Ignazio Cantoni, Cristianità 347-348 (2008)
Étienne Gilson è ritenuto il più grande studioso di filosofia medievale del secolo XX. Nato a Parigi nel 1884 e morto a Cravant nel 1978, compie gli studi universitari alla Sorbona, avendo come insegnante, fra gli altri, il filosofo e sociologo francese Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939).
La lettura delle opere dei filosofi del Medioevo, compiuta durante lo studio delle fonti medievali del pensiero del filosofo e matematico francese René Descartes (1596-1650), lo porta ad approfondire i propri studi su tale periodo.
Dopo aver servito sotto le armi durante la Prima Guerra Mondiale (1914-1918), ed essersi guadagnato la Croix de Guerre, riprende la carriera universitaria presso l’università di Strasburgo e successivamente all’università di Parigi, svolgendo corsi anche ad Harvard e all’università dell’Indiana, negli Stati Uniti d’America. Partecipa nel 1929 alla fondazione dell’Institute of Mediaeval Studies — poi Pontifical Institute of Mediaeval Studies —, presso l’università di Toronto, in Canada, istituzione alla quale dedicherà molte energie. Nel 1946 diviene Accademico di Francia.
È autore di oltre seicento pubblicazioni: fra esse, per la storia della filosofia medievale ha una straordinaria rilevanza la sintesi La philosophie au Moyen Âge, in due volumi, pubblicata per la prima volta nel 1922 (cfr. La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, trad. it., presentazione di Mario Dal Pra [1914-1992], II ed., Sansoni, Milano 2005). In qualità di teoreta, Gilson è citato da Papa Giovanni Paolo II (1978-2005) insieme a pensatori fra cui spiccano il cardinale oratoriano inglese venerabile John Henry Newman (1801-1890), il sacerdote roveretano beato Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855), il filosofo francese Jacques Maritain (1882-1973) e la filosofa tedesca carmelitana santa Teresa Benedetta della Croce (1891-1942), al secolo Edith Stein. Il Pontefice, con tali richiami, non ha inteso “[…] avallare ogni aspetto del loro pensiero, ma solo proporre esempi significativi di un cammino di ricerca filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della fede” (Giovanni Paolo II, Enciclica “Fides et Ratio” circa i rapporti tra fede e ragione, del 14-9-1998, n. 74).
La fecondità del pensiero di Gilson è stata colta, fra altri, da monsignor Antonio Livi, della Prelatura della Santa Croce e Opus Dei, cappellano di Sua Santità, ordinario di Logica e di Filosofia della Conoscenza nella Pontificia Università Lateranense, che in oltre quarant’anni di ricerca ha tracciato percorsi storiografici e teoretici relativi alla nozione di “senso comune” e agli aspetti gnoseologici, metafisici e morali a esso correlati. Una delle sue ultime fatiche, compiuta insieme alla professoressa Maria Antonietta Mendosa, dello stesso ateneo pontificio, è la traduzione italiana della raccolta di saggi di Gilson Le Réalisme méthodique, uscita nel 1935, con il titolo Il realismo, metodo della filosofia.
A una Nota editoriale (pp. 7-8) segue un’Introduzione storica della professoressa Mendosa dal titolo Étienne Gilson: tra idealismo e realismo critico (pp. 9-39). L’autrice contestualizza le pagine di Gilson all’interno del dibattito, svoltosi negli anni 1920 e 1930, che ha coinvolto vari esponenti della rinascita tomista del XX secolo, gravitanti per la gran parte attorno all’università di Lovanio, “sul “cominciamento” della filosofia e sul realismo inteso come metodo della filosofia in opposizione all’idealismo” (p. 9). La scuola di Lovanio è strettamente legata al cardinale brabantino Désiré Mercier (1851-1926), propugnatore di un realismo critico che tenta di superare le aporie del cogito cartesiano dall’interno, ovvero cercando di trovare nel pensiero stesso prove dell’esistenza della realtà e della sua conoscibilità. Ciò comporta che “[…] nel suo pensiero non si trovano tracce di un’intuizione diretta e immediata delle cose esterne al pensiero” (p. 15) essendo necessaria “una mediazione criticistica della ragione” (ibidem). La Mendosa sottolinea come vari filosofi, fra cui il belga Léon Noël (1878-1955) e il padre gesuita, anch’egli belga, Joseph Maréchal (1878-1944), i quali, come il card. Mercier, tentano un superamento del pensiero moderno muovendosi all’interno delle sue premesse, si trovino in una contraddizione insanabile: “Dunque, il percorso del realismo è il seguente: dall’essere alla coscienza dell’essere, dall’evidenza alla certezza. Nel realismo chi conosce sa di conoscere essendo consapevole che una certa realtà gli è manifesta. Invece, il percorso dell’idealismo vede una certezza che si dà senza un’evidenza. Esso tende a una riduzione dell’essere al pensiero in modo arbitrario poiché postulato dalla volontà. Il realismo metafisico poggia sull’esperienza sensibile, sulle certezze di senso comune che comprendono i principi primi della logica e dell’etica. Infatti, essi concorrono a dare certezza in virtù dell’evidenza. Dunque, è inutile che la volontà forzi l’intelletto o postuli qualcosa per esso dal momento che il soggetto conoscente, già naturalmente, possiede un’attitudine all’apertura alla realtà grazie alla sua partecipazione all’essere. A partire dal suo essere, l’uomo tende ad aprirsi a tutto l’essere” (p. 33). Il percorso offerto dalla Mendosa apre interessanti prospettive su un’anima della terza scolastica, per nulla secondaria, che ha tentato un salvataggio delle premesse razionalistiche della filosofia moderna, rimanendovi ultimamente irretita. “È evidente che il realismo autentico esiste solo quando il metodo filosofico è realistico. Altrimenti, si incorrerebbe nel rischio di cadere nella possibilità di un realismo infrafilosofico” (p. 39), che trova sempre nel pensiero la ragione stessa dell’esistenza delle cose.
Nel primo capitolo, Il realismo come metodo (pp. 45-60), Gilson esamina l’approccio di alcuni neoscolastici al problema dell’idealismo. “Che cosa c’è di comune nelle dottrine che i filosofi neoscolastici rifiutano sistematicamente? L’idea che la riflessione filosofica debba andare necessariamente dal pensiero alle cose. L’idealismo critico è nato il giorno in cui Descartes decise che il metodo matematico sarebbe stato da allora in poi il metodo proprio della metafisica. Ma un matematico procede sempre dal pensiero all’essere; capovolgendo il metodo di Aristotele [384/383-322/321 a.C.] e della tradizione medioevale, Descartes stabilì che di lì in avanti “a nosse ad esse valet consequentia“. Inoltre, per Descartes questo tipo di inferenza è il solo che abbia assoluta validità, di modo che, in filosofia, tutto ciò che può essere chiaramente e distintamente attribuito all’idea della cosa si può ritenere vero della cosa stessa” (pp. 45-46).
Nel momento in cui si pone tale principio come premessa di tutto il ragionamento filosofico, si pone “il problema del ponte” (p. 47), cioè: come faccio a dimostrare l’esistenza di un mondo altro da me e la sua conoscibilità? Ma, come affermava lo stesso Noël, “[…] a un gancio dipinto sul muro non si può appendere altro che una catena anch’essa dipinta sul muro” (p. 48): “In altre parole, chi inizia come idealista finirà necessariamente come idealista, perché l’idealismo non si fa smentire da di dentro” (ibidem), e “[…] la storia sta a mostrarci che il suo tentativo è destinato a risolversi in uno scacco. Si può cominciare a ragionare come Descartes, ma poi inevitabilmente si finisce per ragionare come Berkeley [George (1685-1753)] o come Kant [Immanuel (1724-1804)]. […] L’esperienza cartesiana fu un’impresa metafisica ammirabile […] ma è il colmo dell’ingenuità ripercorrerla nella speranza di ottenerne dei risultati contrari a quelli che essa ha sempre dato” (pp. 49-50). Come invece certi autori neoscolastici tentano di fare: “L’illusione di cui soffrono i tentativi di questo genere […] è di credere che si possa trarre una ontologia da una teoria della conoscenza e che si possa trovare nel pensiero, con un metodo qualsiasi, qualcosa che non sia il pensiero stesso. Un “al di là” del pensiero non è pensabile; questa non è solamente la formula perfetta dell’idealismo, è anche la sua condanna” (pp. 54-55). “La Scolastica è un realismo cosciente, riflesso e voluto, ma non si fonda sulla soluzione del problema posto dall’idealismo, perché i dati di questo problema implicano già l’idealismo stesso come unica soluzione possibile. In altri termini […], bisogna rendersi conto che il realismo scolastico non dipende dal problema della conoscenza: al contrario, la realtà è concepita fin dall’inizio come non identificabile con il pensiero e l’esse è concepito come distinto dal percipi in virtù di una determinata idea di ciò che la filosofia è, come condizione della sua stessa possibilità. È un realismo praticato come il metodo necessario della filosofia” (p. 55). E ancora: “Non si può superare l’idealismo opponendovisi dal di dentro, perché facendo così ci si sottomette, ma dispensandolo di esistere” (p. 60).
Nel secondo capitolo, Realismo e metodo (pp. 61-92), Gilson esamina le dottrine del realismo nel pensiero del card. Mercier e di Noël: “[…] esiste un mezzo qualunque per stabilire con certezza che esiste una realtà extramentale?” (p. 63). Ad avviso del primo, la passività delle sensazioni, della quale facciamo esperienza dentro di noi, e la loro contingenza, manifestano tale realtà. Ma, commenta Gilson, ci si trova di fronte a un realismo mediato, che come tale cade nella contraddizione manifestata nel precedente studio: “Cominciare da un senso di esperienza interna, poi dedurre la realtà esterna dal suo oggetto con l’aiuto del principio di causalità, è introdurre palesemente tra l’esperienza psicologica e il suo oggetto un intermediario che è la dimostrazione stessa” (p. 64). Noël tenta vanamente di negare la mediatezza del realismo del card. Mercier, ma è facile per Gilson confutare tale interpretazione, che confligge direttamente con passi inequivocabili del cardinale brabantino.
Noël si dichiara realista immediato, ma pecca di equivocità. “A partire dal momento in cui si ammette un realismo immediato, per definizione il problema non può più essere quello di dimostrare l’esistenza del mondo esteriore, o di provarla; si può trattare solo di trovarla o, come dice Noël, di mostrarla“ (p. 83). Ma quest’ultimo ritiene di dover mostrare un dato immediato in modo mediato, sviluppando una variante del cogito cartesiano il quale, grazie a un salto mortale argomentativo, abbia già, dentro di sé, l’esistenza delle cose altre dal cogito stesso. “Il filosofo realista si illude di facilitare il dialogo fingendo all’inizio di adottare il punto di vista proprio dell’idealismo, mentre fa esattamente il contrario” (p. 86).
“Se si vuole conservare fedelmente lo spirito del tomismo così com’è, occorre evitare di farlo passare per ciò che non è” (ibidem); “Per Tommaso d’Aquino [santo (1225 ca.-1274)], ed è questa l’essenza del realismo, “ab esse ad nosse valet consequentia” […]. Mentre Descartes trova l’essere nel pensiero, san Tommaso trova il pensiero nell’essere” (p. 87).
Il capitolo terzo, Specificità dell’ordine filosofico (pp. 93-113), analizza la questione di quale metodo la filosofia debba adottare per potersi dire scientifica.
“[…] tutto il pensiero moderno risale a quella notte dell’inverno 1619 in Germania, quando Descartes accanto al caminetto concepì l’idea di una matematica universale. […] un giovane matematico, nell’ardore dei suoi primi successi scientifici, concepisce la possibilità, anzi la necessità di applicare a tutti i problemi, di qualsiasi ambito, il metodo che egli ha utilizzato con tanto successo” (p. 95). Ma, “per il matematico, il problema dell’essenza precede sempre quello dell’esistenza” (p. 96), e così si finisce per “[…] sostituire la complessità concreta delle cose con un certo numero di idee chiare e distinte” (ibidem), ultimamente due: pensiero ed estensione. Come poi fra le due possa esserci un contatto, un ponte, dal momento che, come si è visto, da una non si può dimostrare l’altra, è la storia dei vari tentativi di stabilire tale ponte, tutti naufragati sotto gli attacchi del filosofo scozzese David Hume (1711-1776): Kant ha segnato, con il suo soggettivismo, la conferma che dall’idealismo stesso non si può uscire. Quanto è successo in metafisica è accaduto anche nella morale e nella politica: il filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679) ha trattato gli uomini singoli come Descartes ha trattato le idee, come entità isolate e isolabili dalla realtà storico-sociale originaria: “Con questo cartesianesimo politico, l’individuo si trovava eretto a un essere per sé, […] di cui la subordinazione allo Stato come fine più alto diventava difficile, se non impossibile.
“Da questo momento il problema politico diventa quello che sarà il problema di Rousseau [Jean-Jacques, 1712-1778]: trovare nell’individuo, in quanto tale, una ragione per subordinarlo ad altro da sé stesso” (p. 101). “Da questo problema derivano tutte le teorie del “contratto sociale”, teorie che si sforzano con differenti artifici di teorizzare dei diritti civili che prima vengono proclamati come assoluti e poi vengono alienati” (p. 102) per permettere la convivenza stessa.
Tali antinomie — pensiero ed estensione, libertà e autorità — sono tali solo nella prospettiva cartesiana, “[…] perché […] le abbiamo proiettate noi nella realtà con i nostri schemi di tipo matematico” (p. 103). All’origine di tali deviazioni vi sta l’errore di decretare, “[…] a priori, che un metodo valevole per una delle scienze del reale deve essere applicato alla totalità del reale” (ibidem). Il fallimento che ciò comporta per la filosofia è la premessa logica del fatto che essa sia oggi “rassegnata al suicidio” (p. 105). Come ricuperare una filosofia indipendente da questo o quel metodo scientifico? La filosofia “[…] include in sé l’insieme delle scienze, ciascuna delle quali si sforza di costruire uno strumento adeguato all’ambito del reale che tenta di spiegare; ma, al di là dei problemi posti dai differenti modi di essere, c’è il problema posto dall’essere stesso […]. Tale è, dunque, l’oggetto della scienza ultima” (p. 112), che “[…] si chiama “metafisica”” (ibidem).
Il capitolo quarto, Il metodo del realismo (pp. 115-129), mira a identificare quale debba essere la corretta “impostazione filosofica iniziale” (p. 115), così completando quanto detto precedentemente.
Gilson mostra come le varie prospettive idealistiche siano incoerenti, perché sono costrette a presupporre a ogni piè sospinto una realtà esterna che “[…] provoca un contraccolpo” (p. 117) al pensiero — si pensi per esempio alle teorie scientifiche e alla loro falsificabilità, in tesi e in ipotesi —, anche se a parole se ne dichiara o con Berkeley l’inesistenza o con Kant l’inconoscibilità. I realisti, al contrario degl’idealisti, “[…] seguono un metodo, ma non lo scelgono prima di iniziare a fare filosofia, come se esso dovesse esserne la condizione: è piuttosto nella loro filosofia che essi trovano il loro metodo. I realisti non dovrebbero dunque chiedersi mai se sia legittimo trasformare il loro metodo in metafisica, perché il loro metodo non è che questa stessa metafisica, pienamente cosciente dei suoi procedimenti, delle sue posizioni iniziali e delle loro implicazioni” (p. 121).
E sintetizza in modo magistrale: “Il principio fondamentale del realismo […] è questo: che il fatto che ogni esistenza mi sia data in una conoscenza non implica assolutamente che la mia conoscenza sia la causa di questa esistenza. […] Che tutto mi sia dato nel pensiero non permette minimamente di affermare che tutto si riduce al pensiero” (ibidem). “Nel realismo è la realtà ciò che detta il metodo, non il metodo che definisce la realtà. La prima cosa conosciuta ci svela la natura di cui è fatta, e allo stesso tempo ci fa sapere che cos’è la conoscenza. Certamente, nulla ci vieta di immaginare un universo in cui le cose accadano diversamente, il fatto però è che nell’universo in cui viviamo esse accadono così. In un universo cartesiano i pensieri devono prima di tutto pensare se stessi, poi — ridiscendendo dalle loro essenze ai loro concetti, dai loro concetti alle loro sensazioni e dalle loro sensazioni ai loro oggetti — raggiungere il mondo esterno attraverso questa strada centrifuga. Se fosse vero, l’idealismo sarebbe la filosofia naturale dello spirito umano. Si sa abbastanza che non è nulla di tutto questo” (p. 123), perché “quello che ci è offerto in primo luogo è il concetto di un ente pensato con l’intelletto attraverso i dati della percezione sensoriale. Se l’ente, in quanto concepito, è il primo oggetto dell’intelletto, lo è perché è percepito immediatamente: “res sunt, ergo cogito“” (p. 124). Grazie alla sensazione, “evidenza sensibile iniziale” (ibidem), vi è anzitutto “[…] l’esperienza immediata di un in-sé, nella quale poi, attraverso uno sforzo di riflessione, l’io prende coscienza di sé” (ibidem).
Il capitolo quinto, Qualche consiglio per chi vuole essere realista (pp. 131-146), è un’implicita sintesi, per punti, di quanto contenuto nell’opera.
“Il primo passo sulla via del realismo è rendersi conto che si è sempre stati realisti. Il secondo passo è rendersi conto che, qualunque sforzo si faccia, non si riuscirà mai a pensare in modo diverso. Il terzo passo è prendere atto che tutti quelli che pretendono di pensare in modo diverso si rimettono a pensare da realisti non appena si dimenticano di star recitando una parte. A questo punto, se uno di questi si domanda il perché, la sua conversione è cosa fatta” (p. 131).
“Il primo atto dell’intelligenza coincide con la percezione di determinate cose, dopo di che, queste cose percepite vengono subito classificate secondo le più evidenti analogie. Di questo fatto, che non ha nulla a che vedere con una qualsiasi teoria, la teoria deve prendere atto. È quello che fa il realismo, che in questo segue il senso comune; ecco perché ogni realismo è una filosofia del senso comune.
“Da questo non segue che il senso comune sia una filosofia, ma ogni sana filosofia presuppone il senso comune e gli accorda fiducia, pur essendo sempre disposta a discostarsi da un senso comune mal informato per accostarsi al senso comune ben informato. Così procede la scienza, che non è una critica del senso comune ma una critica delle sue successive approssimazioni alla realtà” (pp. 135-136).
Nella Postfazione, dal titolo Gilson, il senso comune e il metodo della filosofia (pp. 147-180), monsignor Livi, dopo aver richiamato molto opportunamente come “Gilson […] restò […] del tutto estraneo alle vicende istituzionali della Neoscolastica, alla pari di altri filosofi cristiani laici del suo tempo, come Jacques Maritain e Josef Pieper [1904-1997], anch’essi docenti in istituzioni accademiche statali” (p. 150), riallaccia il pensiero di Gilson alla filosofia del senso comune da lui stesso propugnata, offrendo importanti contestualizzazioni storiche e teoretiche.
Molto opportuno è l’approfondimento sull’”opzione intellettuale”, come premessa della lotta fra realismo e idealismo: “Nel percepire questa radicale opposizione, poteva essere colta anche la sostanza di “scelta” fondamentale che caratterizza l’adozione dell’uno o dell’altro metodo nell’età moderna e contemporanea: e infatti molti studiosi hanno analizzato la componente volontaristica […] della svolta cartesiana […]. Queste analisi hanno contribuito a far comprendere che l’immanentismo non rappresenta la filosofia moderna tout court ma è soltanto una “opzione intellettuale” che di fatto si è verificata agli inizi dell’età moderna, con Descartes, ma che per tutto il tempo del suo sviluppo storico ha dovuto fare i conti con una critica serrata da parte di altre opzioni, filosoficamente altrettanto o più valide (Pascal [Blaise (1623-1662)], Vico [Giambattista (1668-1744)], Reid [Thomas (1710-1796)], Kierkegaard [Søren (1813-1855)], Rosmini, Bergson [Henri (1859-1941)]“ (pp. 152-153).
Pertanto, “[…] si capisce anche che non è il “mondo moderno” come tale ad opporsi frontalmente al cristianesimo: si oppongono al cristianesimo gli ambienti culturali che per motivi ideologici hanno adottato l’immanentismo, il quale, peraltro, deve il suo prestigio e la sua influenza, non tanto alla incontrovertibilità delle sue tesi […], quanto alla possibilità di servire da copertura ideologica per operazioni politiche finalizzate alla demolizione della “cristianità” e alla edificazione di una civiltà neopagana” (p. 153). In questo, aggiunge Livi, “Il pensiero di Gilson […] ha fatto comprendere a molti che occorre sempre distinguere […] tra la vera filosofia e le ideologie, tra le ragioni autenticamente filosofiche e gli interessi di ordine pragmatico. Quanti hanno fatto tesoro di questo insegnamento hanno potuto liberarsi, appunto, da quella sudditanza psicologica nei confronti delle pretese auctoritates della modernità — da Descartes a Kant, da Hegel [Georg Wilhelm Friedrich (1770-1831)] a Nietzsche [Friedrich (1844-1900)], per poi arrivare a Heidegger [Martin (1889-1976)] — che per troppo tempo hanno impedito di affrontare di nuovo, senza pregiudizi, i problemi di fondo della filosofia” (p. 158). Una “sudditanza psicologica” di cui, mi permetto di chiosare, il mondo cattolico ha patito nell’ultimo secolo non solo in filosofia, con il realismo critico, ma più latamente in ambito culturale e sociale con il catto-comunismo, e in politica con l’approccio democristiano.
È necessario, pertanto, “[…] optare per una giustificazione epistemica del punto di partenza della filosofia — e in questo caso non vi è altro punto di partenza giustificabile che non sia il mondo in quanto insieme di cose esistenti — oppure per un’assunzione arbitraria, meramente volontaristica, di un punto di partenza diverso” (pp. 169-170), che sia il cogito cartesiano, l’io penso kantiano, lo Spirito di Hegel o altro. “La radicalità di questo modo di pensare non può essere compresa se non prestando la dovuta attenzione alla tesi di Gilson sul realismo come l’unico metodo valido per la filosofia: una filosofia che voglia essere sempre e soltanto “ricerca della verità” mediante la dialettica, a partire da quella verità prima e indubitabile che costituisce il “senso comune”” (p. 180).
Chiude il volume un’utile Nota bibliografica relativa a Le opere di Gilson tradotte in italiano (pp. 181-185), a cura dello stesso Livi, che purtroppo rivela in vari punti di essere una bozza e non la versione licenziabile per la stampa.
Ignazio Cantoni