Ignazio Cantoni, Cristianità 365 (2012)
Avery Dulles nasce ad Auburn, nello Stato di New York, nel 1918. Di educazione presbiteriana, dopo un periodo di agnosticismo si converte nel 1940 al cattolicesimo. Nel 1946, dopo aver servito nella marina militare statunitense, entra nella Compagnia di Gesù, e nel 1956 viene ordinato sacerdote. Studia all’Università Gregoriana, a Roma, ottenendo il dottorato in Teologia nel 1960. Insegna, fra gli altri, nei seguenti istituti: al Woodstock College (Woodstock, Maryland) fra il 1960 e il 1974; alla Catholic University of America (Washington, D.C.) fra il 1974 e il 1988; e alla Fordham University (Bronx, New York) dal 1988 alla morte, avvenuta nel 2008. Membro di svariati enti, di alcuni dei quali ha anche rivestito la presidenza, è stato insignito di decine di onorificenze che testimoniano una qualità dei suoi studi teologici non comune. Nel 2001 è stato creato cardinale da Papa beato Giovanni Paolo II (1978-2005). È autore di oltre venti libri; in italiano si può leggere: Ho scelto la verità (Massimo, Milano 1959); Magistero e infallibilità, in Walter Kern, Hermann Joseph Pottmeyer, Max Seckler (a cura di), Corso di teologia fondamentale, vol. IV, Trattato di gnoseologia teologica. Parte conclusiva. Riflessione sulla teologia fondamentale (ed. it. a cura di Alberto Franzini, Queriniana, Brescia 1990, pp. 173-203); Il fondamento delle cose sperate: teologia della fede cristiana (Queriniana, Brescia 1997); Modelli di Chiesa (Messaggero, Padova 2005); Cattolicesimo e pena capitale (Cristianità, anno XXXV, n. 340, marzo-aprile 2007, pp. 5-12); e Modelli della rivelazione (Pontificia Università Lateranense, Città del Vaticano 2010). Sempre nel 2010 è uscita anche Storia dell’Apologetica, traduzione di A History of Apologetics (I edizione Hutchison-Corpus, London-New York 1971; II edizione Ignatius Press, San Francisco 2005).
Nella Prefazione (pp. 5-6) S. E. mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, ricorda che “non si ama […] la Chiesa senza difenderla, cioè senza mostrare che la verità della fede incontra e valorizza ogni autentico sforzo dell’uomo per comprendere se stesso, non senza denunciare e negare quelle posizioni che essendo contro Dio sono inevitabilmente anche contro l’uomo” (p. 5).
Dopo la Preghiera serale dell’apologeta (p. 7), dello scrittore britannico Clive Staples Lewis (1898-1963), e una Premessa (pp. 8-13) di Timothy George, fondatore e decano della Beeson Divinity School della Samford University di Birmingham, Alabama, nella Prefazione alla prima edizione (pp. 17-21) l’autore puntualizza come abbia omesso “quei polemisti la cui principale preoccupazione era dimostrare che una certa forma di Cristianesimo […] fosse quella vera” (p. 19); egli pertanto si limita all’”apologetica cristiana” (p. 19) nel tentativo di evidenziare anzitutto la “credibilità generale del Cristianesimo” (p. 19). Nella Prefazione alla seconda edizione (pp. 22-23) il card. Dulles segnala come l’apologetica sia oggi vista meglio rispetto al periodo nel quale l’opera uscì per la prima volta. Se prima “gli editori quasi automaticamente rifiutavano qualsiasi libro che contenesse la parola “apologetica” nel titolo” (p. 22), perché “la parola stessa era disprezzata nei sofisticati circoli teologici, sia protestanti che cattolici” (p. 22), con il passare del tempo “c’è stata una notevole rinascita dell’apologetica, specialmente fra i cristiani evangelici e, più recentemente, fra i cattolici, gli anglicani ed altri” (p. 22).
I primi testi di apologetica sono i libri che compongono il Nuovo Testamento (Primo Capitolo, pp. 24-48): i primi interlocutori sono gli ebrei e i pagani, ma l’ottica con cui diversi testi sono stati scritti è quella di confutare dubbi presenti fra coloro che sono già credenti. “Un vaglio critico del materiale del Nuovo Testamento rende indubitabile che la resurrezione di Gesù abbia un posto di importanza unica nella prima apologetica cristiana” (p. 47). Globalmente, si può affermare che “il segno primario di credibilità, a giudicare dai vangeli, doveva essere la persona di Gesù, con la Sua vitalità, determinazione e compassione e la Sua unica maniera di insegnare e di agire” (p. 48).
L’esigenza apologetica, già presente nella prima ora del cristianesimo, non scema con il passare del tempo (Secondo Capitolo, pp. 49-109). La riflessione sulle altre religioni, mitiche e filosofiche, e sulla presenza in esse di semi di verità si fa sempre più approfondita, suscitando le riflessioni di san Giustino Martire (100 ca.-165 ca.) prima e di Tito Flavio Clemente Alessandrino (150 ca.-215 ca.) e Origene di Alessandria (185-253) poi.
Se sant’Ambrogio di Milano (339/340-397) è preoccupato dalla prospettiva di alcuni, che negavano l’esclusività di Cristo per la salvezza, “gli apologeti più importanti sono quasi unanimi nell’optare per una sintesi di fede biblica e di cultura classica” (p. 108), soprattutto nella sua forma platonica. Sant’Agostino d’Ippona (354-430) getterà le basi per un dialogo fra fede e ragione che si dipanerà nei secoli a venire. “Egli è il primo apologeta occidentale che acquista autentica eminenza di teologo. Mentre gli altri si accontentavano di ottenere vittorie tattiche o di negoziare profittevoli alleanze, Agostino fu capace di situare l’approccio alla fede cristiana nel contesto di una metafisica altamente sviluppata della conoscenza religiosa. Egli meglio precisò, e in modo originale, la distinzione fra autorità e ragione, fede e comprensione, distinzioni che da allora sono rimaste classiche” (p. 94).
Gl’interlocutori degli apologeti nei secoli successivi, venuti meno i pagani, saranno prevalentemente gli ebrei e i musulmani (Terzo Capitolo, pp. 110-163). Esponente di spicco del dialogo con gli ebrei, alla cui salvezza era “particolarmente interessato” (p. 125), è il monaco benedettino francese Pietro il Venerabile (1094-1156): “La tesi principale della sua apologia è che l’arrivo del divino Messia, le Sue umiliazioni e l’instaurazione del regno spirituale furono precisamente previste dai profeti israeliti” (p. 125). Anche i musulmani sono oggetto di attenzione amorosa, nella convinzione che “l’azione militare dei crociati […] sarebbe finita nel nulla se non fosse stata completata da un’opera di evangelizzazione” (p. 126). E per far ciò si fa promotore di studi e traduzioni di opere della cultura islamica, iniziativa che troverà con il domenicano catalano Raimondo di Pennafort (1176-1275) grande slancio con la fondazione di scuole di arabo e di ebraico per i propri confratelli.
Il confronto fra fede e ragione trova un forte impulso nel monaco benedettino e vescovo sant’Anselmo d’Aosta (1033-1109) e nel monaco francese, anch’esso benedettino, Pietro Abelardo (1079-1142) prima, e con il frate domenicano italiano san Tommaso d’Aquino poi (1225 ca.-1274). Tommaso è consapevole, nella sua opera apologetica verso i musulmani, che la loro negazione del carattere sacro delle Sacre Scritture obbliga l’apologeta ad “argomentare basandosi sulla ragione piuttosto che sull’autorità” (p. 134). “San Tommaso ha dato forma classica alla distinzione fra i due tipi di verità — quelle accessibili alla sola ragione (praeambula fidei) e quelle che sono inaccessibili senza la rivelazione divina accettata con un atto di fede soprannaturale” (p. 140). E, come gli scrittori antichi sono stati in grado di mostrare “la meravigliosa armonia fra la rivelazione cristiana e le più elevate intuizioni della tradizione platonica, così Tommaso fu capace di mostrare, in modo non meno efficace, la capacità della rivelazione biblica di assorbire, correggere e completare le cose migliori di Aristotele [384/383-322 a. C.] e dei suoi commentatori arabi” (p. 141).
Un contributo notevole alla chiarezza metodologica dell’apologetica è dato dal teologo sassone Enrico Totting da Oyta (1330-1397). “Egli distingue con grande chiarezza fra prova intrinseca ed estrinseca. Sebbene la mente umana cerchi naturalmente di afferrare le cose attraverso le ragioni intrinseche, ci sono molte verità elevate che non possono essere conosciute se non tramite rivelazione divina e quindi non sono soggette a tale dimostrazione interna. Tutte le supposte prove della Trinità e dell’incarnazione attribuite a Platone [428/427-347 a. C.] e ai libri ermetici in realtà non definiscono la conclusione desiderata con sufficiente rigore ed esattezza. In assenza delle necessarie soggettive ragioni, l’atto della fede richiede per la sua razionale giustificazione ragioni estrinseche che almeno diano una ragionevole probabilità” (p. 150).
Con la riforma protestante (Quarto Capitolo, pp. 164-227) il rapporto fra fede e ragione viene riscritto: “la ragione prima della fede poteva solo generare dubbi e sollevare obiezioni” (p. 165); “agli occhi di Lutero [Martin, 1483-1546] il problema della fede e della ragione non costituiva tanto materia epistemologica quanto soteriologica” (p. 165), perché quando la seconda “[…] cercava di intromettersi nel divino e nel celestiale diveniva insopportabilmente arrogante — la “puttana del diavolo”” (p. 165). È tuttavia da segnalare che, grazie al riformatore tedesco Filippo Melantone (1497-1560), molti luterani “[…] acquisirono molte tesi tomistiche del medioevo per giustificare il consenso della fede di fronte al tribunale della ragione naturale” (p. 167). Di fronte alla crescente ostilità nei confronti della religione, che invita a mettere fra parentesi le polemiche infra-cristiane, si pone l’opera dell’uomo politico e scrittore francese Philip de Plessy-Mornay (1549-1623), “l’apologeta protestante più importante del sedicesimo secolo” (p. 176), che ribadisce la necessità di partire da un terreno comune con i propri avversari.
Il secolo XVII dà i natali a uno dei più grandi apologeti del cristianesimo, lo scienziato e filosofo francese Blaise Pascal (1623-1662) il quale, sulla scorta di sant’Agostino e del moralista francese Michel de Montaigne (1533-1592), predispone un imponente materiale per un’opera di apologetica contro l’indifferenza religiosa, opera che non comporrà mai: i Pensées. “Anche se non si sa come metterli insieme, i frammenti sono molto più stupefacenti dei compiuti capolavori di altri” (p. 184); e anche se “pochi dei suoi argomenti, presi in se stessi, sono veramente originali” (p. 184), “il suo stile, in modo quasi miracoloso, combina passione e chiarezza” (p. 184).
Sul versante riformato, “l’opera apologetica più popolare del XVII secolo in Francia, e una delle migliori, fu l’opera in tre volumi del pastore ugonotto Jacques Abbadie (1654/1657-1727)” (pp. 190-191), anche se, “come la maggior parte dei suoi contemporanei Abbadie […] non riesce ad affrontare facilmente argomenti storici e letterari” (p. 191).
Il sensismo del filosofo inglese John Locke (1632-1704) diviene — per certi aspetti contro le sue intenzioni — nei suoi discepoli la base di un deismo poco aperto al soprannaturale. Contro tale posizione vi sarà una “grande proliferazione di opere apologetiche in difesa della rivelazione soprannaturale contro i deisti” (p. 201) nella prima parte del secolo XVIII, mentre la seconda metà verrà monopolizzata dalla critica al sensismo radicale del filosofo scozzese David Hume (1711-1776). Si deve almeno ricordare il moralista inglese Joseph Butler (1692-1752), di cui sarà discepolo il cardinale oratoriano inglese beato John Henry Newman (1801-1890), il quale richiama l’attenzione sul valore dimostrativo delle prove indiziarie, che se non convincono prese singolarmente, hanno una validità non questionabile se, numerose, convergono tutte nella medesima direzione: “le prove probabili, con l’essere sommate, non solo accrescono l’evidenza, ma la moltiplicano” (p. 204). A chi gli fa notare che esse rimangono pur sempre solo probabili, egli risponde che “in quasi tutte le decisioni pratiche della vita, incluse quelle con le più gravi conseguenze, l’uomo agisce “su prove simili per specie e grado a quelle della religione”” (p. 204). Durante tale secolo, “in Germania il tono della discussione […] fu in gran parte imposto da Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716)” (p. 209), mentre per la Francia va ricordato l’abbé lorenese Nicolas-Sylvestre Bergier (1718-1790), “molto intraprendente, lucido e ben informato” (p. 219).
Il secolo XIX (Quinto Capitolo, pp. 228-288) sente, in ambito protestante, l’influsso del filosofo prussiano Immanuel Kant (1724-1804): “il suo dualismo fra ragione pratica e ragione speculativa fornì il quadro filosofico a tanta apologetica” (p. 229). Altro nefasto influsso è quello del teologo e filosofo tedesco Friedrich Schleiermacher (1768-1834), che si scaglia contro la “cianfrusaglia dei dogmi e delle pratiche tradizionali” (p. 230); egli “[…] non cerca, come avevano fatto altri apologeti, di diffondere addolcendolo il Cristianesimo tradizionale: revisiona il Cristianesimo per farne qualcosa che egli, quale uomo del suo tempo, possa accettare” (p. 230).
Il filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855) sviluppa a sua volta molte intuizioni di Pascal, nonostante alcune sue espressioni discutibili, che lo rendono “bisognoso di correzioni” (p. 240), “ma ha fornito un salutare e molto necessario servizio attirando l’attenzione sullo scandalo […] del Vangelo” (p. 240).
Mentre lo scrittore e uomo politico francese François René de Chateaubriand (1768-1848) guida nel mondo francofono “l’avanguardia della rivolta contro l’illuminismo” (p. 246), il card. Newman è sicuramente “l’apologeta cattolico più importante del […] secolo e uno dei più grandi di tutti i tempi” (p. 264). Egli propone “uno stupefacente argomento storico in favore della verità del Cristianesimo basato sulla convergenza delle probabilità” (p. 268). “L’argomento comprende due parti principali […]. Primo, egli afferma, la storia dei giudei mostra una straordinaria tenacità di fede teistica in confronto dell’idolatria delle nazioni circostanti […]. Secondo, la storia del Cristianesimo mostra la realizzazione dell’aspettativa […] messianica di Israele e concorda perfettamente con la stessa predizione di Gesù che la sua religione avrebbe raggiunto i confini della terra” (p. 268).
Di fronte ad alcuni pensatori “è difficile sapere fino a che punto essi debbano essere considerati come contestatori e fino a che punto come sostenitori della fede” (p. 289): per esempio, la prima metà secolo XX (Sesto Capitolo, pp. 289-345) vede nel filosofo francese Maurice Blondel (1861-1949) e nella querelle che lo riguarda uno dei principali avvenimenti dell’apologetica. Egli sostiene fra l’altro che “la presenza del soprannaturale […] non può essere affermata da prove inconfutabili di tipo quasi matematico ma solo tramite la sperimentazione” (p. 291) diretta della vita di fede. Tale discorso verrà inteso da diversi come fideismo, nonostante le proteste del Blondel.
Accanto a tali tentativi di nuovi percorsi vi sono gli esponenti di un approccio restaurativo dell’apologetica, marcatamente anti-moderno, fra i quali vanno annoverati il vescovo cattolico americano Fulton Sheen (1895-1979), il sacerdote inglese Robert Hugh Benson (1871-1914) e, soprattutto, lo scrittore e pensatore pure inglese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), convertito dall’agnosticismo: “Gli attacchi dei non credenti al Cristianesimo gli fecero concludere che il Cristianesimo doveva essere qualcosa di straordinario, che mescolava vizi in apparenza incompatibili tra loro — troppo pessimistico, troppo ottimistico, troppo timido, troppo aggressivo, troppo particolaristico e troppo simile alle altre religioni, troppo pacifico e troppo guerrafondaio, troppo puritano e troppo corrotto! Non era forse possibile che il problema stesse proprio nei critici?” (p. 311).
Una via apologetica ardita sarà intrapresa dal gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), il quale tenterà una cristianizzazione dell’approccio positivista ed evoluzionista alla scienza, nel desiderio che il cristianesimo non perda il contatto con il “flusso principale dello sviluppo umano” (p. 316), che solo il cristianesimo, appunto, può condurre al suo traguardo, al “punto omega”, cioè Nostro Signore Gesù Cristo, verso cui tende ogni elemento del creato.
L’esegeta, storico e teologo tedesco Rudolf Bultmann (1884-1976), dal canto suo, procede sulla strada del fideismo dichiarando che “colui che pensa che sia possibile parlare di meraviglie [miracoli] come di eventi dimostrabili contraddice il pensiero di Dio che agisce seguendo vie nascoste. Sottomette l’azione di Dio al controllo dell’osservazione oggettiva” (p. 327). Insieme al teologo svizzero Karl Barth (1886-1968), “Il tratto comune più evidente […] è il […] rifiuto di erigere un qualsiasi sistema di criteri che potesse permettere al messaggio cristiano di essere adeguatamente valutato da una posizione esterna alla fede” (p. 332).
Uno dei più grandi apologeti “inequivocabili” del secolo fu il già citato Lewis, il quale era convinto che “Cristianesimo e Paganesimo […] avevano più cose in comune di quanto entrambi ne abbiano con la modernità senza Dio” (p. 339). Egli “[…] si rivelò maestro della divulgazione dell’idea di un Dio trascendente, personale e provvidente e nel mostrare gli errori che stanno dietro a molte delle più comuni obiezioni” (p. 339).
Il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) (Settimo Capitolo, pp. 346-389), se da un lato sembra abbia favorito “una fiduciosa, attraente, irenica, rappresentazione della dottrina cattolica piuttosto che un tentativo di provarne la verità” (p. 346), tuttavia afferma che “il discepolo ha verso Cristo Maestro il dovere grave di conoscere sempre meglio la verità da lui ricevuta, di annunciarla fedelmente e di difenderla con fierezza” (p. 346). Tale tono “tendeva a minare lo spirito polemico che aveva animato l’apologetica del passato” (p. 346), il quale, indubbiamente, aveva toccato qualche eccesso.
L’apologetica viene proposta in questi anni da studiosi come il gesuita canadese René Latourelle, come parte della teologia fondamentale: “[…] nel suo aspetto dogmatico, studia la parola di Dio in quanto realtà fondante del Cristianesimo. Sotto questo aspetto, essa elabora le categorie fondamentali della scienza teologica, che include la rivelazione, la tradizione, l’ispirazione biblica e il Magistero della Chiesa. In questa prima fase la teologia fondamentale considera la risposta della fede come data dalla grazia, libera e decisiva accettazione della parola di Dio. Nel suo secondo, o apologetico, aspetto la teologia fondamentale cerca di dimostrare che la parola di Dio, così come ci giunge storicamente, merita l’accettazione delle persone che ancora non l’hanno ricevuta. Essa mette a confronto i segni della rivelazione con le domande e le resistenze della ragione” (p. 348).
“La Chiesa Cattolica ha insegnato, e continua a insegnare, che ci sono segni sufficienti per rendere l’assenso dato alla fede oggettivamente giustificabile. Il compito dell’apologetica è di scoprire questi segni ed organizzarli in modo che possano essere persuasivi per un pubblico particolare. I ragionamenti non potranno mai provare la verità del Cristianesimo al di là di ogni possibile dubbio, ma possono mostrare che è saggio credere e che i ragionamenti contro il Cristianesimo non sono inconfutabili. La grazia di Dio farà il resto” (p. 389).
Uno dei grandi meriti dell’opera del card. Dulles è di mostrare implicitamente come l’apologetica sia inscritta in modo indelebile nel cristianesimo: tutti gli autori che hanno segnato la storia di esso hanno scritto di apologetica, non importa se riferendosi a essa espressamente oppure no.
Una speranza senza ragioni, insegna san Pietro, non è cristiana (cfr. 1Pt. 3, 15).
Ignazio Cantoni