Marco Tangheroni, Cristianità n. 118 (1985)
Giorgio Fedalto, Perché le crociate. Saggio interpretativo, Pàtron, Quarto Inferiore (BO) 1980, pp. 72, L. 5.000.
Nella Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, diretta da Jean Baptiste Le Rond d’Alembert e da Denis Diderot — potente strumento culturale di diffusione delle idee illuministiche e singolare concentrato di violente critiche alla religione cattolica e alla storia della Chiesa —, alla «voce» Croisades, si possono leggere affermazioni e giudizi veramente degni di nota.
Parlando delle origini del movimento crociato, per esempio, dopo avere fatto riferimento ai racconti dei pellegrini che riportavano dall’Oriente notizie di persecuzioni da parte dei turchi, l’autore della «voce» — tutta basata sulle opere storiche di Francois-Marie Arouet de Voltaire e di Claude Fleury — afferma: «Si trattarono per un bel po’ le declamazioni di questa brava gente con l’indifferenza che meritavano; e si era ben lontani dal credere che sarebbero mai venuti tempi di tenebre abbastanza profonde, e di sventatezza abbastanza grande nei popoli e nei sovrani sui loro veri interessi, da trascinare una parte del mondo in una disgraziata piccola regione, per scannarne gli abitanti, e impadronirsi di un cocuzzolo di roccia che non valeva una goccia di sangue, che essi potevano venerare in ispirito da lontano come da vicino, e il cui possesso era tanto estraneo all’onore della religione.
«Tuttavia questo momento arrivò, e la vertigine passò dalla testa riscaldata di un pellegrino, a quella di un pontefice ambizioso e politico, e da questa a tutte le altre».
Quali le ragioni di questo singolare successo, incomprensibile per il razionalista settecentesco? Tra esse potrebbero annoverarsi «l’interesse dei papi e di parecchi sovrani d’Europa; l’odio dei cristiani per i musulmani; l’ignoranza dei laici, l’autorità degli ecclesiastici, l’avidità dei monaci; una passione smodata per le armi»; e — si aggiunge in un vero crescendo — «la crociata […] serviva di pretesto alla gente oberata di debiti per non pagarli; ai malfattori per evitare la punizione delle loro colpe; agli ecclesiastici indisciplinati per scuotere il giogo del loro stato; ai monaci indocili per lasciare i chiostri; alle donne perdute per continuare più liberamente la loro vita disordinata».
Quanto al bilancio conclusivo, esso appare del tutto negativo: infatti, «verso l’inizio del tredicesimo secolo non restava in Asia traccia di queste orribili guerre, le cui conseguenze per l’Europa furono lo spopolamento delle sue regioni, l’arricchimento dei monasteri, l’impoverimento della nobiltà, la rovina della disciplina ecclesiastica, il disprezzo dell’agricoltura, la penuria di monete, e un’infinità di vessazioni esercitate col pretesto di riparare a queste disgrazie».
Ho voluto riportare questi brani per due motivi: in primo luogo, perché essi costituiscono una buona esemplificazione del tono e degli argomenti della polemica anti-cattolica propria dell’illuminismo e del suo atteggiamento nei confronti del Medioevo, al culmine del processo di formazione della «leggenda nera» su quel periodo storico, già nata in ambiente rinascimentale e poi dilatata e rafforzata per opera degli scrittori protestantici; in secondo luogo, perché sarebbe agevole dimostrare che, talora in forme attenuate, talora anche in forme quasi altrettanto brutali, sono non dissimili le opinioni che, a proposito delle crociate, vengono diffuse ancora oggi dai mezzi di comunicazione, da molti libri di testo, da non pochi studiosi che si muovono, in fondo, nell’àmbito di una cultura neoilluministica.
Il tutto finisce poi per essere, nello stesso tempo, causa ed effetto del significato negativo che la parola «crociata» ha assunto nel linguaggio corrente, non senza conseguenze paralizzanti anche su larga parte del mondo cattolico, sempre pronta a subire il ricatto, insieme concettuale e semantico, del «Non vorrai fare una crociata?». Una falsa storia e una falsa teologia si congiungono così nel dare una immagine distorta del passato e nel minare qualsiasi pure doverosa resistenza, anche a livello di «battaglia delle idee».
La situazione brevemente delineata giustifica ampiamente la segnalazione di un limpido volumetto di don Giorgio Fedalto, dall’accattivante titolo Perché le crociate, che, pure nella sua semplicità e rapidità, si distingue in un panorama storiografico troppo spesso, su questo tema più che su altri, largamente caratterizzato da luoghi comuni e da tabù culturali.
Non si tratta, naturalmente, di una nuova «breve storia della crociate» — essa è data in sostanza per conosciuta, almeno nelle sue linee fondamentali —, ma, come recita il sottotitolo, di un Saggio interpretativo, frutto di impegnate riflessioni e di solide esperienze storiografiche dell’autore, che è professore ordinario di storia del cristianesimo nella facoltà di magistero della università di Padova e che ha a tutt’oggi pubblicato — tra l’altro — tre volumi su La Chiesa latina in Oriente (Mazziana, Verona 1973) e un’opera su Le Chiese d’Oriente da Giustiniano a Maometto (Jaca Book, Milano 1984). Il testo che esamino — senza note, ma con indicazioni bibliografiche sufficienti per un primo approfondimento — è, inoltre, scritto con una chiarezza, che non scade in sciatteria o in superficialità: si tratta dell’opera di uno specialista, che ha ben presenti le discussioni degli specialisti, ma non è redatta, felicemente, per gli specialisti.
Un principio metodologico è alla base del libro: la insufficienza di una «prospettiva politica od economicistica» che può, certamente, trovare qualche parziale — e anche vera — spiegazione per ogni aspetto della vita umana, ma che risulta arbitrariamente riduttiva ove neghi «la possibilità di ideali religiosi in azione». Proprio l’analisi dei vari interessi materiali — per esempio di quelli commerciali delle città marinare italiane — dimostra che essi non solo appaiono inadeguati a dare conto di un fenomeno così vasto, duraturo e profondo, ma che avrebbero potuto essere tutelati e promossi anche in altri modi, sì che la spinta religiosa andrebbe presa in considerazione come spiegazione fondamentale anche da chi la volesse considerare «mitica», dal momento che non si può onestamente negare essere stata «tale da coinvolgere tutto un orientamento ed una animazione di carattere europeo» (pp. 41-42).
Certo, le crociate furono anche, e in misura diversa secondo i periodi, un fenomeno di espansione commerciale, sociale e politica della Cristianità, ma non furono solamente questo. «Ci furono all’inizio delle decisioni e delle motivazioni di carattere squisitamente religioso: uomini che predicarono la crociata per finalità puramente spirituali; altri che presero la croce e la spada, compiendo il grande passo del voto corrispondente, e lasciarono le loro sicure case nell’Occidente per inseguire un sogno religioso ed una idealità ascetica; uomini di penitenza che nel pellegrinaggio al Sepolcro di Cristo pensavano di rinnovargli la loro fede». Ed è nella luce di questa prospettiva ascetico-penitenziale che lo storico può comprendere la crociata anche come attualizzazione della plurisecolare pratica del pellegrinaggio (pp. 53-54).
L’opera è divisa in tre capitoli, che trattano rispettivamente della origine delle crociate, della loro conclusione e del loro «perché».
Molto opportunamente il primo di questi tre capitoli parte dal ricordo della «unità profonda e multiforme, che caratterizzava tutto il Medio Evo occidentale, costruendo una solidarietà, chiamata con più nomi, come Europa, Occidente, chiesa universale e, soprattutto, con “christianitas”». Il movimento crociato non potrebbe, altrimenti, intendersi: senza, cioè, tenere presenti il ruolo eminente riconosciuto alla Chiesa e al Papato, la solidarietà cattolica di popoli e di regni, il riconoscimento della religione cristiana «come matrice e fondamento di un’unità, non più puramente spirituale, ma con un carattere sociale e temporale inserito nel mondo» (pp. 7-8).
Ora, la Cristianità della fine del secolo XI era insieme una cristianità rinnovata dalla riforma gregoriana ed erede di ormai secolari guerre condotte con marcato spirito religioso contro le minacce musulmane. Le guerre di Carlo Magno accompagnate da un ampio apparato religioso, la minaccia direttamente portata a Roma nel secolo IX — nell’846 i musulmani erano giunti sotto le mura di Roma, pronti a saccheggiare San Pietro —, lo sviluppo e la cristianizzazione della cavalleria, le guerre di reconquista nella penisola iberica e — aggiungerei — le guerre condotte da Pisa e da Genova per la liberazione del Mediterraneo occidentale, sono alcune delle tappe che vanno a formare una eredità storica e una mentalità, che a loro volta contribuiscono a creare — unitamente ad antichissime pratiche tradizionali cristiane, come il pellegrinaggio e la missione — l’idea di crociata.
Intanto, nella seconda metà del secolo XI, la situazione orientale peggiorava sia perché il pellegrinaggio in Terrasanta conosceva sempre maggiori ostacoli — e non erano rari pellegrinaggi di gruppi armati —, sia per i rinnovati attacchi musulmani subiti dall’impero bizantino. Così già san Gregorio VII, all’inizio del suo pontificato, nel 1074, concepiva un grande pellegrinaggio che salvasse Bisanzio e ottenesse la riunificazione delle Chiese orientali, che avevano da poco consumato, nel 1054, l’ultima rottura di una lunga serie, che doveva poi rivelarsi come l’inizio di uno scisma a tutt’oggi non rientrato. Così il beato Urbano II viene definendo più chiaramente quello che sarà il suo disegno di fronte alle richieste di aiuto che provenivano sempre più insistentemente dall’oriente cristiano e alle notizie circa l’avanzata dei turchi in direzione del Mediterraneo e del Bosforo.
Durante il concilio di Piacenza si presentano gli inviati del basileus Alessio Comneno a supplicare qualche aiuto contro i pagani che minacciavano ormai le mura stesse di Costantinopoli e l’invito viene allora sostanzialmente accolto. Nel novembre del 1095, a Clermont, in un discorso diversamente riportato dalle fonti, ma dalla sostanza identificabile, Urbano II rivolge un famoso appello alla Cristianità per «portare aiuto ai fratelli che abitano nei paesi d’Oriente», promettendo ai partenti la remissione dei peccati in caso di morte lungo la via o in combattimento, dando loro, come simbolo e insegna, una croce di stoffa, e indicando come meta precisa Gerusalemme (pp. 18-24). Sono i temi — difesa della Cristianità, libertà e liberazione del Sepolcro di Cristo, pericolo dei forti nemici, soccorso alla Chiesa d’Oriente — che ritorneranno in tutti i successivi appelli alla crociata (pp. 25-26).
La parte finale del capitolo è dedicata all’approfondimento dei rapporti nuovi che in conseguenza delle crociate vengono stabilendosi con le Chiese orientali, di cui con maggiore chiarezza si comincia a percepire, in Occidente, i tratti distintivi. Come osserva più volte l’autore, la nozione di scisma era strettamente connessa a quella di Cristianità e questa al riconoscimento del Papato romano come unico centro possibile. In tale quadro va compresa anche, nelle terre riconquistate, la costituzione di una nuova gerarchia latina, nelle persone e nella obbedienza.
Nelle pagine relative alla conclusione delle crociate (pp. 41-51), la causa fondamentale dei ripetuti insuccessi cristiani e delle successive perdite di Gerusalemme, di Antiochia, di S. Giovanni d’Acri e di Costantinopoli è — secondo i principi metodologici ricordati sopra — individuata in una caduta della forza della motivazione religiosa e nell’aumento degli interessi materiali e dei giochi politici. Così le difficoltà gravi della situazione reale si fanno sempre più sentire e prevale alla fine la «guerra santa» dei musulmani.
Fallite, allora, le crociate? In un certo senso e alla lunga, certamente sì. La Terrasanta rimane, alla fine, tutta in mani musulmane e «Gerusalemme, che doveva diventare il punto d’incontro delle chiese cristiane, […] consacrò invece la svolta e la divisione tra le chiese latine e quelle orientali».
Ma, sotto il profilo religioso, non si può dimenticare che «le crociate alimentarono la pietà popolare, l’ascesi gerosolimitana, con l’amore per la Via Crucis, il pellegrinaggio, il senso cavalleresco di difesa del pellegrinaggio e del povero». E bisogna anche ricordare gli ordini monastico-cavallereschi e le prospettive missionarie aperte ai nuovi ordini mendicanti. Sul piano politico, poi, occorre onestamente convenire che «almeno per i due secoli nei quali i crociati restarono oltremare, gli Arabi non sbarcarono sulle coste dell’occidente a saccheggiare, a far bottino o altro. Anche questa è storia e l’arresto dell’Islam alle soglie dell’Europa fu importante per la sopravvivenza di questo continente».
Nel capitolo conclusivo don Giorgio Fedalto si pone l’interrogativo proprio della storiografia illuministica: «si trattò […] di una grande pazzia collettiva?»; e risponde che si trattò, invece, di «una impresa che va collocata tra le massime espressioni con motivazioni religiose che l’intera storia umana ricordi» (p. 54).
Qui entrano in gioco le tensioni propriamente religiose ispirate da precise promesse divine: le promesse fatte ad Abramo, rinnovate a Mosé, riproposte dai profeti, presenti nei Salmi, ricorrenti nell’Apocalisse: Gerusalemme è il centro del mondo e la città di Dio; promesse sempre attuali per il nuovo Israele. Scrive don Fedalto: «Le crociate furono […] anche questo: il ritorno a Gerusalemme, una struggente speranza comune alle religioni monoteistiche per la montagna di Sion e, più propriamente ai cristiani, per il S. Sepolcro: speranza più forte delle guerre, delle violenze, della stessa morte. Una speranza ed un voto, ché la catarsi religiosa nell’ambito psicologico del credente era già completa. Anche questa è storia o, se si vuole, può creare storia» (p. 64).
Pertinente, in questa prospettiva, sembra la conclusione dell’opera nella quale è giustamente sottolineata la importanza, non puramente limitata al tema in sé stesso ma esemplare nel vero senso della parola, che lo studio delle crociate può e deve assumere per i cattolici: «Nella storia delle crociate si vede chiaramente come la storia si intrecci con la metastoria. È una vicenda illuminante e la sua analisi serve a rischiarare il cammino a chi, non scoprendolo, fosse colto da sgomento» (p. 70).
Marco Tangheroni