Domenico Airoma, Cristianità n. 213-214 (1993)
Nell’aprile del 1985, Giovanni Falcone concede una lunga intervista a Lucio Galluzzo, a Francesco La Licata e a Saverio Lodato. In essa il magistrato, alla domanda nodale “Cos’è la mafia”, risponde: “Molto di più che una semplice associazione per delinquere. Alcuni la definiscono addirittura un contro-potere. In realtà, oltre ad avere fini di lucro, o tendere al controllo dell’economia, non è priva di suoi presupposti ideologici, in senso deteriore, ovviamente. Esprime una sua subcultura che è l’aspetto criminale esasperato di certi valori che, di per sé, non sarebbero censurabili: il coraggio, l’amicizia, il rispetto delle tradizioni” [Lucio Galluzzo, Francesco La Licata e Saverio Lodato (a cura di), Falcone vive, Flaccovio, Palermo 1992, p. 61). Nella stessa occasione, a proposito del suo primo contatto con il fenomeno, affermava: “La mafia […] mi apparve come un mondo enorme, smisurato, inesplorato” (ibid., p. 43); quindi: “Appresi subito che al giudice istruttore del processo di mafia era richiesto, pena la sconfitta, una dedizione piena verso gli incarichi ricevuti, che si traduce non solo in una grande mole di lavoro, ma anche in uno sforzo continuo di fantasia. Un indizio deve essere esaminato dalle angolazioni più disparate, prima di essere utilizzato o accantonato” (ibid. p. 47); finalmente: “È una partita a scacchi, un confronto fra intelligenze, fra uomini” (ibid. p. 63).
Se Giovanni Falcone parlava in questi termini del fenomeno mafioso e del suo rapporto con esso nell’aprile del 1985, frutto di maggiore esperienza e maturità è quanto raccolto nel volume Cose di Cosa Nostra. Si tratta della raccolta di venti interviste — con un Prologo (pp. 7-19) e un Indice dei nomi (pp. 173-174) —, concesse dal magistrato a Marcelle Padovani, corrispondente da Roma di Le Nouvelle Observateur, fra il marzo e il giugno del 1991: “questo libro — come dichiara l’intervistatrice — non pretende di costituire la sintesi di tutto quanto si sa della mafia, né di tutto quanto Falcone sa della mafia” (p. 19), ma espone — “attraverso […] [un] approccio graduale dal percettibile al nascosto” (ibidem) — “un certo numero di cose” (ibidem) acquisite dal magistrato sul conto di Cosa Nostra siciliana grazie alla sua attività investigativa, anche internazionale, e, soprattutto, alle informazioni fornite dai pentiti, anche dopo il novembre del 1985, quando veniva depositata la sentenza-ordinanza con la quale si concludeva la fase istruttoria del cosiddetto maxiprocesso a Cosa Nostra siciliana. Il rinvio a giudizio di 475 imputati rappresentava l’esito di laboriose e articolate indagini, frutto in gran parte di quello che è stato definito “metodo Falcone”, dallo stesso magistrato riassunto in questi termini: “[…] dobbiamo rassegnarci a indagini molto ampie; a raccogliere il massimo di informazioni utili e meno utili; a impostare le indagini alla grande agli inizi per potere poi, quando si hanno davanti i pezzi del puzzle, costruire una strategia” (p. 42).
Giovanni Falcone nasce a Palermo il 20 maggio 1939 e, dopo una breve esperienza all’Accademia Navale, nel 1961 si laurea in giurisprudenza nell’università del capoluogo siciliano, con una tesi su Istruzione probatoria in diritto amministrativo.
Nel 1964, superato il concorso, assume dapprima le funzioni di pretore a Lentini, in provincia di Siracusa, poi quelle di sostituto procuratore della Repubblica a Trapani, dove rimane fino al luglio del 1978, quando chiede il trasferimento a Palermo. Per tredici mesi è alla sezione fallimentare del Tribunale, poi, su sua richiesta, passa all’Ufficio Istruzione, all’epoca diretto da Rocco Chinnici, che gli affiderà la prima impegnativa indagine sulla criminalità organizzata siciliana, il “processo Spatola”.
Il 13 marzo 1991, dopo un’attività più che decennale da inquirente, culminata nell’assunzione delle funzioni di procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, e dopo essere scampato a un attentato nell’estate del 1989, viene nominato direttore generale degli affari penali del ministero di Grazia e Giustizia. Quattordici mesi più tardi, il 23 maggio 1992, Giovanni Falcone muore assieme alla moglie, Francesca Morvillo, e ai tre agenti della scorta, stroncati da una devastante esplosione mentre percorrono il tratto di autostrada dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo.
Il primo capitolo — Violenze (pp. 21-45) — considera gli strumenti e la tecnica utilizzati da Cosa Nostra per la realizzazione delle azioni criminose e per il raggiungimento dei suoi scopi. In esso vengono illustrati i princìpi guida dell’agire mafioso, ricavati dall’osservazione di significativi fatti delittuosi., sgombrando il campo da numerosi luoghi comuni, di cui si è venuta nutrendo una sorta di mitologia della mafia, alimentata soprattutto dalla fantasia di giornalisti, di romanzieri e di sceneggiatori. “Giornali, libri, film si dilungano sulla crudeltà della mafia. Certamente esiste, ma non è mai fine a se stessa” (p. 31): “[…] nell’organizzazione violenza e crudeltà non sono mai gratuite, rappresentano sempre l’extrema ratio, l’ultima via d’uscita quando tutte le altre forme di intimidazione sono inefficaci o quando la gravità di uno sgarro è tale da meritare soltanto la morte” (p. 28). Non vi è preferenza per una tecnica particolare rispetto ad altre: la situazione concreta suggerisce di volta in volta la via da seguire per raggiungere l’obbiettivo il più rapidamente possibile e con il minor numero di rischi. Tale straordinaria capacità di adattamento al mutare delle contingenze è resa possibile anzitutto dalla regola dell’ubbidienza, indiscusso principio cardine dell’organizzazione, che impone l’osservanza incondizionata degli ordini ricevuti. Infatti, l’assenza di meccanismi coercitivi istituzionali richiede l’indefettibilità dell’intervento sanzionatorio, variamente modulabile in riferimento alla gravità della trasgressione,, ma — di contro — inesorabile nel fulminare affiliati ribelli o estranei poco inclini a sottomettersi.
Il secondo capitolo — Messaggi e messaggeri (pp. 47-72) — è dedicato alla descrizione e all’interpretazione della gestualità e del linguaggio mafiosi, analizzati nella loro coerenza con la mentalità dell’“uomo d’onore”. Segni, gesti, messaggi, silenzi costituiscono canali espressivi non casuali; in ognuno di essi scorre celato un significato ben preciso, la cui individuazione richiede un’opera preventiva di decifrazione, che può essere tentata solo da chi affronti seriamente il problema della comprensione della cultura dei capi e dei gregari di Cosa Nostra siciliana. Per far questo — avverte Giovanni Falcone — nei rapporti con i mafiosi occorre muoversi “[…] con estrema cautela, evitando false complicità e atteggiamenti autoritari o arroganti, esprimendo […] rispetto ed esigendo il loro” (p. 49). Solo con questa premessa metodologica è possibile superare il muro di ostinata diffidenza, con il suo rituale di silenzi e di aneddoti sarcastici, opposto sistematicamente dall’affiliato che si trova a contatto con gli investigatori. La ricerca dei canoni ermeneutici, operata dal magistrato soprattutto grazie al colloquio con i pentiti, conduce alla ricostruzione di un codice nutrito in larga parte di regole che “[…] rappresentano l’esasperazione di valori e di comportamenti tipicamente siciliani” (p. 61): l’“uomo d’onore” ha l’obbligo di dire la verità, ma deve parlare solo di quanto investe direttamente lui stesso e, al più, la sua famiglia, altrimenti deve tacere e improntare il proprio comportamento a rigore di essenzialità. Proprio questo codice d’onore ha reso possibili i colloqui con i pentiti, e stupisce Giovanni Falcone al punto di fargli affermare: “In certi momenti, questi mafiosi mi sembrano gli unici esseri razionali in un mondo popolato da folli” (p. 72).
L’analisi delle regole di comportamento di Cosa Nostra prosegue nel terzo capitolo — Contiguità (pp. 73-94) —, dove tali norme vengono valutate in riferimento alla mentalità siciliana tradizionale e allo sfilacciarsi del tessuto morale e sociale dell’isola. Dallo studio emerge un “uomo d’onore” dai contorni interessanti: pur avendo smarrito i “costumi austeri” (p. 78) consoni a un contesto rurale, e pur avendo “[…] assimilato la cultura del consumismo” (ibidem), adeguandosi “[…] ai canoni del mondo moderno, diventando funzionale ad esso” (ibidem), rimane attaccato ai valori fondamentali — l’indissolubilità del vincolo matrimoniale, il rispetto del legame gerarchico e di sangue, l’inviolabilità della proprietà e delle donne degli altri affiliati —, vissuti come una sorta di doppia morale, dal momento che il rispetto di tali regole è richiesto solo ad intra, e non anche nel rapporto con gli estranei. Benché spesso “esasperati”, si tratta nel complesso di atteggiamenti riferibili alla “sicilianità” in genere, tenuti in ambienti che, lungi dall’essere eterogenei, si rivelano contigui, se non confusi nel tessuto sociale siciliano, dal quale suggono energie per vivere e per proliferare.
“La mafia […] non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione” (p. 93).
Nei capitoli successivi — Cosa Nostra (pp. 95-121) e Profitti e perdite (pp. 123-145) — l’attenzione si sposta sulla struttura dell’Organizzazione e, più diffusamente, sulla storia di Cosa Nostra siciliana.
In primo luogo, l’itinerario storico percorso conferma la straordinaria capacità di adattamento della mafia al mutare della temperie economica, sociale e politica come pure dello spessore della reazione dello Stato, e ne esalta i caratteri peculiari, confrontandola sia con altri sodalizi criminosi del Meridione d’Italia, privi di strutturazione verticistica e gerarchizzata — camorra e ’ndrangheta —, sia con Cosa Nostra americana, “figlia” di quella siciliana, ma dedita — a differenza di quest’ultima — esclusivamente alla gestione dei mercati illegali — bische clandestine, prostituzione e droga — sia, infine, con la mafia sovietica che, pur ponendo “problemi molto seri” (p. 112), rimane “soprattutto un fenomeno di corruzione amministrativa generalizzata” (p. 113; a conferma della definizione, cfr. Arkadij Vaksberg, La mafia sovietica, trad. it., Baldini & Castoldi, Milano 1992).
Impegnata inizialmente nella gestione dei profitti delle tradizionali attività criminose, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta Cosa Nostra estende progressivamente il proprio controllo su ogni settore dell’economia, approfittando ora della “debolezza della repressione” (p. 106), ora del vuoto lasciato dagli organi dello Stato concentrati sul fenomeno terroristico. Il racket delle estorsioni, dapprima fonte principale dei profitti, diviene progressivamente lo strumento con cui si attua il “riconoscimento quasi soltanto formale dell’autorità di una data famiglia su un determinato territorio” (p. 126), non essendo più corrispettivo di una prestazione di protezione; i proventi cospicui ricavati prima dal contrabbando di tabacco e poi dal traffico internazionale di sostanze stupefacenti, e riciclati attraverso sofisticate operazioni bancarie, impongono agli uomini di Cosa Nostra di smetter gli abiti del taglieggiatore e di indossare quelli dell’imprenditore; ma non si tratta di un mascheramento: il mafioso diventa “[…] un vero imprenditore, che sfrutta il vantaggio supplementare rappresentato dalla sua appartenenza a Cosa Nostra” (p. 132).
Così, il mercato legale finisce per registrare una presenza sempre più massiccia dell’intervento mafioso diretto, che, non trascurando il ricorso all’intimidazione, specialmente nell’aggiudicazione degli appalti riguardanti opere della pubblica amministrazione, monopolizza settori cospicui dell’economia.
Se a tutto questo si aggiunge, per il prossimo futuro, la “pericolosissima prospettiva di una omologazione dei modelli di organizzazione criminale” (p. 111-112), tale da realizzare “un modello di mafia universale” (pp. 112), diventa ineludibile la risoluzione radicitus della questione mafiosa.
“Ma con quali strumenti affrontiamo oggi la mafia? In un modo tipicamente italiano, attraverso una proliferazione incontrollata di leggi ispirate alla logica dell’emergenza. Ogni volta che esplode la violenza mafiosa con manifestazioni allarmanti o l’ordine pubblico appare minacciato, con precisione cronometrica viene varato un decreto-legge tampone volto a intensificare la repressione, ma non appena la situazione rientra in una apparente normalità, tutto cade nel dimenticatoio e si torna ad abbassare la guardia” (p. 154).
Le inerzie, le contraddizioni, la sostanziale innocuità della lotta dello Stato per la mafia costituiscono la materia, variamente illustrata, dell’ultimo capitolo, Potere e poteri (pp. 147-171). In esso Giovanni Falcone suggerisce anche le modalità per impostare razionalmente la soluzione della questione. Anzitutto, “[…] occorre sbarazzarsi una volta per tutte delle equivoche teorie della mafia figlia del sottosviluppo, quando in realtà essa rappresenta la sintesi di tutte le forme di illecito sfruttamento delle ricchezze” (p. 154). Il controllo del territorio, il condizionamento del potere politico, l’efficacia degli strumenti repressivi e sanzionatori, il rigore professionale di magistrati e di investigatori sono gli aspetti nevralgici della questione affrontati da Giovanni Falcone.
La lucidità delle argomentazioni, il costante uso di ragione e di buon senso, uniti a un considerevole corredo informativo e a una non comune conoscenza delle pieghe più recondite della “sicilianità”, fanno di queste riflessioni — come dell’intera opera — uno strumento non trascurabile per chi desideri raggiungere una soddisfacente intelligenza del fenomeno mafioso. Sempre nella prospettiva — evocata più volte dal magistrato tragicamente scomparso — che Cosa Nostra può essere sconfitta, “[…] perché la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine” (ibidem), ma il “quando” di questa fine dipende in buona parte dalla serietà globale — tecnica e morale — di chi la combatte.
Domenico Airoma