cristiane del Vecchio Continente, Dawson scorge variazioni di non poco conto: “il contrasto fra la cultura barocca matura dell’Europa Meridionale e Centrale e la nascente cultura borghese della società calvinista fu così allo stesso tempo un contrasto fra opposti ideali spirituali e opposte tendenze sociali. La cultura barocca della Spagna e dell’Austria fu quella di una società di prìncipi e di monasteri […]. Si trattò di una cultura non-economica, che spese il suo capitale con prodigalità, sia per la gloria di Dio che per l’ornamento della vita umana. La cultura puritana olandese e inglese, d’altro canto, fu la cultura di una società di commercianti, di agricoltori e di artigiani la cui vita era incentrata sul luogo di riunione, sull’ufficio commerciale, sulla fattoria e sulla bottega” (p. 206).
Tuttavia, come si premura di dimostrare l’ultima parte del saggio — particolarmente il dodicesimo capitolo, La cultura della Cristianità divisa (pp. 203-214) —, “comune a entrambe le metà della Cristianità divisa è lo sviluppo della scienza moderna, che fu il prodotto di questo periodo” (p. 209) e rende ulteriore ragione della forza dinamica della tradizione religiosa dell’Europa in antitesi a quanto vorrebbero far credere alcune letture ideologiche di un aggressivo laicismo accademico, che ancora in tempi recenti sembra riemergere, anche a livello internazionale. Proprio questo, d’altronde, resta il senso profondo della lezione di Dawson, che emerge soprattutto nel tredicesimo e nel quattordicesimo capitolo, L’età di Luigi XIV e la formazione della cultura classica francese (pp. 215-222) e Il movimento wesleyano in America (pp. 223-238): storicamente — non ideologicamente — la fede si è dimostrata la maggiore forza di coesione della cultura e, come sottolineato da ultimo anche dal politologo statunitense contemporaneo Samuel Huntington (1927-2008), essa rappresenta la chiave di volta di ogni grande civiltà, al punto che non è errato affermare che quando una società perde la sua religione presto o tardi perde anche la sua cultura, intesa come quell’ordine che riunisce tutti gli aspetti della vita umana in una comunità spirituale viva. Il processo di secolarizzazione — esposto in modo dettagliato nel quindicesimo capitolo, La secolarizzazione della cultura moderna (pp. 239-248) —, auspicato e promosso secoli addietro con ogni mezzo nei circoli più ristretti dell’intelligencija benpensante, ha influenzato progressivamente il ceto medio e da ultimo, per osmosi, l’intero corpo sociale, giungendo nel tempo presente a uno stadio drammatico. L’età dell’illuminismo (pp. 249-258), nelle sue varie correnti politiche e culturali, ha svolto il suo lavoro in modo eccellente, scalzando l’immagine di Dio non solo dalla cattedrale parigina di Notre-Dame ma anche dai cuori degli uomini, autoproclamatisi orgogliosamente liberi individui “moderni” o, come si dice oggi con un certo linguaggio enfatico, “adulti”. La successiva Rivoluzione Francese — presa in esame nel diciassettesimo capitolo, La Rivoluzione Francese: la situazione del cattolicesimo nel secolo XVIII (pp. 259-272) — ha fatto il resto, privando la piazza pubblica di ogni fondamento metafisico e spazzando via, “[…] per quanto fu possibile, l’intera struttura delle istituzioni cristiane organizzate” (p. 260). Considerando in successione le numerose cesure e divisioni dell’anima europea, il quadro conclusivo apparirebbe oggettivamente preoccupante ma il tono di Dawson rifugge in modo deciso da inutili vittimismi e ricorda anzi a ogni lettore, oggi come ieri, che la speranza prima di tutto è una virtù teologale, e non propriamente secondaria. Se, come insegnava Papa Pio XII (1939-1958), è tutto un mondo che va restaurato e riordinato in Cristo, le pagine di Dawson costituiscono un passaggio obbligato per chiunque voglia contribuire, certamente a suo modo e con i propri mezzi, a quest’avventura esigente come poche altre, eppure straordinariamente entusiasmante.
Omar Ebrahime