PierLuigi Zoccatelli, Cristianità n. 319 (2003)
Rodney Stark è ordinario di Sociologia delle Religioni e di Religioni Comparate presso la University of Washington. Fra i maggiori sociologi delle religioni viventi, è il padre della teoria sociologica dell’economia religiosa. Dalle religioni e dai movimenti religiosi contemporanei, i suoi interessi si sono estesi all’interpretazione sociologica della storia delle religioni: l’opera del 1996 The Rise of Christianity. A Sociologist Reconsiders History, consacrato alla nascita del cristianesimo, è stato tradotto in dodici lingue (cfr. la recensione di Massimo Introvigne, Il cristianesimo delle origini: un nuovo movimento religioso?, in Cristianità, anno XXIV, n. 259, novembre 1996, pp. 9-11). Già presidente dell’ASR, l’Associazione di Sociologia della Religione, nel 2002 è stato eletto presidente della SSSR, la Società per lo Studio Scientifico della Religione.
Massimo Introvigne è direttore del CESNUR, il Centro Studi sulle Nuove Religioni, e membro del gruppo “Religioni” dell’Associazione Italiana di Sociologia. È autore di trenta volumi e di oltre cento articoli in materia di religioni contemporanee, molti dei quali dedicati ai nuovi movimenti religiosi. Nel 2001 ha diretto la monumentale Enciclopedia delle religioni in Italia (cfr. la recensione redazionale, in Cristianità, anno XXIX, n. 307, settembre-ottobre 2001, pp. 25-26), e ha applicato la teoria dell’economia religiosa di Stark alla situazione delle minoranze religiose in Italia nel bestseller I Testimoni di Geova: già e non ancora (Elledici, Leumann [Torino] 2002).
I due studiosi sono coautori dell’opera Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente, una ricerca che si pone dal punto di vista della sociologia delle religioni, è conclusa da un corposo apparato di riferimenti bibliografici (pp. 133-149), da un indice dei nomi (pp. 151-154) e da un indice dei luoghi (pp. 155-156), ma il cui stile è così scorrevole e discorsivo da renderla di agevole lettura anche per chi non coltiva interessi specialistici, e non è piccolo merito.
Nella densa Introduzione (pp. 5-13) gli autori mettono a fuoco una serie di coordinate metodologiche e concettuali, atte a “[…] impostare il quesito sul futuro della religione in Europa e in Italia” (p. 12), avviando così il lettore al primo capitolo, Genesi: il ritorno della religione (pp. 15-57), nel quale è affrontata una grande controversia che ha diviso il campo delle scienze umane durante il secolo XX, e in una certa misura lo divide ancora oggi. “Generazioni di accademici hanno abbracciato una strana e contraddittoria dottrina. Da una parte, danno alla religione la colpa di un gran numero di mali sociali. Dall’altra, […] negano che la religione possa avere reali conseguenze sociali” (p. 15). La posta in gioco di questa controversia è se la religione possa essere interpretata e spiegata secondo criteri religiosi, ovvero sia semplicemente la facciata di “qualcosa d’altro” di volta in volta economico, politico o comunque “materiale”: sia cioè, secondo la nota formula marxista, una semplice sovrastruttura rispetto all’unica vera struttura, quella economico-materiale.
Senza timore di affermare quanto molti considerano non “politicamente corretto”, Stark e Introvigne insistono anzitutto sul fatto che, per capire la religione, occorre invece considerarla come oggetto di scelte razionali e consapevoli, cioè che — ultimamente — i fenomeni religiosi si spiegano in quanto religiosi. Per argomentare correttamente questo assunto, i due autori si dedicano in primo luogo a rintracciare alcune linee storiografiche di una “[…] lunga tradizione culturale di liquidazione degli effetti religiosi in quanto religiosi” (p. 18). Invece, la tesi da loro sostenuta si regge su una lettura sociologica di testi prodotti da storici. Così, nel primo capitolo sono analizzate e criticate interpretazioni distorte fondate su pregiudizi materialistici riguardanti le Crociate, le eresie cristiane, forme del messianismo, i “Grandi Risvegli” nell’America del Nord, il movimento per l’abolizione della schiavitù, i “mistici anni 1960”, l’esplosione delle nuove religioni giapponesi e il rapporto fra epidemie e dottrine religiose.
A idee come quella secondo cui “[…] ben lungi dall’essere motivate dalla pietà religiosa o da preocupazioni per la sicurezza dei pellegrini cristiani e dei luoghi sacri di Gerusalemme, le Crociate sono solo il primo sanguinoso episodio nella lunga storia del brutale colonialismo europeo” (p. 19), si oppone, per converso, che, in realtà, “[…] le Crociate sono causate da provocazioni musulmane, e sostenute dalla pietà religiosa occidentale” (p. 20); a spiegazioni che postulano un improvviso bisogno generalizzato, imputato a cause soggiacenti, di una religione più intensa per giustificare l’ondata “[…] di entusiasmo religioso pubblico [che] contagia varie città americane tra il 1739 e il 1741 […] [e] in seguito, all’inizio del XIX secolo” (p. 33), si contrappone un’interpretazione recente “molto più plausibile” (p. 34), che imputa “i Risvegli a innovazioni e strategie religiose organizzate” (ibidem); all’enorme “[…] quantità di scritti [che] attribuisce “l’esplosiva crescita” di nuovi movimenti religiosi, negli Stati Uniti nei tardi anni 1960 e nei primi anni 1970, a profonde cause sociali” (p. 39), si controargomenta con il consueto acume per l’essenziale della sociologa anglosassone Eileen Barker, la quale nota: “Coloro che conoscono un po’ la sociologia potrebbero restare perplessi nel constatare che non tutti i giovani adulti dell’epoca sono diventati membri [di nuovi movimenti religiosi], tanto esagerate sono alcune spiegazioni del fenomeno” (cit. ibid., pp. 39-40).
La “cifra” della tesi esposta da Stark e Introvigne a completamento di una rassegna nella quale sono fornite molteplici coordinate interpretative è che, in realtà, le dottrine religiose sono causa di comportamenti e che, alla prova della storia, esse — per quanto con variazioni circa le loro conseguenze sociali — sono efficaci nel generare impegno e azione: “[…] i sociologi alla fine non potranno più nascondersi dietro il relativismo culturale nei confronti delle dottrine religiose. Una volta ammesso che le dottrine contano, avremo alla fine “bisogno di verificare la possibilità che alcune teologie siano intrinsecamente più plausibili, comunicabili in modo più semplice ed efficace, capaci, più di altre, di soddisfare bisogni profondamente sentiti di un gran numero di persone”” (pp. 50-51). Precisato, a scanso d’equivoci, che così argomentando “[…] non ci stiamo spostando dalla sociologia alla teologia” (p. 51), i due autori si chiedono dunque “che cosa renda una dottrina socialmente efficace” (ibidem), ovvero persuasiva, credibile e produttiva di risultati sociali, identificando alcuni pilastri di tale discorso nella “plausibilità” (p. 54), nella “chiarezza” (p. 52) e “motivazione sufficientemente insita nella dottrina” (ibidem), nella “portata delle richieste” (ibidem) e nel “valore delle ricompense e [nel]la severità delle punizioni“ (p. 53), in “qualche livello di ricompensa terrena in cambio dell’obbedienza ai loro [delle fedi] precetti” (ibidem); infine, “[…] le dottrine possono essere efficaci solo nella misura in cui possono presentarsi come autorevoli“ (p. 54).
Nel secondo capitolo, Esodo: quanto è secolarizzata l’Europa? (pp. 58-108), Stark e Introvigne affrontano un’ulteriore grande controversia — quella relativa alla secolarizzazione —, al cui proposito esistono due distinti paradigmi. Sommariamente, il primo — e più antico — di tali paradigmi afferma che, “[…] a mano a mano che la conoscenza scientifica avanza, la società si secolarizza e la domanda religiosa viene meno. La modernità implica anche il riconoscimento della libertà di coscienza, che in numerosi paesi determina la nascita di un pluralismo religioso. Quest’ultimo è a sua volta estremamente dannoso per le religioni, perché la presenza di religioni diverse mette in dubbio la plausibilità e la credibilità di ciascuna di esse” (p. 8). Sul filo di questa classica rappresentazione della “teoria della secolarizzazione”, l’opinione dominante si è fondata, per molti decenni, sul basso livello di pratica religiosa in molte nazioni europee, sull’ipotesi che in tali contesti geografici il credere fosse in declino e che pure in declino fossero il potere e la presenza della religione nella vita pubblica, al punto che “[…] non solo la secolarizzazione è stata giudicata inevitabile, l’opinione dominante è stata che la secolarizzazione sia una condizione pervasiva, che una volta raggiunta è irreversibile e istilla immunità dal misticismo” (pp. 58-59).
Tuttavia, l’enorme vigore religioso negli Stati Uniti d’America — dove, nonostante l’immensa popolarità della scienza e l’alto livello d’istruzione, la religione non mostra alcun segno di declino — ha da sempre costituito una grande difficoltà all’applicazione della “teoria della secolarizzazione”, e un’approfondita analisi dei dati statistici e delle implicazioni teoriche pone in rilievo come non si possa liquidare la problematica riconducendola semplicemente a un’“eccezione americana” (p. 109), ma induce a “[…] contrastare l’affermazione che le nazioni dell’Europa Occidentale siano tutte e davvero secolarizzate” (p. 60).
La riflessione che ne segue discute quindi i dati statistici anzitutto proponendo Una teoria della mobilitazione religiosa (pp. 62-72), formulata sulla base del secondo paradigma in tema di secolarizzazione, ovvero la “teoria dell’economia religiosa”, la quale esamina il fenomeno religioso secondo i criteri propri dei mercati di beni e servizi, postula che la domanda religiosa tende a rimanere costante nel tempo e si pone nell’ottica dell’offerta, concludendo che la presenza più o meno intensa della religione nelle società dipende — a meno d’interventi da parte dello Stato, che distorcono il “mercato” — “[…] dalla capacità e dallo zelo delle religioni nel proporre offerte attraenti per i potenziali fedeli” (p. 9).
Già nella sesta tesi della “teoria della mobilitazione religiosa” — ove si precisa che “[…] nella misura in cui in un’economia religiosa in passato altamente regolata dallo Stato si verifica una deregulation, la società si “desacralizza”” (p. 67), ovvero “[…] dove vi è una pluralità di imprese religiose, nessuna di esse è sufficientemente potente da mantenere la sacralizzazione” (ibidem) —, gli autori segnalano una possibile consonanza fra i concetti di “desacralizzazione” e di “secolarizzazione”, per quanto l’apparente finalità puramente tecnica di questa distinzione terminologica serva a fare da ponte a un più sostanziale approccio critico al concetto di “secolarizzazione”. Se per secolarizzazione s’intende un processo qualitativo che porta a una minore influenza della religione sulle scelte che la società compie — cioè a un mutamento della qualità della religione —, “[…] in questo senso la secolarizzazione, da un certo punto di vista, coincide con quella che noi chiamiamo “desacralizzazione”” (p. 72). Tuttavia, il significato comunemente attribuito al termine “secolarizzazione” intende il fenomeno in senso quantitativo — in quanto tale suscettibile di verifiche empiriche e alla prova dei fatti risultato inadeguato —, “[…] come riduzione dell’interesse per la religione e della credenza religiosa. […] si vuole dire che c’è meno religione” (p. 73).
Sulla scorta di queste premesse teoriche — ove non è messa in discussione una semplice teoria, bensì il paradigma centrale di quasi tutta la sociologia della religione contemporanea, nonché il substrato a fondamento ideologico della cultura che ne ha svolto la funzione di vettore — Stark e Introvigne esaminano alcune Prove preliminari della teoria (pp. 79-84). Così, per esempio, “una […] verifica della teoria [dell’economia religiosa], offerta nel 1992, si concentra sul cattolicesimo […]. Basato su quarantacinque nazioni in cui la Chiesa cattolica è attiva, lo studio esamina la tesi secondo cui il livello di impegno del cattolico medio varia in misura inversa alla proporzione di cattolici tra la popolazione. La Chiesa cattolica risulta più efficace nel mobilitare i suoi membri dove essa si confronta con economie religiose pluralistiche […] e meno efficace dove essa stessa si avvicina a una posizione di monopolio” (p. 80).
Svolte altrove e preliminarmente le opportune distinzioni fra comportamento religioso organizzato e atteggiamenti religiosi soggettivi, “appartenenza […] e credenze“ (p. 61), e fra “affiliazione […] e pratica religiosa“ (ibidem), una parte del secondo capitolo, Religione soggettiva e domanda potenziale (pp. 94-99), è dedicata a evidenziare le ambiguità intrinseche della “teoria della secolarizzazione” anche quando applicate all’Europa contemporanea, ove non la s’intenda quale processo qualitativo. Un esempio fra gli altri presi in considerazione muove dall’analisi dell’Islanda, spesso presentata come una delle nazioni più secolarizzate della Terra in quanto solo il 2% della popolazione frequenta settimanalmente una chiesa e perché caratterizzata da una certa rilassatezza dei costumi sessuali. Per contro, assai diversamente da quanto ci si aspetterebbe di verificare nella società “più secolarizzata del mondo”, nella stessa Islanda si rilevano “[…] alti livelli di devozione religiosa individuale […], preghiera personale, e alti tassi di battesimo; inoltre, […] quasi tutti i matrimoni si svolgono in chiesa e […] “la credenza nell’immortalità dell’anima è diffusa”” (p. 95); il 74% degli islandesi si dichiara religioso, l’82% prega almeno occasionalmente “[…] e solo il 2% si proclama ateo. Ovviamente questo non è quanto nel linguaggio comune si intende per secolarizzazione” (p. 96).
A conferma delle linee di tendenza anticipate dall’Inchiesta Mondiale sui Valori del 1990-1991, discussa nel secondo capitolo, nel 1999 si sono aggiunti i risultati dell’Inchiesta Europea sui Valori, esaminata — assieme a numerose altre fonti — nel terzo capitolo, Numeri: pluralismo e risveglio religioso in Italia (pp. 109-132). Infatti, come l’America del Nord è risultata essere la “pietra d’inciampo” della “teoria della secolarizzazione”, l’Europa potrebbe costituire il banco di prova fallimentare della “teoria dell’economia religiosa”? E se la risposta a tale quesito fosse affermativa, aveva dunque ragione uno dei “padri nobili” della “teoria della secolarizzazione”, il sociolologo austro-americano Peter Ludwig Berger, il quale, riconoscendo nel 1997 di aver sbagliato a proposito della secolarizzazione, si chiedeva tuttavia: “Una delle domande più interessanti per la sociologia della religione oggi non è: “Come spiegare il fondamentalismo in Iran?”, ma: “Perché l’Europa Occidentale è diversa dal resto del mondo?”” (cit., p. 110).
Infatti molti osservatori, analizzando la situazione religiosa europea, hanno notato la grande differenza fra livello di credenza e livello di pratica religiosa, il che ha spinto per esempio la sociologa Grace Davie “[…] a caratterizzare la religiosità degli europei come un “credere senza appartenere” (believing without belonging)” (p. 111). Per interpretare i bassi livelli di affiliazione religiosa in Europa, i sostenitori della “teoria dell’economia religiosa” affermano che non si debba far ricorso al rapporto secolarizzazione-modernità o alla presunta non plausibilità della fede, ma che tale situazione sia l’effetto “[…] di mercati religiosi altamente regolati e monopolistici” (p. 110), che hanno quale risultante il “[…] prevenire una sana concorrenza: Chiese protette e sostenute dallo Stato tendono a diventare inefficienti; come risultato, ne soffre la religiosità in generale” (ibidem). Per Stark e Introvigne, la riluttanza europea a esprimere le proprie credenze in maniera attiva muove da una meccanica in cui vengono messe in causa le Chiese maggioritarie, che si sono date poco da fare per attirare i fedeli: “In realtà, se c’è un gruppo umano in Europa in cui la secolarizzazione è davvero penetrata in profondità, questo è il clero delle Chiese monopolistiche, che in gran parte non solo non è stato capace, ma non ha voluto svolgere attività missionaria” (ibidem).
Per esemplificare ulteriormente su un terreno concreto europeo d’indagine gli elementi essenziali della “teoria dell’economia religiosa” — la regolamentazione statale dei mercati religiosi sopprime la concorrenza e i gruppi religiosi “protetti” fanno pochi sforzi per attirare fedeli, incentivando le prospettive carrieriste, alimentando una diffusa apatia religiosa e favorendo un indebolimento delle credenze; mentre la deregulation produce risveglio religioso, con conseguente crescita delle attività religiose organizzate e maggiore incisività e socializzazione delle credenze —, Stark e Introvigne mettono alla prova le loro ipotesi nel caso dell’Italia, che negli ultimi decenni è stata “[…] fiduciosamente inclusa fra le nazioni europee che stavano inevitabilmente scivolando verso una situazione di piena secolarizzazione” (p. 113). Alla luce di una disamina degli sviluppi storici de L’economia religiosa italiana tra controllo e “deregulation” (pp. 114-119) — dallo Statuto Albertino del 1848 al Concordato del 1929, dalla Costituzione repubblicana del 1948 al nuovo Concordato del 1984, dalla prima Intesa, sempre del 1984, con la Chiesa valdese alla stipula di un’ulteriore Intesa, non ancora ratificata, del 2000, con i testimoni di Geova — e di un’attenta osservazione del pluralismo religioso nella penisola, gli autori dimostrano — cifre alla mano — che “[…] il recente rapido sviluppo di un’economia religiosa italiana caratterizzato dalla concorrenza è stato tra le cause di un sostanziale risveglio religioso; la pratica religiosa è risalita, e così pure le credenze religiose, fra cui alcune tipicamente cristiane” (p. 114).
I dati di questo risveglio religioso in Italia mostrano quindi che, anche nel contesto europeo — di più, in una nazione europea, l’Italia, a proposito della quale il sociologo belga Karel Dobbelaere affermava “[…] con sicurezza che “la fine della religione era vicina”” (p. 113) —, nonostante la pigrizia delle Chiese monopolistiche sia la causa principale di un basso livello di religiosità, la deregulation del mercato religioso produce prima o poi forme di risveglio religioso: “Ed è successo proprio così, per quanto la percezione pubblica del fenomeno rimanga modesta” (p. 127). Gl’indicatori statistici a supporto di queste osservazioni parlano in un certo senso da soli: dal 1981 al 1999 la percentuale di giovani che afferma di credere in Dio è cresciuta dall’83% al 94%, la frequenza settimanale alle cerimonie religiose è passata dal 35% al 40%, la credenza in una vita futura è aumentata dal 47% al 61%, i giovani che credono all’esistenza dell’Inferno sono passati dal 21% al 45%, coloro che si dichiarano cattolici praticanti sono cresciuti dal 33% al 38%, mentre la popolazione che non considera importante la credenza in Dio è scesa dal 19% al 5%.
Per quanto, se paragonata a quella degli Stati Uniti d’America, la deregulation del mercato religioso in Italia sia un fatto piuttosto recente, limitato e caratterizzato da livelli modesti di concorrenza, e sebbene vada riconosciuto che, nella penisola e nella maggior parte delle nazioni cattoliche europee, la Chiesa cattolica “[…] non è uscita così malridotta dal trovarsi in una situazione di monopolio come è avvenuto alle Chiese di Stato protestanti in altri paesi” (p. 130), non è mai stata sottoposta a un controllo asfissiante dello Stato e “[…] ha potuto beneficiare di un alto livello di concorrenza interna, che ha bilanciato l’assenza di concorrenza esterna” (ibidem); tutto questo detto, rimane il fatto che si assiste a un fenomeno di risveglio non effimero, come sembrerebbero testimoniare anzitutto i dati relativi al mondo giovanile.
D’altro canto, come Stark e Introvigne puntualizzano concludendo l’Introduzione, il reale è naturalmente più complesso delle formule, dei dati, delle statistiche e delle teorie, e ne deriva la possibilità che a molta religiosità soggettiva non corrisponda un magis circa la qualità del fatto religioso contemporaneo, ovvero “poca influenza della religione sulla vita culturale, sociale e politica” (p. 13). Si potrà quindi, ragionevolmente, ma in quest’ottica, ancora argomentare sul declino della religione o sulla “scristianizzazione” dell’Occidente, senza dimenticare però — requiem per i teorici della secolarizzazione e ammonimento per i missionari auto-pensionatisi — che il futuro della religione, come terminano gli autori, “appare tutt’altro che precario” (p. 132).
PierLuigi Zoccatelli