Omar Ebrahime, Cristianità n. 364 (2012)
La collana Magna Europa. Panorami e voci, diretta da Giovanni Cantoni per l’editrice D’Ettoris con l’obbiettivo di proporre — meditando il ricco Magistero in proposito del Papa beato Giovanni Paolo II (1978-2005) — adeguati strumenti di approfondimento storico e geoculturale su quel particolare continente spirituale che è l’Europa, è giunta al suo quarto titolo, La formazione della Cristianità Occidentale, dello storico britannico della cultura Christopher Dawson (1889-1970), da non confondere con l’altra sua opera Il cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale (trad. it., Rizzoli, Milano 2005). Traduttore e curatore del lavoro, come già per le altre due opere di Dawson presenti in collana — La religione e lo Stato moderno (trad. it., D’Ettoris, Crotone 2007; cfr. la recensione di Marco Respinti, in Cristianità, n. 343-344, settembre-dicembre 2007, pp. 39-42) e La divisione della Cristianità Occidentale (trad. it., con Presentazione di M. Respinti, D’Ettoris, Crotone 2008; cfr. la mia recensione in Cristianità, n. 354, ottobre-dicembre 2009, pp. 71-75) —, è Paolo Mazzeranghi, cultore dell’opera e del pensiero dello storico britannico. Il saggio in questione, pubblicato per la prima volta nel 1967 — l’ultima opera edita in vita da Dawson —, raccoglie la prima parte delle lezioni tenute presso la cattedra di Studi Cattolici Romani della statunitense Università di Harvard ed è interamente dedicato al lungo processo storico di formazione della civiltà cristiana romano-germanica intesa quale civiltà specificamente religiosa ma al tempo stesso creatrice di cultura, di scienza e di progresso, che dalla predicazione dei primi padri della Chiesa arriva fino al termine della variegata koinè medioevale.
La Presentazione del curatore — Christopher Dawson: la speranza dalla storia (pp. 9-18) — introduce alla vita e all’opera di Dawson, inquadrandola nel revival culturale cattolico che anima la Gran Bretagna degli anni 1930 e in cui gioca un ruolo importante il poeta, drammaturgo e critico letterario statunitense, poi naturalizzato inglese, Thomas Stearns Eliot (1888-1965). La figura di Eliot, infatti, è centrale per apprezzare l’opera di autentico mediatore culturale, ad maiorem Dei gloriam, che Dawson svolge continuamente in quegli anni fra le due sponde dell’Oceano, “cuori pulsanti” della Magna Europa, convinto che il Paese nordamericano non rappresenti soltanto l’esempio massimo di libertà contro i totalitarismi del Vecchio Continente ma conservi anche — di più e meglio dell’Europa post-illuminista — preziosi fondamenti del diritto naturale. Seguono una Nota del curatore (pp. 19-20) e una ricca Bibliografia (pp. 21-26), che elenca in ordine cronologico le prime edizioni in lingua inglese delle principali opere in volume, le antologie, una rassegna delle traduzioni italiane e una vasta sezione di letteratura secondaria, articolata in La biografia e Il pensiero.
Il testo del saggio è preceduto da una Nota dell’autore (p. 29), che precisa lo spazio temporale in cui nasce l’opera, ovvero gli anni dal 1958 al 1962, caratterizzati dalle lezioni sul tema La Cristianità tenute presso l’Università di Harvard. In realtà, le lezioni, suddivise cronologicamente in tre parti — “la Formazione della Cristianità, la Divisione della Cristianità, il Ritorno all’Unità cristiana” (p. 29) —, non saranno tutte pubblicate: Dawson rinvia la pubblicazione dell’ultima parte per aver modo di studiare approfonditamente i documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), ma una polmonite, seguita a un attacco cardiaco, lo conduce in breve alla morte, il 25 maggio 1970. La seconda parte, che ha per oggetto il periodo dalla Riforma protestante alla Rivoluzione Francese, è stata pubblicata con il titolo La Divisione della Cristianità Occidentale; quella qui presentata è dunque la raccolta comprendente tutte le lezioni del primo gruppo da “la formazione della Cristianità a partire dalle sue origini nella tradizione giudaico-cristiana fino alla crescita e al declino dell’unità medioevale” (p. 29).
L’opera in senso proprio si compone di tre parti e un epilogo. Nella prima parte — l’Esordio (pp. 31-93) —, suddivisa in quattro capitoli, l’autore rende ragione del suo peculiare concetto di “cultura”, che assegna alla dimensione religiosa un primato indiscusso, peraltro in anni in cui la secolarizzazione della società occidentale appariva invece ai più come un processo irreversibile. In particolare, il primo capitolo — Introduzione a questo studio (pp. 33-46) —, spiegando le ragioni dell’istituzione della cattedra di studi cattolici a Harvard e il contesto storico-culturale di riferimento, fornisce riflessioni preliminari sull’approccio adottato e qualche salutare giudizio. Dawson spiega che “[…] l’esistenza della Chiesa Cattolica è una delle grandi realtà oggettive della storia. È impossibile scrivere la storia del cristianesimo senza di essa ed è ugualmente impossibile comprendere la storia della nostra civiltà, dal momento che il cattolicesimo è stato una delle maggiori forze formatrici della cultura nella storia e ha lasciato i suoi segni su molte delle istituzioni caratteristiche della civiltà occidentale” (pp. 34-35). Si tratta di elementi e dati di fatto oggettivi, che rimandano anzitutto alla realtà su cui lo storico di professione può avere una propria particolare idea ma che rappresentano — a prescindere dall’orientamento di riferimento — un’evidenza inconfutabile: la civiltà occidentale è stata essenzialmente una civiltà cristiana, nei suoi uomini, nelle sue idee e nelle sue istituzioni. Oggi, però, “[…] viviamo in un’epoca di crisi” (p. 45) e le verità evidenti di un tempo non sono più riconosciute, perciò è necessaria un’operazione di “purificazione della memoria” — per usare un’espressione coniata dal Papa beato Giovanni Paolo II — che, per il bene comune, restituisca non solo a Cesare quel che è di Cesare, ma ancor prima, e soprattutto, a Dio quel che è di Dio.
Il secondo capitolo — Il cristianesimo e la storia della cultura (pp. 47-58) — circoscrive questa impostazione metodologica di fondo, chiarendo ulteriormente i termini della questione: se “la storia del cristianesimo è la storia d’un intervento divino nella storia […] non è possibile studiarla separatamente dalla storia della cultura nel senso più ampio del termine” (p. 47). Insomma, “il cristianesimo è […] entrato nella corrente della storia umana e nel processo della cultura umana” (ibidem), interagendo con le singole vicende dei popoli e delle nazioni, sicché sarebbe obbiettivamente incomprensibile oscurare questo lato significativo della storia dell’umanità per prediligere angolazioni che si vorrebbero più neutre, magari superficialmente “scientifiche”: in tempi recenti ci ha provato, fra gli altri, il filosofo e storico tedesco Ernst Troeltsch (1865-1923), ma la struttura delle istituzioni e l’analisi superficiale degli avvenimenti non esauriscono mai il tutto perché, come recita un vecchio adagio, Dio — come pure, per converso, la tentazione contro Dio suggerita dal “principe di questo mondo” (Gv. 12, 31) — si trova piuttosto nel dettaglio. Esiste poi anche uno spazio che la teologia — laicamente, verrebbe da dire — reclama per sé e che va pure sottoposto ad esame, se si vuole comprendere il grado di ragionevolezza che una tradizione religiosa apporta alla riflessione generale sulla conoscenza e sul sapere umano; una questione, per inciso, ritenuta decisiva dal regnante Pontefice nella Lectio magistralis tenuta a Ratisbona il 12 settembre 2006. Quindi, per riassumere, sarà bene tenere fermo a mente che “studiando il processo di avanzamento e di arretramento della cultura cristiana lungo le successive epoche della storia, studiamo un processo naturale che segue il normale processo della formazione e del mutamento culturale, ma studiamo anche un mistero teologico, la vita di Cristo nella storia, la progressiva penetrazione dell’umanità da parte della rivelazione divina, l’estensione dell’Incarnazione nella vita della Chiesa” (p. 58).
Presentati gli strumenti del mestiere, Dawson passa al nucleo centrale della questione, spiegando — nel successivo capitolo, La natura della cultura (pp. 59-77) — in che senso egli intenda il termine cultura e quali conseguenze ciò abbia per la comprensione attuale dell’identità occidentale, premurandosi di aggiungere come le moderne distinzioni fra civiltà e cultura siano spesso equivoche e viziate da ideologia, oltre che poco fondate storicamente: “la distinzione fra cultura e civiltà è […] qualcosa di arbitrario. Io personalmente seguo la tradizione che definisce la civiltà come lo stadio di una cultura superiore che è associato con lo sviluppo delle città e con l’uso della scrittura” (p. 61) e dove l’elemento religioso — un tratto intuitivamente universale dell’essere umano e che contribuisce a qualificarlo qualitativamente sul resto del creato — gioca comunque un ruolo fondamentale. Per questo, contrariamente agli assiomi del positivismo storiografico imperante — allora come oggi —, quando si tende a relegare la fede nel privato o a negare la valenza pubblica delle radici religiose occorrerebbe ricordare che “una cultura […] è una cosa molto fragile e il delicato equilibrio della sua struttura sociale è rovesciato appena i suoi limiti spirituali sono infranti e i suoi singoli membri perdono fiducia nella validità e nell’efficienza del suo ordine morale” (p. 75). Una cultura insomma nasce e — cosa ancor più importante, può continuare a vivere — se vi è anzitutto una fonte spirituale che l’alimenta e la rafforza, fonte che nel caso di specie dell’Occidente, e in primis dell’Europa, non può che essere il cristianesimo. Recidere questa radice millenaria significherebbe quindi non solo e non tanto danneggiare una religione ma l’Europa stessa, anche — e non marginalmente — nei suoi ordinamenti civili e legislativi. Per poter esistere, infatti, una comunità ha bisogno di raggiungere un consenso rilevante sul significato e sul fine delle proprie relazioni sociali e l’età lunga delle ideologie ha dimostrato proprio che, laddove viene minata la consapevolezza collettiva dell’ordine naturale del mondo, prima o poi finisce per affermarsi inevitabilmente la volontà di potenza. L’epoca della Cristianità, con le sue luci e le sue ombre, è stata invece un lungo periodo storico in cui un intero continente ha potuto progredire, diventando il faro della civiltà nel mondo, perché le sue fondamenta erano radicate saldamente nel Decalogo che, ove mai la legge naturale fosse stata “dimenticata”, contribuiva a ricordare il senso del proprio agire civile — diritti e doveri — a tutti, governanti e governati. L’ultimo capitolo della prima parte — Lo sviluppo e la diffusione della cultura (pp. 79-93) — conclude questa impegnativa serie di riflessioni con alcune considerazioni sulle principali tradizioni religiose del mondo, fra cui l’islam e l’ebraismo, tratteggiando il loro rapporto con l’età moderna e il loro contributo — con notevoli differenze — alla civilizzazione dell’Oriente e dell’Occidente. In tempi di globalizzazione, comunque, e oggi più che mai, resta inconfutabile quanto Dawson scriveva con preoccupazione già allora e cioè che, a dispetto delle proclamate conquiste scientifiche e tecnologiche, manca ancora “[…] un ordine morale comune, senza il quale una vera cultura non può esistere. [Infatti] l’intero mondo moderno veste gli stessi abiti, guida le stesse auto e guarda gli stessi film, ma non possiede valori morali comuni o un senso di comunità spirituale” (p. 93).
La seconda parte dello studio — Gl’inizi della cultura cristiana (pp. 95-191) — approfondisce innanzitutto i fondamenti strettamente metafisici della questione nel capitolo su Le idee cristiana ed ebraica di rivelazione (pp. 97-112). I maestri culturali e intellettuali di Dawson — tutti citati — illuminano qui la migliore teologia della storia di matrice cristiana, da san Paolo di Tarso a sant’Agostino d’Ippona (354-430), fino a Joseph de Maistre (1753-1821) e al beato cardinale John Henry Newman (1801-1890). Nelle loro pagine, infatti, si trova magna pars delle riflessioni proposte dall’autore e relative all’azione costante di Dio nella storia, talora messa in dubbio perfino fra i teologi più affascinati dalle mode del mondo. “Nell’Antico Testamento, specialmente nei Profeti, troviamo per la prima volta l’idea guida della divina provvidenza e dell’intervento divino nella storia, la concezione che i grandi eventi della storia sono tutti inseriti in un progetto divino che conduce a un giudizio divino.
“Vi è anche un dualismo storico, vi sono due princìpi che operano nella storia. La vera storia, la storia sacra, non è la stessa che appare, ovvero la storia secolare. Il significato spirituale e il valore della storia sono nascosti sotto il velo del cambiamento politico ed economico esteriore” (p. 110). Sullo sfondo s’intuisce chiaramente la lezione del De Civitate Dei di sant’Agostino, summa ideale e sorgiva della vita cristiana intesa come militia che avrebbe successivamente informato generazioni di uomini e donne, spingendoli entusiasticamente alla missione, compresi non pochi santi, da Ignazio di Loyola (1491 ca.-1556) a Luigi Maria Grignon di Montfort (1673-1716). I successivi due capitoli — L’avvento del Regno (pp. 113-128) e Il cristianesimo e il mondo greco (pp. 129-143) —, caratterizzati da un maggior approfondimento storico, rendono ragione del complesso, e fecondo, processo di ellenizzazione vissuto dalla prima cultura cristiana, da cui sarebbe scaturita quella civiltà che ha dato vita a uno dei periodi più originali della storia dell’umanità, il cosiddetto Medioevo. Tale sarà il periodo in cui i monasteri creeranno — mattone su mattone, se è lecita la metafora — quell’immensa cattedrale culturale, spirituale e artistica che sarà l’Europa cristiana. È il periodo in cui la liturgia e la teologia hanno un’immediata ricaduta sociale — come spiega il nono capitolo, L’influenza della liturgia e della teologia sullo sviluppo della cultura bizantina (pp. 165-182), — anzitutto sul cristianesimo di derivazione orientale, ma non solo. In effetti, è allora che prende corpo “[…] la sintesi della religione orientale e della cultura occidentale, o, per essere più precisi, l’unione delle tradizioni spirituali d’Israele e della Chiesa cristiana con le tradizioni intellettuali e artistiche dell’ellenismo e con le tradizioni politiche e sociali di Roma. Questa sintesi è rimasta il fondamento della cultura occidentale e non è mai stata distrutta, nonostante la tendenza della Riforma a riebraicizzare il cristianesimo e quella del Rinascimento a riellenizzare la cultura” (p. 177). Sullo sfondo tre colli: l’Acropoli di Atene, il Campidoglio di Roma e il Golgota a Gerusalemme. Quello che storicamente è stato l’Occidente, e quindi la Cristianità, non è altro che il frutto maturo nato da questi tre semi e le pagine di Dawson sono una puntuale ricostruzione di questo processo fino a concludere che “[…] il cristianesimo cattolico è sempre stato pienamente consapevole del suo debito verso il pensiero greco, in primo luogo per il suo contributo alla teologia dei Padri e alle definizioni dei Concili ecumenici, ma anche, in misura secondaria, per lo sviluppo della sua filosofia e per la formulazione della sua dottrina giuridica” (ibidem). Il genio di san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274) porterà a livelli mai più raggiunti questa straordinaria sintesi culturale che, per inciso, cancellando definitivamente l’antica visione magica della natura, getterà le fondamenta anche per le successive acquisizioni scientifiche dell’età moderna. D’altronde, i problemi — non solo per la fede cristiana ma anche per l’Europa intera — cominceranno proprio quando, per opera di filosofi, teologi e riformatori eretici, questo fruttuoso dialogo verrà violentemente interrotto per ripristinare una supposta purezza primigenia.
La seconda parte si conclude — nel capitolo su La Chiesa e la conversione dei barbari (pp. 183-191) — con un doveroso elogio di quella che è stata la civiltà cristiana e grazie a cui, per quanto se ne dica dagli odierni pulpiti mass-mediatici e tecnocratici, l’Europa è diventata il faro del mondo moderno: “L’unità dell’Europa medioevale non fu dunque secolare o politica, ma concepita come l’unità del popolo cristiano o Cristianità, un’unità costruita dalla Chiesa partendo dai materiali più diversi: le rovine di Roma imperiale, le tradizioni originarie dei nuovi popoli provenienti dall’esterno delle vecchie frontiere romane, la letteratura latina e la tradizione scolastica, il sapere religioso dell’età dei Padri, la liturgia, l’arte e la musica cristiane che avevano le loro sorgenti nell’Oriente cristiano.
“Non è dunque affatto un’esagerazione considerare la cultura medioevale come cultura cristiana par excellence, dal momento che è la sola grande cultura conosciuta creata da forze cristiane e diretta a fini cristiani” (p. 189).
La terza e ultima parte —– La formazione della Cristianità medioevale: l’ascesa e il declino (pp. 193-313) — ne offre al lettore un grandioso affresco: dalla nascita di quella grande istituzione sociale mediante cui la Chiesa “[…] compì l’opera di acculturazione cristiana e che dominò l’intero sviluppo della cultura medioevale” (p. 195), ovvero la comunità monastica — descritta nel capitolo su La fondazione dell’Europa: i monaci d’Occidente (pp. 195-208) —, fino all’incommensurabile opera di educazione svolta dai grandi centri educativi dell’epoca — come, nell’Europa del Nord, l’abbazia di Fulda, di cui si tratta nel dodicesimo capitolo, L’età carolingia (pp. 209-220) —, tanto da poter concludere, non senza ragione, che “[…] furono i monasteri a salvare la cultura e il modo di vita cristiani” (p. 220). In effetti, “l’abbazia era un microcosmo di cultura cristiana, un’isola che ne conservava la tradizione: istruzione e sapere, libri e scrittura, musica e liturgia, arte e architettura” (ibidem). Certo, la civiltà medioevale non era esente da conflitti, né tantomeno da vizi o da peccati diffusi — si vedano in proposito i successivi capitoli, L’Europa feudale e l’epoca dell’anarchia (pp. 221-231) e Il Papato e l’Europa medioevale (pp. 233-245) —, ma ciò non toglie che fosse una società cristiana, a misura di uomo e secondo il piano di Dio, tanto da generare fior di santi e di predicatori — che avrebbero avuto un ruolo decisivo anche nel salvare l’identità più genuina della Penisola italiana dall’influenza secolarizzatrice della cultura rinascimentale —, e senza contare che in un tale contesto “nessuno era troppo povero o miserabile per non essere incluso in questa comunità: perfino i mendicanti e i lebbrosi possedevano la loro dignità spirituale, solennemente riconosciuta dalle potenze del mondo quando il Giovedì Santo il re lavava i piedi ai poveri e li nutriva alla sua stessa tavola” (p. 256), come si può leggere con dovizia di particolari nel quindicesimo capitolo, L’unità della Cristianità Occidentale (pp. 247-261).
Il capitolo seguente — Le conquiste del pensiero medioevale (pp. 263-284) — evidenzia un aspetto solitamente trascurato dai manuali di studio, ovvero il fatto che l’epoca medioevale “[…] gettò le fondamenta delle acquisizioni scientifiche del mondo moderno. Dobbiamo a essa, infatti, quella fiducia nel potere della ragione e quella fede nella razionalità dell’universo senza cui la scienza sarebbe impossibile” (p. 264). Avviene così che dall’età d’oro della Scolastica si passa all’età delle prime scoperte scientifiche e tecnologiche; in questo periodo a Oxford, fra l’altro, domina a lungo la scuola francescana di Roberto Grossatesta (1175-1253) prima e di Ruggero Bacone (1214-1293) poi. Se ancora non bastasse, gli ultimi due contributi prima dell’epilogo — Oriente e Occidente nel Medioevo (pp. 285-298) e Il declino dell’unità medioevale (pp. 299-313) — offrono ulteriori ragioni, motivando tale attenzione con il fatto che “non vi è mai stata un’epoca in cui la cultura europea fu più penetrata dalla tradizione cattolica, o in cui gl’ideali cattolici trovassero un’espressione più piena in quasi ogni campo dell’attività umana. L’età di san Bernardo [di Chiaravalle (1090 ca.-1153)] e di san Francesco [d’Assisi (1182-1226)], di san Tommaso e di san Bonaventura [da Bagnoregio (1221-1222-1274], di san Luigi [IX di Francia (1214-1270)] e di Dante [Alighieri (1265-1321)] è forse l’unica epoca in cui tutto ciò che vi era di più forte e più vivo nel pensiero e nella società europei accettava i princìpi cattolici e si consacrava al servizio di Dio e della sua Chiesa. Questo è il motivo per cui i risultati positivi della religione medioevale sono stati incorporati nella tradizione cattolica e sono divenuti parte del patrimonio spirituale della Chiesa. Questo è evidente in ogni aspetto della vita cattolica; nella teologia e nella filosofia, nell’organizzazione e nel diritto canonico, nella liturgia e nel culto” (p. 312). Così, e per chiudere ancora con le parole dell’autore — si veda il conclusivo L’idea cattolica di una società spirituale universale (pp. 317-332) —, rispondendo a vecchie domande che oggi vengono proposte polemicamente come nuove dai maestri à la page del dubbio laicista, “[…] se ci viene chiesto cos’è la Chiesa Cattolica, la risposta ovvia è che essa è qui, davanti ai nostri occhi: un’enorme visibile istituzione sociale che fa parte della nostra esperienza quotidiana come il nostro paese. Tutti noi, o la maggior parte di noi, sa qualcosa della sua organizzazione […] e dell’influenza che esercita sui suoi membri per mezzo dell’autorità gerarchica e del suo codice di diritto ecclesiastico. Ma tutto questo è solo il corpo della Chiesa, e chiunque conosca solo questo conosce molto poco del cattolicesimo. La Chiesa, infatti, è anche una società fondata sulla fede e animata dallo Spirito. Questa è l’anima della Chiesa, senza cui non può esistere e da cui dipende la vita spirituale del singolo cattolico. Entrambi questi aspetti, tuttavia, sono necessari l’uno all’altro: il corpo non può esistere senza l’anima che lo anima; l’anima non può essere un’anima senza il corpo che anima.
“Per comprendere l’idea cattolica di una società spirituale universale è necessario soprattutto comprendere questa unità dei due elementi che compongono l’organismo spirituale, giacché questo è l’intero sistema cattolico. A ogni stadio e in ogni attività questi due elementi coesistono e si compenetrano. Come l’umanità è una, la Chiesa dev’essere una, perché la Chiesa è l’umanità restaurata per Cristo. Il principio di unità è la persona di Cristo, ma vi dev’essere anche un’organizzazione esterna di unità e d’istituzioni in cui questa unità interna trova le sue forme contemporanee. In caso contrario, l’unità della società spirituale si perderebbe fra la molteplicità delle sette, allo stesso modo in cui questa unità interna è stata persa nella Babele delle lingue e delle culture incomprensibili fra loro” (pp. 331-332).
Omar Ebrahime